L’inizio … della storia…

3 novembre 2013 

Ecco l’attimo con il quale noi iniziamo a scrivere pregustando l’idea che è qualcosa di esclusivo, immaginando comunque che in una dimensione prossima qualcuno legga il tutto e lo viva. Il momento iniziale per scrivere un verso o una riga di un probabile romanzo, irresistibile, riappare innumerevoli volte.

Tentativi e fantasie che intimano la nascita immediata del componimento, moltiplicano riti preparatori nel realizzare questo primo atto visto come sicuro, immediato e spontaneo. Alcuni scrivono preparando fogli, penne, dizionari o sedendosi davanti al computer, altri ancora nei posti più impensabili durante le faccende quotidiane.

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Massimo Troisi e Philippe Noiret, nel film “Il Postino”

L’inizio: immaginiamo storie e versi di poesie. Ricerchiamo luoghi classici e ci avviciniamo ai grandi scrittori, per esserne subito impietriti. Corre la fantasia nel formulare intrecci e storie che velocemente s’intersecano con spicchi delle nostre vite, il più delle volte mentendo e variando continuamente gli scenari, credendo che siano accaduti. O più semplicemente con pervicace volontà vogliamo creare un mondo nuovo. Arriva il blocco dopo due righe, oppure scriviamo con ipnotico getto una riga dopo l’altra come se parlassimo a un pubblico immaginario. Raccontiamo a noi stessi una storia, con un inizio, un punto di conflitto, un dubbio e immaginiamo la fine a ogni ripresa, oppure cerchiamo di seguire le parole accodando un termine dietro l’arto ascoltando il correlativo sonoro. Se perdiamo l’incanto di scrivere, il nostro corpo ridiventa pesante svuotandosi di parole, come se la trama che stavamo generando fosse evaporata e cerchiamo di inseguire relitti di pensiero che spariscono come vapore da una finestra in inverno cui abbiamo appena alitato. E tutto ritorna nel silenzio…. ma non demordiamo e anche se non riuscissimo negli intenti, ad occhi aperti sogniamo di ricominciare.

Che fate voi per iniziare? Quali sono i riti nel raccontare la storia del vostro vissuto (falso o verosimile non ha importanza)? O ancora, quale luogo e tempo state cercando per iniziare?

In stampa il libro “Reciproche rinascite”

13 ottobre 2013 

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Come rinascere da adulti senza arrecare dolore

 

Dopo la mia prima pubblicazione, il libro di poesie con immagini Sogni Sospesi, giungo a un altro appuntamento con me stesso, per offrire ai lettori una nuova condivisione di stati d’animo ed eventi del vivere quotidiano, che ritengo comuni per ognuno di noi: “Reciproche rinascite”.

L’offerta è discreta, perché ogni rinascita che non neghi il passato comporta e aspetta quella dei pari. La mia ipotesi è che ogni rinascita sia sempre corale, e in tal modo essa possa rappresentare un’effettiva e radicale trasformazione.

Questa raccolta di 50 poesie accompagnate da immagini, di cui alcune a colori, intende suscitare nel lettore riflessioni e stimoli sul mondo, sui rapporti umani e sulle meraviglie che ciascun essere vivente porta con sé.

Il libro in versione brossura lo puoi trovare su Youcanprint: QUI e su IBS QUI

e in formato ebook:

Amazon – formato mobi: QUI
Feltrinelli – formato epub: QUI
Ultima books – formato epub – mobi: QUI

#19 Contaminazioni: Seamus Heaney: il poeta che unisce intenzione, intuizione e casualità

17 settembre 2013 

Séamus Heaney (Castledawson, 13 aprile 1939 – Dublino, 30 agosto 2013) è stato un poeta irlandese, Premio Nobel per la Letteratura nel 1995, massimo rappresentante contemporaneo del rinascimento poetico irlandese. Seamus parlava con tutti guardandoli negli occhi: nelle conferenze universitarie e nei pub; di cose sacre e quotidiane.

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Recentemente è tornato alla ribalta per la dipartita, ma va bene anche il lutto: esprime la memoria, perché è un fatto e un rito ancestrale che è antecedente alle religioni attuali. Lui è un esempio di cura, studio, perseveranza e certamente non solo pigra intuizione e improvvisazione. Ha vissuto in prima persona il connubio di teoria e prassi, perché le attività del poetare implicano immediatamente le nozioni di produrre, fare, fabbricare, progettare, toccare terra.

Vangando – Digging

Quatta quatta con il colpo in canna
Fra medio e pollice sta la penna.

(Between my finger and my thumb
The squat pen rests; snug as a gun.)

Sotto la finestra un raspo netto all’internarsi
Della vanga nel terreno ghiaioso:
È mio padre che dissoda. Guardo in basso,

Finché sotto sforzo, a groppa curva
Sulle aiuole, torna venti anni indietro
Piegandosi a tempo per i solchi
Di patate che vangava.

A posto sul vangile lo scarpone,
Saldo fulcro del manico il ginocchio,
Cavava gambi, ficcava a fondo la lucente lama
Per spargere patate nuove che noi raccattavamo
Adorandone fresca la durezza nella mano.

Per Dio, il vecchio ci sapeva fare
Con la vanga. Come il suo vecchio.

Mio nonno in una giornata tagliava più torba
Di chiunque altro nella torbiera di Toner.
Una volta gli portai il latte in una bottiglia
Sciattamente turata con la carta.
Si raddrizzò per bere e subito riprese

Con cura a fare tacche e fette, spalandosi le zolle
Dietro le spalle, sempre più a fondo
A cercare quella buona. Scavando.

Il freddo afrore di terriccio di patate, risucchio e stacco
Da torba in guazzo, secco taglio della lama
Nelle radici vive, mi si risvegliano in testa.
Ma non ho vanga per seguire uomini come loro.

Fra medio e pollice
Quatta quatta sta la penna.
Sarà la mia vanga.

(Between my finger and my thumb
The squat pen rests.
l’ll dig with it.)

—–

Per Seamus la scrittura poetica non è confinata all’ottica del singolo e scaturisce dalla matrice popolare fatta anche di tonalità musicali desunte dalle canzoni folk ed è come se ricevesse un mandato dalla comunità di origine e di appartenenza, cercando nel contempo un contatto con la letteratura europea. La memoria tratta dalla tradizione orale è la fonte che permette al poeta di cogliere la totalità del reale, attraverso oggetti dell’infanzia e del lavoro rurale. Il poeta coglie il senso del “noi” quando dichiara nella prassi un impegno etico, in particolar modo degli irlandesi.

Seamus sente la questione nordirlandese tra i propri conoscenti e famigliari specie negli anni settanta e scrisse anche su Bobby Sands (Robert Gerard Sands – Belfast, 9 marzo 1954 – Long Kesh, 5 maggio 1981, è stato un attivista e politico nordirlandese, volontario della Provisional Irish Republican Army. Eletto membro del parlamento britannico mentre era detenuto nel carcere di Maze, a Long Kesh, ivi morì il 5 maggio 1981 a seguito di uno sciopero della fame condotto ad oltranza come forma di protesta contro il regime carcerario cui erano sottoposti i detenuti repubblicani), ma seppe distinguere il ruolo del politico da quello dell’attivista e ancor più dal poeta, infatti lasciò l’Irlanda del Nord nel 1972 e si stabilì a Wicklow, nella Repubblica d’Irlanda.

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In una intervista Seamus parla della sua storia di poeta e di come lui si sentisse tale dopo aver pubblicato tre libri, non prima. E in particolare di come la poesia debba trovare la sua dimensione tra questi due opposti: il porsi costantemente la domanda “qual è il compito della poesia?” e al tempo stesso esprimere la propria condizione umana – privata. La questione irlandese era in lui trasfigurata nella condizione di ogni popolo. Infine, proprio perché la memoria si trae dalla propria terra, si intuiscono singoli tratti di una visione globale della realtà avendo a mente l’intenzione di condividerlo con la propria comunità senza seguire a priori regole e prescrizioni formali e oppressive.

Lui è il poeta che con la intenzione, la parola e il suono espone la relazione originaria tra l’io e il suo stare nel luogo di tutti i popoli.

#18 Contaminazioni: Bulat Šalvovič Okudžava: il poeta-cantore dell’orrore e della compassione

9 settembre 2013  

Bulat Šalvovič Okudžava (Mosca, 9 maggio 1924 – Parigi, 12 giugno 1997) è stato un cantautore e poeta russo di origini georgiane, esponente del genere musicale russo chiamato “Canzone d’autore”. Ha composto oltre duecento canzoni ed è stato pluripremiato per la sua poetica, impostata sul genere del canzoniere, poi ripresa da altri cantautori come il francese Georges Brassens. Fu conosciuto come poeta e bardo (cantautore) dopo gli anni cinquanta e considerato un pericolo per le sue poesie e canzoni: famoso all’estero e con l’impossibilità di pubblicare in patria. Si narra che Breznev, avesse espresso il desiderio della sua morte, consapevole però di aumentare ancor più la sua popolarità diffusa tra i russi che cantavano le sue canzoni per strada, nelle locande e nei bar, in particolare nelle fredde sere dell’inverno russo. Un poeta armato di chitarra e dotato d’ironia. Suo padre, attivista del Pcus, rivoluzionario della prima ora, cadrà vittima di una delle tante purghe: fucilato negli anni ’30. Sua madre, militante anch’essa, berrà l’acqua congelata del Gulag per 19 anni. Altri nove fra i suoi parenti furono fucilati e poi tutti riconosciuti innocenti. Bulat, appena diciassettenne, correrà ad arruolarsi volontario per difendere il suolo patrio dalla minaccia nazista e sarà più volte ferito.

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E aprirà gli occhi sulla guerra come alleata della superbia e dell’avidità e canterà della sofferenza esprimendo la compassione.

GUERRA VIGLIACCA

Ah, guerra che hai fatto vigliacca!
I nostri cortili sono divenuti silenziosi.
I nostri bambini alzavano la testa,
diventavano grandi prima del tempo.
Si facevano appena vedere sulla via
e partivano: soldati, soldati…
Arrivederci, ragazzi! Ragazzi,
cercate di tornare indietro! (…)
Ah guerra che hai fatto vigliacca!
Al posto di nozze – distacchi e fumo.
Le nostre ragazze hanno donato
gli abiti bianchi alle sorelline. (…)

Il ritmo delle poesie ha una radice comune con le canzoni del bardo: parte dallo stomaco, attingendo alla tradizione dei canti, lenti prima e con picchi successivi in seguito, propri dei battellieri del Volga e delle nenie e dai racconti delle gesta degli eroi, degli amanti e della malattia, e quindi della vecchiaia e della morte. Bulat non offre teoremi e spiegazioni: esprime negli atti quotidiani l’orrore della guerra.

<<Non credere alla guerra, ragazzo,
non crederci, la guerra è triste,
è molto triste ragazzo,
la guerra è stretta come le scarpe

I tuoi bravi cavalli
non ci potranno far nulla,
tu sei tutto sul palmo della mano
tutto i fucili ti puntano.>>

/-/

E Bulat lo esprime con una tenera ironia che fa sorridere commossi. Il poeta confessa durante un concerto: «Quand’ho iniziato conoscevo tre accordi di chitarra, ma ora, dopo trentacinque anni di lavoro son migliorato… ne conosco cinque!»

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Come cantare l’orrore e il terribile con dolcezza e compassione:

Concerto a Parigi, 1995. Premi QUI

CANZONE DELLA FANTERIA

Scusate la fanteria,
se talvolta è così stolta:
sempre partiamo
quando sulla terra scoppia la primavera.
E con passo incerto
sulla scala che vacilla salvezza non c’è.
Solo salici bianchi
come bianche sorelle ti guardano andare

Non credete al tempo,
quando riversa piogge protratte.
Non credete alla fanteria,
quando canta balde canzoni.
Non credete, non credete,
quando negli orti gridano gli usignoli.

La vita e la morte
non hanno ancora saldato i conti.

A noi il tempo ha insegnato:
vivi come il bivacco, aperta la porta.
Compagno uomo,
è pur seducente la sorte tua:
tu sei sempre in marcia,
e solo una cosa ti strappa dal sonno.

Perché noi partiamo
quando sulla terra scoppia la primavera?

/-/

Era scomodo e temuto Bulat perché ascoltato da chi non leggeva e cantato da chi aveva lo sguardo basso, rivolto alla terra che è il vero motore di ogni ribellione e rivolta del popolo russo.

IN GUERRA CONTRO UN PAESE STRANIERO

In guerra contro un paese straniero il re partiva.
Un gran sacco di gallette la regina gli preparò,
il vecchio mantello con gran cura gli rammendò,
tre pacchetti di sigarette e anche il sale gli fornì.

E le sue mani sul petto del re andò a posare
e gli disse, carezzandolo con sguardo raggiante:
“Suonagliele bene, altrimenti passerai per pacifista
e di far bottino di buoni panforti non dimenticare”

E il re vide che l’esercito stava in mezzo al cortile:
cinque soldati tristi, cinque allegri, e un caporale.
Disse il re: “ Non ci fa paura la stampa, né il temporale.
torneremo vittoriosi dopo aver sconfitto il nemico vile!”

Ma presto finì l’esultanza dei discorsi trionfali.
In guerra il re cambiò l’assetto delle truppe:
i soldati allegri senza indugio intendenti nominò
e i tristi, soldati li lasciò: “ Così non sarà male!”

Pensate un po’: sopravvennero poi i giorni vittoriosi.
Dei soldati tristi dalla guerra nessuno tornò.
Il caporale di dubbia morale una prigioniera sposò,
ma catturarono un gran sacco di panforti saporosi

Suonate, orchestre; echeggiate, canzoni e risate!
A mestizia effimera non ci si deve abbandonare.
Non aveva senso per i soldati tristi in vita restare
e poi non bastavano per tutti i panpepati.

/-/

E non poteva essere imprigionato o ucciso, perché esprimendo la compassione di un popolo per i suoi figli, la condizione di martire avrebbe amplificato il suo messaggio ancora oggi vivo e attuale.

#17 Contaminazioni: Il Genere Muto

15 luglio 2013 

Le donne hanno inventato l’agricoltura e contribuito a organizzare la raccolta razionale dell’acqua in gruppi associati dalla notte dei tempi. Le donne hanno creato e ricreato i luoghi sicuri per tutti, e hanno permesso anche ai maschi di tramandare nel linguaggio e nei segni, la storia e la biografia del gruppo e del clan. Nei secoli la titolarità e i nomi di coloro che hanno detenuto le tecnologie della parola e della memoria, sono stati i maschi.

La casa sicura che è stata da sempre fonte di vita, per la donna fu ed è anche la prigione oscura di catene imposte nella violenza fisica e nelle parole che ordinano il mondo e il tempo.

Le donne hanno cercato comunque autonomia nelle attività di produzione, di commercio dei manufatti della terra e della cultura e della memoria. Più di due miliardi di donne, dentro casa, come detenuti condannati all’ergastolo, in libera uscita solo con il promesso sposo per il matrimonio o accompagnato da un parente maschio per il funerale, detengono quella piccola economia che permette agli altri due miliardi e più di persone di lavorare sottocosto per i potenti del luogo e per i paesi tecnologicamente avanzati.

Da sempre in gruppi e a titolo personale le donne hanno cercato di porsi e ancora oggi e sempre di più, come titolari autonomi della propria soggettività: di disporre del proprio corpo e di poter dichiarare almeno il proprio stato di minorità. E rimangono un genere muto.

Nadia Anjuman nata indicativamente nel 1980 è stata una poeta e giornalista afgana. Nel 2005, quando era ancora studente alla Herat University, pubblicò il libro di poesie dal titolo Gul-e-dodi (“Dark Red Flower”), diffuso immediatamente in Afghanistan, Pakistan e in alcune zone dell’Iran. Parlava di sé, di tutte e, senza offendere, lasciava apparire le emozioni e mostrava che anche una donna può parlare totalmente del mondo prescindendo da imposizioni millenarie. In più, assieme ad altre donne creò un circolo letterario di studi su William Shakespeare and Fyodor Dostoevsky. 

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Nadia Anjuman – Immagine presa QUI

E chiarì subito la questione:

SONO IMPRIGIONATA IN QUESTO ANGOLO

Sono imprigionata in questo angolo piena di malinconia e di dispiacere. Le mie ali sono chiuse e non posso volare.

Perché non si può parlare, ma la poesia è parola ancora prima del testo scritto, perché esce dal corpo:

NESSUN DESIDERIO PER APRIRE LA MIA BOCCA

[…]
La mia bocca dovrebbe essere sigillata.
Oh, il mio cuore, lo sapete, è la sorgente.
E il tempo per celebrare.
Cosa dovrei fare con un’ala bloccata?
Che non mi permette di volare.
Sono stata silenziosa troppo a lungo.
[…]
Io non sono un debole pioppo
scosso dal vento.
Io sono una donna afgana.
E la (mia) sensibilità mi porta a lamentarmi.

Perché le catene non possono contenere l’aria, il respiro e l’afflato poetico.

CATENE D’ACCIAIO

Quante volte è stata tolta dalle labbra
la mia canzone e quante volte è stato
azzittito il sussurro del mio spirito poetico!
Il significato della gioia è stato
sepolto dalla febbre della tristezza.

Se con i miei versi tu notassi una luce:
questa sarebbe il frutto delle mie profonde immaginazioni.
Le mie lacrime non sono servite a niente
e non mi rimane altro che la speranza.

Nonostante io sia figlia della città della poesia,
i miei versi furono mediocri.

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Immagine di David Walker presa QUI

Nonostante io sia figlia della città della poesia,

i miei versi furono mediocri…

E io dico felice archivio:

ma furono lo stesso ritmati
dal corpo del poeta,
che sente l’anima di un popolo
e di un genere tra i secoli e i continenti,
e che la trasmette con voce primordiale
nel ridefinire il mondo a cavallo del tempo.
Nadia Anjuman fu definitivamente ammutolita dal marito il 4 novembre 2005.

*9 Special Guest: Pane e scrittura. La somma è più delle parti

2 luglio 2013 

Domenica 30 giugno 2013
 alla Libreria Galleria delle Arti l’Universale – Via F. Caracciolo 12 – Roma, si è tenuta la presentazione del Libro “Parole di Pane” un progetto antologico di racconti sul cibo, promosso da Diana&Emma, nelle persone delle scrittrici Diana Sganappa e Emma Saponaro. I partecipanti, tra i quali il sottoscritto, hanno presentato un solo racconto, edito o inedito, avente ad oggetto un aneddoto sul cibo, frutto di fantasia, vissuto in prima persona o tramandato da un familiare di una passata generazione o di altro Paese.

Una corale testimonianza dei cambiamenti intervenuti nella società con riferimento al cibo.

I proventi dell’antologia sono destinati per scopi pubblici e sociali.

Le fasi di valutazione e di redazione del testo hanno coinvolto differenti professionalità e all’evento hanno partecipato critici letterari, prof.ri Universitari, ed è stato intervallato da esecuzioni pianistiche e teatrali.

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Nella realizzazione del progetto, gli scrittori secondo competenza e possibilità sono intervenuti per l’allestimento e l’organizzazione dell’evento nelle sue fasi.
La premiazione dei cinque racconti che hanno ottenuto la preferenza di tutti gli autori secondo un rigoroso procedimento di autovalutazione, sono stato letti da attori e critici letterari con riflessione annessa sul cibo, la socialità, la storia e il presente.

L’incontro in presenza di ognuno con cui si era interloquito solo per via telematica e residente all’estero e in varie parti d’Italia, oltre ad essere stato commovente ed esaltante, ha offerto l’opportunità di mettere a nudo per pochi attimi alcune parti di sé per un ampliamento ulteriore sui diversi approcci e stili nello scrivere.

È apparsa la meraviglia di gioire di ognuno: scrittori già in opera, neofiti e professionisti per attività collaterali a quelle dello scrivere. Tutti assieme nell’offrire un lavoro corale. 

 

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Gli ingredienti del progetto, impastati a dovere e con una eccellente lievitazione, hanno offerto una variopinta esposizione di stili di scrittura con sapori sempre cangianti come il pane.

Il prodotto, gli autori e il pubblico sono usciti con qualcosa in più. Il tutto è stato felicemente eccedente rispetto alle parti. Generoso come il pane.   

Il libro lo puoi trovare QUI

@16 PoeticaMente: Anniversario di un sogno sospeso

10 giugno 2013 

Di questi tempi un anno fa, appena di ritorno da Riga (Lettonia) decisi di scrivere un libro di poesie, poche delle quali erano allo stato embrionale e tante immagini e foto e quadri che avevo vissuto e condiviso nel mio inconscio e in presenza con tanti amici, anche virtuali. Un sogno sospeso che fu calò nella veglia.

Nella mezzanotte del solstizio d’estate alla fine di maggio, come per incanto nel cammino del cantiere navale del porto di Riga, dietro ai miei pensieri inespressi, arrivai all’ultimo lembo, di là dal quale cominciavano le foreste che più a nord si inoltrano per le coste Russe fino in Finlandia.

E il Sole invece di sparire nell’orizzonte, per una tensione inversa iniziò a risalire come se stesse per esplodere. Ma ciò che cambiò fu il cielo: da un grigio azzurro ondeggiante sul violaceo, nel tempo di in un battito di ciglia, divenne giallo arancione e tutto intorno vi fu un silenzio d’attesa.

E venne un lampo, ma non da fuori: un turbine di idee si condensò in rime, proprio mentre stavo scattando questa foto.

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La mattina stessa mi feci aiutare da un collega natio, di ritorno nella sua casa, per scrivere alcune righe in assonanza allo stile del poeta lettone Imants Ziedonis (3 maggio 1933 – 27 febbraio 2013). Nelle ore successive in stato di ipnosi auto indotta, scrissi alcuni appunti pensando al porto e al Sole, dove quest’ultimo mattino aveva già preso congedo dalla base dell’orizzonte. E poi azzardai alcune sonorità di una lingua per me estranea, se non per alcuni termini di Ziedonis. Quell’embrione di scritti nelle settimane successive divenne la poesia “Il semicerchio del giorno”, del mio libro “Sogni Sospesi”.

Il semicerchio del giorno

D’ombre d’acqua di cielo distese,
ondeggi ogn’ora sulla sottile traccia.
Strette superfici stringono saette
di raggi diffusi sul cieco fondale.

Improvvisi tremolii d’iridi cremisi,
spingono tue sfocate scie sotto
solidi sigilli, interrati in scrigni
d’affannate notti dormienti.

Attese risposte non sottrai
attorno agli assorti sguardi.
Accolte veglie invocate, infondi
in foniche inferme fiamme.

Crepuscoli compressi contieni navigando
attorno all’oscillante anello aereo e
nell’occhio d’orizzonte d’ogni desiderato
senso, accarezzi alfine le palpebre distese.

Che tiene conto della sonorità della lingua lettone, come questa traduzione imprecisa e superficiale, scritta tenendo conto dell’ammirazione quel semicerchio di colori in continua mutazione.

 

Pusaplis dienas

Ūdens plašumiem debesu ēnas, kas
šūpoties katru stundu uz šauras.
Šaurās virsmas shaking darting stariem
plaši izplatīta jūras dibena neskaidra.

Pēkšņas mirgo sarkanās trīce,
push jūsu izplūdušu takas
cietās blīves, kas ir ietverti lādes
bezmiega naktis un nemierīgi.

Netiek ņemta vērā paredzamo atbildes
ar acīm, kas jūs brīnums.
Pieņemt faktu jautājumiem un izplatīt liesmu
un skaņas visu ugunsgrēku.

Jums pārlūkot uz mazām twilights
ap gredzenu plaknei, kas svārstās
pagrieziena pie apvāršņa,
kur katrs plakstiņa ir difūzs glāstīja.

 

E di ritorno in Italia a giugno continuai a richiamare sogni del passato e gli echi di quelli futuri, oscillanti anche nella sospensione del semicerchio del giorno.

*8 Special Guest: Avamposti del reale

3 giugno 2013 

Difficile riconoscersi nello specchio. Non appaiono solo figure e contorni nei battiti delle ciglia e delle luci. I riti del risveglio secondo le divinità del tempo scandito in misure sessagesimali nel trillo e nella scansione degli schermi di casa, informano di un moto a conduzione lineare e unidirezionale. I processi fisiologici del risveglio ricevono conferma in un vetro che riflette forme di luce, aventi la fede di essere individuate in un corpo.

Qui e ora.

E l'<io> trae coerenza in conformità alle carte di identità e alle chiavi di accesso digitali e meccaniche per accedere a spicchi di mondo che si risvegliano assieme a noi. La preparazione del cibo e delle bevande e i riti di pulizia e vestizione, in perenne mutazione, infondono un sentimento di tranquillità e automaticità nell’esecuzione. Il compiacimento dell’agire ciclico edifica ogni giorno la casa sicura di uno spazio e di un tempo che promette costanza e univocità.

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Alfredo Araujo Santoyo – Immagine presa QUI

Eppure pensiamo ed agiamo con immagini che oltrepassano le movenze e gli scopi del giorno. Saltiamo e giochiamo ogni secondo tra visioni del futuro e continue riprese delle trame del passato.

Istituiamo l’al di là del mondo che ci inquadra in ruoli da offrire agli “altri”, ricercando significati per il futuro che fantastichiamo.

Vestiti davanti allo specchio, proiettiamo avamposti di quello che vorremmo e potremmo essere sui dossi delle fantasie e sulle pianure della immaginazione. E tutto ciò è reale, più reale, perché emerge un senso che orienta e condiziona il nostro agire.

AVAMPOSTI DI ME

Vedute estirpate da fiducie radicate
in tele ripiegate da minuti oscillati,
divaricano moltitudini interrate
in sterpaglie scosse dalle esili orme perdute.

Da sogni mai accaduti, richieste patite
infondono l’altrove e diversi altri passati,
invitando i ricercati ospiti di inverate
speranze, in risacche d’onde decadute.

L’originale e rinnovata vicenda scorge
una curiosa e vitale composizione,
dove ogni possibile evento sopraggiunge.

Sostrati razionali innalzano analogie
infuse e ospitate da interminabili sogni
che reinventano le necessarie magie.

Child in Time. – “Deep Purple”. Per ascoltarlo premere QUI 

*7 Special Guest: Le Donne e il Mare

27 maggio 2013 

Presento un testo da poco uscito dove partecipo con un mio racconto dal quale l’immagine correlata è anche quella della copertina.

“Le Donne e il Mare” è raccolta di racconti di autori del gruppo FB “Libri Stellari”, con illustrazioni a colori di Diego Luci su carta patinata,

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Reperibile QUI

Un’antologia di 23 racconti dedicati all’universo femminile in relazione con il mare, composti da autori più o meno conosciuti i quali hanno accettato la sfida di creare una storia rimanendo nel limite massimo di 1.000 battute.

I racconti abbracciano diversi generi letterari. Si va dai toni drammatici relativi agli amori impossibili, alla violenza sulle donne e a vicende ironiche che suscitano il sorriso; dalla celebrazione del mare e dei sentimenti alla fiaba, alla prosa poetica e ai riferimenti mitologici. Oltre che sulle doti morali si medita talvolta sulla bellezza fisica, accennando alle pulsioni erotiche dei protagonisti.

Le 23 illustrazioni a colori realizzate da Diego Luci, altamente evocative, colgono l’essenza della storia che segue. I capolettera simili a miniature medioevali, offrono un manoscritto fiabesco, emerso come per incanto dagli scaffali di una biblioteca misteriosa.

È disponibile anche in formato ebook su Amazon QUI.

 

@15 PoeticaMente: un mostro nella norma

21 maggio 2013 

Jorge Rafael Videla Redondo (Mercedes, 2 agosto 1925 – Buenos Aires, 17 maggio 2013) è stato un militare argentino, che fu dittatore e presidente de facto del suo paese tra il 1976 e 1981, nonché responsabile di crimini contro l’umanità.
Il suo governo fu contrassegnato dalle violazioni dei diritti umani e da contrasti frontalieri con il Cile che per poco non sfociarono in una guerra. È stato condannato a due ergastoli e 50 anni di carcere per crimini contro l’umanità, tra i quali l’assassinio e la tortura di 30000 persone. Scontò la pena nel carcere Marcos Paz di Buenos Aires, fino alla sua morte.

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Videla. Immagine presa QUI

TU, Videla metti a dura prova la laica pietà per i morti. Troppo facile inscriverti nella categoria dei tiranni o dei dittatori sadici e abietti, o in quella degli esecutori freddi e inumani.

TU, le forze di repressione, gli apparati finanziari e industriali assieme ad elementi del clero e della media alta borghesia (come si diceva decenni fa) avete abilmente intrattenuto rapporti commerciali e politici internazionali per mantenere il potere.

TU e i mezzi di riproduzione culturale ed ideologica avete sfruttato il simulacro della guerra fredda tra Unione Sovietica e Cina contro USA ed Europa, traslando scenari politici nell’America del sud, per il semplice predominio. Infatti hai contribuito ad uccidere comunisti, socialisti, cristiani, libertari, liberisti, atei, agnostici, apolitici, anarchici, e persone che nemmeno sapevano dove fossero le due grandi superpotenze.

Ma non hai soltanto incarcerato, represso ed ucciso. Hai organizzato un efficiente e razionale sistema di soppressione delle persone e della loro rispettiva biografia. Hai rubato i loro figli piccoli e anche quelli che dovevano ancora nascere, aspettando che le madri in carcere partorissero per poi ucciderle, senza che il figlio potesse toccarle. Hai marchiato i nascituri con altre identità e li hai dati in adozione anche alle famiglie dei carcerieri. Beffa nella beffa questo sistema utilizzato anche da regimi dittatoriali del passato nazisti e comunisti come in Cambogia. Questo per sottolineare quanto queste parole siano abusate.

TU non sei stato un capo carismatico o emblema quasi sovrumano del male, come altri prima di te per i quali, in particolare per quell’austriaco, provo fatica a scrivere anche il nome. Anzi addirittura signorile e a modo nelle apparenze. Come al solito le biografie informali vociferano di qualche vizio. Ma in ogni caso il tuo corpo, la tua voce, la tua immagine non è eccezionale. Non si può neanche liquidarti come genio del male e credere che sia stata tutta colpa tua, affinché un popolo possa compiere un rito di sacrificio totemico del leader. Non si può neanche considerarti mediocre, perché intelligente lo sei stato.

Ed è questo il punto: né inumano, né sovrumano, né malato, né genio. E nemmeno semplice impiegato, perché di qualità ne hai mostrate anche dopo la tua deposizione e tarda incarcerazione per tutti questi ultimi trenta anni. Hai continuato, TE, e gli altri assieme a TE, a celare, ad arrecare violenze indirette nel velare la verità e mantenere ancora in sesto gli antichi apparati, seppur in forme diverse.

Ancora oggi la verità è violata. Non hai fornito ammissioni, anzi hai narrato di aver agito secondo necessità ed ordine. Nella norma. E senza mostrare una volgare ostinazione nella menzogna, non hai spiegato, ma coerentemente agito in modo discreto. E ogni tanto incipriandoti con la retorica per il bene del popolo argentino. Già: il popolo argentino!

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Videla – Immagine presa QUI  

TU, Videla, sei un problema per noi italiani, ancora di più che per le altre nazioni, perché alcune strutture ancora oscure nel nostro paese ti hanno aiutato. Ma questo è un elemento minore rispetto al dato di fatto che metà del popolo argentino negli anni ’70 e ’80 era ITALIANO. E tu sei presente anche da morto, perché tutto quello che avevi intorno, è qui in Italia. Noi non abbiamo fatto i conti con la nostra storia, avvolta in un apparente oblio che ci condiziona. Noi qui in Italia siamo schiavi di schemi e parole di decenni fa. TU sei un NOSTRO problema che continua.

TU non sei il male: lo hai accompagnato con discrezione e con sufficienti capacità. Consapevolmente hai arrecato dolore ogni giorno senza fermarti un secondo.

TU, anche da morto continui ad apparire come un rispettabile mostro nella norma.