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§CONSIGLI DI LETTURA: La chiocciola sul pendio



Collana: CIELO STELLATO

Arkadij e Boris Strugackij

“La chiocciola sul pendio” con una postfazione di Boris Strugackij Traduzione di Daniela Liberti

Carbonio Editore – Milano.

Titolo originale Улитка на склоне di Arkadij e Boris Strugackij Copyright © 1966.

Un libro poliedrico scritto a quattro mani dai fratelli Strugackij, in piena epoca sovietica, nel periodo di congiunzione tra le timide aperture di Krusciov con riferimento a una maggiore libertà di espressione in URSS, a quelle di ritorno a un controllo ortodosso di Kruscev. I fratelli Strugackij oltre a leggere e interessarsi di letteratura sempre di più negli anni, fino a intraprendere il mestiere di scrittori, curatori, pubblicisti, studiarono chimica, meccanica, ingegneria. Tale formazione, fu utile nell’uso e nella descrizione dei fenomeni biologici, geologici, chimici, meccanici nei loro libri e in particolare in ambito fantascientifico. L’uso di termini appropriati connotano una estrema verosimiglianza nella loro prosa. Il lettore entra con agio e leggerezza nei loro mondi, anche per l’uso di termini riferiti a strumenti consueti nel vivere quotidiano.

Negli anni, anche per non incombere nella censura e in problemi più pesanti, furono costretti ad un uso metaforico e satirico della loro poetica nel descrivere la realtà in cui erano immersi. Nonostante la loro scoppiettante capacità immaginifica, riescono a rendere la trama lineare. Questo romanzo dovette essere pubblicato all’estero. E il motivo è chiaro: vi è una critica alla burocrazia, all’amministrazione ottusa, alla volontà di controllare ogni aspetto della vita quotidiana, all’insensatezza di fondo in cui si reggono le organizzazioni preposte alla gestione del consenso e del controllo. Ma non sono, però direttamente rivendicativi. Cercano di ironizzare, mostrando le pratiche di ciò che era l’URSS nella quotidiana amministrazione in un modo fantastico, corredato da apparenti nonsense, quasi da richiamare i giochi di parole di Alice nel Paese delle Meraviglie. Scrittori abilissimi nello scrivere variando in diversi registri linguistici, mostrando una inventiva unica.

I due fratelli delineano personaggi che richiamano le caratteristiche delle leggende e delle fiabe russe, affinché il tema del “fantastico” sia un motore che avvia le scene, con luoghi topici delle favole come la foresta, la baita, la casa, la via, i funghi, gli animali della notte, i nani, le anime gloriose. La metafora degli spiriti nella cultura russa. Gli eventi sono descritti con aggettivi doppi e tripli, dove ognuno svolge la funzione dell’altro, sicché le persone diventano la loro funzione: l’origliatore, lo zoppo, il muto, pugnolesto, l’anziano, il giallo. E oltre alla predicazione vi è anche una relazione di attribuzione. Colori, forme, suoni, odori e posture assumono di volta in volta la funzione di predicato e la funzione di soggetto. Le descrizioni sono discendenti, gonfie, sovrabbondanti, ma nel ritmo della scrittura, come in una danza, tutto si tiene. Vi è un equilibrio nei dialoghi e nel ritmo. Tale iper caratterizzazione fornisce una visione fisica dei luoghi, degli eventi e si entra nella psicologia dei personaggi. E poiché questo è un mondo surreale, con frasi ossessive e deliranti da parte dei protagonisti, l’esplosione dei predicati verbali e nominali, per converso forniscono una logica coerente per accedere nel caos mentale dei protagonisti.

Ogni mania assume la veste di un patronimico russo dei protagonisti. Una propria carta di identità. La scansione veloce degli eventi permette al lettore di non disorientarsi e di seguire ogni scena avendo bene in chiaro l’insieme degli spazi immaginari e irreali. I luoghi come il canneto, la foresta, il villaggio, la distesa d’erba, i funghi, le radure dei morti viventi, assumono anche una funzione mitica. Come se si fosse dentro una Odissea con Ulisse che va da Circe e da Polifemo. Una prosa brillante, pazzoide, satirica eppure coerente, agile, fresca, ironica. E si avverte subito tra un registro fiabesco, mitico, fantascientifico, allegorico, satirico, d’avventura l’attacco contro l’amministrazione sovietica, nella veste della rigidità, del controllo, nell’illogicità a eseguire procedure emanate e scritte altrove, con logiche misteriose, esterne, formali, senza un riscontro immediato.

I dialoghi così serrati e veloci ma densi di immagini e di descrizioni, sono così ben scanditi da seguire passi di danza tra una domanda e una risposta dei dialoganti. E tra l’incomprensione reciproca, il conflitto, le litigate, il gioco dei termini omonimi e sinonimi, gli slittamenti semantici, si dispiega pian piano la trama, seminando per il lettore indizi su ciò che avverrà.

Una poetica avvincente per adulti e lettori molto giovani. L’assurdo come normalità, vestito di una involontaria ironia.

#RACCONTARE LA SCRITTURA. SECONDA PARTE.

Riuscii a comporre in modo organico le poesie, delle quali alcune pubblicate nei due libri, perché non praticai il mio modo usuale di scrittura, caratterizzata da una preliminare visione sistemica, seguita da una stesura analitica in settore delimitati, dove io ne ero al di fuori: freddo e calcolatore. Io divenni l’oggetto, nella veste della mia sensibilità tesa ad agire in modo analogo a una cassa armonica, amplificando le sensazioni che provavo e incanalandole in strutture concettuali che d’incanto uscivano già formate. Il giorno dopo, rileggendo quello che scrivevo in versi mi domandavo: “Ma ero io? Come ci sono riuscito? “

Queste domande non otterranno la risposta, perché hanno un presupposto che nega qualsiasi argomento: vi è un “io” sotto inteso!

Riesco a scrivere in flusso continuo, soltanto se mi dimentico. Naturalmente dopo segue la correzione. Emerge ciò che a livello metaforico è detto inconscio. Se penso di programmare tutto e di progettare quello che devo scrivere in versi o in prosa, mi blocco, oppure scrivo un programma di informatica, un trattato, un resoconto, un mini saggio, o un argomento filosofico su quel tema in cui all’inizio avevo la pretesa di romanzare o di versificare.

L’impegno ad ascoltare quella che metaforicamente talvolta è detta la parte energetica di sé, quella veramente creativa associata al “femminile” che ognuno di noi ha, anche se lo releghiamo nell’inconsapevolezza. Iniziai a rifletterci senza volerla limitare, perché ogni atto di volizione verso uno scopo immediato, avrebbe ottenuto l’effetto opposto. Non imponevo nulla, astenendomi da selezionare coscientemente un punto di vista nel determinare un orizzonte creativo, senza volerlo, almeno nelle intenzioni, racchiudere o incatenare.

Ripresi gli appunti datati a partire dal 1989 per l’ennesima volta nel mese di agosto del 2017. Ridevo per i termini usati, stupito nel rilevare una logica inusitata nel discorrere e nell’elaborare trame, approfondendo concetti più che mai attuali, anche se espressi con altri termini nei dibattiti pubblici. E ancora una volta mi chiesi: “Ma ero proprio io? E adesso ne sarei capace di questi slanci?”

Ebbene la risposta è affermativa: sviluppai in modo coerente quelle trame monche e incerte nella forma, perché mi lasciai andare e mi venne in mente l’analogia della bimba o del bimbo che gioca. In quei momenti il bimbo è serissimo, talvolta muto e totalmente impegnato in quel che fa. E se sbaglia, ricomincia daccapo. Si pensi al bimbo che, disteso sul pavimento, prende una matita e un foglio e inizia a scribacchiare. Le linee, progressivamente, acquisiscono forme più regolari. E continua, fino a infittire gli spazi del foglio. Si alza. Ne prende un altro e ricomincia in modo sempre più raffinato, moltiplicando le varietà del tratto, del segno e variando consapevolmente l’impugnatura. Non chiama la madre. Forse borbotta e parla con amici immaginari e inventa una storia.

Il tratto comune rispetto a tutti i bimbi che si comportano in questo modo è che si dimenticano delle loro voglie momentanee. Dal cantare filastrocche o dal disegnare, o nel modellare la creta, o roteando bambolotti in aria, in quel momento creano e ricreano un mondo.

La biografia itinerante dei tentativi e degli errori, costituisce la mappa per fondare una struttura tesa a comporre l’opera.

Certamente l’idea non scaturì per aver preso tra le mani quei vecchi appunti, in verità era il tarlo fisso che riemerse, pressato appunto dai me stesso più giovani. Lo sentivo dentro. Nei decenni passati lessi molto di romanzi, di poesie e non solo di quello. Cercai di ricordare le innumerevoli volte che per motivi di lavoro, di diletto, di curiosità e di necessità momentanee, ripresi i dizionari, i manuali di versificazione e le grammatiche, sia a livello scolastico sia di livello filologico. Basta. Avevo letto troppo. Inutile leggere ancora. Alcune stesure degli anni passati arrivarono quantitativamente a centinaia di pagine, ma non era più un romanzo, bensì un trattato, anzi un insieme di ricerche, riflessioni e piccoli saggi su argomenti molto specifici. Altri ancora nei decenni successivi, cioè dopo il 2000, apparivano nella forma di uno Zibaldone. Ecco avevo tanto, tantissimo materiale che paradossalmente non mi permetteva di iniziare, perché mi tratteneva nei fondali.

Era inutile portare tutto innanzi ancora una volta, sicché decisi di ritornare alla fonte, cioè all’idea principale. E mi convinsi. Provai verso la fine di agosto del 2017. Scappai subito. Compresi che stavo ripetendo lo stesso schema, come se dovessi svolgere un compito. No. Doveva partire dalla mia emotività, come per le poesie.

Cominciai con leggerezza il primo settembre 2017, senza pretendere di scrivere alcunché. E come mio solito cominciai vedendo dei quadri in internet relativi a un tema specifico, indugiando alla fantasia senza regole.

Annotai la data nella prima riga e scrissi di getto quasi tre pagine. Mi resi conto poi alla fine, dopo neanche 30 minuti, che all’inizio era un dialogo, e poi divenne una narrazione, quasi da monologo interiore, simile al mio altro scritto pubblicato in ebook “Tutto sotto controllo. Un corpo allo specchio”: un racconto breve con una voce sola narrante.

Non è un caso, perché nella scrittura in prosa, dopo le prime righe, in particolare per i neofiti, non si regge la concentrazione per interpretare i ruoli di chi parla o agisce, e si ritorna nel proprio io. Se si parla di un concetto o di una idea, e la si associa a un personaggio, alla fine per non perdere le idee, i luoghi, le immagini, ci si rifugia nel monologo. Va benissimo, ma non è il romanzo, eventualmente è l’embrione della situazione, dalla quale si incardinano i protagonisti, i dialoghi per porli in relazione alle trame che si snoderanno per tutto lo scritto, di decine e centinaia di pagine.

In quelle tre prime pagine avevo già in mente alcuni protagonisti, ma non erano ben delineati e mi confondevo con i nomi. L’inconscio mi diceva: “Fermo. Stai attento. Non puoi continuare così velocemente. La situazione è ottima ed è da sviluppare, ma devi descrivere il loro fisico, i loro nomi, i loro tratti. Continua comunque, ma fra qualche giorno ti dovrai fermare”.

E così accadde: per i giorni successivi scrissi in media una o due pagine al giorno. Cercando in rete, determinai il primo luogo in cui iniziarono gli eventi. Agivo come un rabdomante, ma trovai una difficoltà: pensavo come un poeta e non come uno scrittore in prosa. Mi usciva fuori una prosa poetante. Quasi melodica. Illeggibile per il lettore, a meno che non fosse un poeta avvezzo agli stili e di poco dissociato come lo ero io in quel momento!

#RACCONTARE LA SCRITTURA. PRIMA PARTE.

Perdonatemi se per qualche tempo presenterò alcune pubblicazioni egoriferite qui in facebook, in altri ambienti digitali e anche in presenza, mostrando una quota maggiore di vanità.

Il giorno 1 settembre 2017 presi un impegno che ho condotto giorno per giorno, al netto di pause per altri impegni e per le attività di gestione ordinaria che riguardano tutti noi. Ora è in fase di redazione finale da parte dell’editore.

Un onere e un piacere giornaliero che mi sono imposto, avendo giornate di sconforto, di meditazione che a occhi esterni potevano sembrare improduttive, vuote, grigie, ma che in realtà erano contraddistinte da fasi di lavoro inconscio e di incubazione.

Il bello è che stato, anche ora nelle ultime gocce di attività, un periodo creativo nel tradurre in opera le capacità di ideazione, scrittura ed interpretazione, assumendo il ruolo di un rabdomante che trova parole in territori inesplorati.

Non sono partito dal nulla. Vi era già una idea concepita nel lontano 1989. Scrissi, allora, quaderni di appunti, note, racconti, propositi in merito. Lasciai. Li ripresi dopo alcuni anni, ma lasciai ancora lì. Alcune riflessioni poi furono dedicate in ambiti diversissimi dalla prosa e dalla poesia. Ho scritto molto negli anni per lavoro, per ricerca e studio. E le pubblicazioni lì sono state incanalate. Dieci anni fa ripresi il progetto, ma ancora una volta seguì l’inclinazione che più propria sentivo nel comporre di poesia, nonostante che poi alcuni temi di quegli scritti del 1989, hanno attraversato la composizione dei due miei libri di poesia con immagini “Sogni Sospesi” e “Reciproche Rinascite”.

Dopo quasi trenta anni decisi di impegnarmi nella scrittura nella forma del romanzo.

/-/

Vorrei parlare con voi di come ho iniziato a scrivere il romanzo, che ora è in fase di redazione finale. Ciò mi serve per distaccarmi da esso e da ciò che è contenuto, perché, ripeto, il nucleo iniziale fu ideato decenni fa. E certamente a quei tempi usavo altri termini. Però, e qui è il punto che vorrei sottolineare, questo discorso costituisce una biografia narrante che si fa or ora che scrivo in un rendiconto mio nello stato di ideazione e creazione, attraverso il mio corpo. In questi anni, il me stesso adolescente, mi guardava alle spalle. Anzi molti me stesso, più giovani mi guardavano severi e sprezzanti: “Allora? Non hai finito? Di tutti questi tentativi e appunti cosa ne fai? Non mantieni le promesse!”

Il tribunale di noi stessi adolescenti è terribile. Non puoi fuggire. Ti conoscono. Sanno tutte le bugie e le scuse che dici allo specchio. Sanno tutto e di più di te.

Vorrei continuare a rispondere a loro, anche dopo la pubblicazione del libro e con voi, ma non soltanto per forme indirette di vanità, quanto per esprimere una individuazione della nostra capacità di creare e di ascoltare il nostro inconscio, o per meglio dire, il nostro cervello che lavora per la sua residuale attività cosciente.

Per tanti anni ho scritto versi, ma iniziai seriamente a comporre nel 2010, nonostante che io da sempre abbia letto di poesia. Se scrivevo per diletto o per occasioni particolari, mi uscivano versi attraverso uno stato di semi ipnosi. Un diluvio di frasi che componevano versi, scritti per un amico o per una amica, o per diletto in osteria o in birreria. Se invece mi cimentavo con l’intento di comporre qualcosa di programmatico, mi bloccavo. E, anzi, provavo un senso di scoramento, nell’incredulità a ricordarmi di aver scritto in fiumi di versi anche a comando, con stili del cinquecento, seicento, ottocento.

Ogni volta mi uscivano spiegazioni e trattati in prosa, che nulla avevano a che vedere con uno slancio creativo.

E figuriamoci nel tentativo di scrivere un romanzo. La questione strana, magari simile a quello che provate voi che mi state leggendo, è che nel momento in cui dimenticavo di me stesso, cioè non avevo il mio io presente, non avevo bisogno di concentrarmi, perché emergevano sensazioni che assumevano istantaneamente forme e strutture elaborate. Se pensavo a me, al mio “io” davanti a uno specchio o a un pubblico che applaude, mi bloccavo. La questione paradossale emergeva un istante dopo, se iniziavo a scrivere un saggio, o qualche scritto di ricerca o per lavoro: ero (e sono) velocissimo.

#22 CONTAMINAZIONI: NELLA CITTA’ DOLENTE

COLLEFERRO (RM) 18/19 Giugno 2016. – Dopo l’esperienza di “Storie dai Rifugi” del 2015 (   https://www.linomilita.com/contaminazioni/21-contaminazioni-guerra-non-suona-campana/ ), nella località S. Barbara a Colleferro, ivi compresa la piazzetta adiacente l’ingresso ai sotterranei. Lo spettatore è prima intrattenuto all’esterno con quadri scenici tratti dai Canti I e II dell’Inferno, con il supporto di videoproiezioni artistiche e la recitazione dal vivo e poi “accompagnato” da Virgilio nella “discesa”.

 

Con questa azione itinerante Colleferro mostra come il “sotterraneo”, nello sfondo e nell’inconscio di ogni agglomerato umano, offra la memoria di coloro che furono in vita e nelle opere. Di solito noi per nostra architettura mentale e memoriale attribuiamo fisicamente il passato nella morfologia dei cimiteri, nei monumenti e negli edifici o nelle targhe degli estinti. Colleferro ha sotterranei che furono usati per antichi scavi e anche per rifugiarsi dalla guerra e dai bombardamenti. La comunità di Colleferro agiva sopra e sotto la terra ogni giorno per la sussistenza, per il riparo, per demarcare una speranza per il futuro. L’inconscio del luogo è portato assiduamente in vista ai viventi e il riparo non ha significato l’oblio e il definitivo passaggio nell’altro mondo.

 

Colleferro e i suoi abitanti, quasi per ironia hanno agito, da secoli come Dante e Virgilio: un andirivieni tra il sopra e il sotto, tra passato e futuro, tra l’inconscio delle origini e tra le proiezioni nel futuro. Cercando sempre di riveder le stelle.

 

Lo spettacolo prende le mosse e il ritmo dal passo del pubblico che in piccoli gruppi, è prima introdotto nella selva Dantesca del primo canto dell’Inferno, e poi Virgilio conduce le anime e i corpi dentro i rifugi dove sono attesi da Caronte. Il teatro e la scenografia sono gli stessi sotterranei: luoghi, cavità, inabissamenti. Non vi è un teatro osceno che nasconde lo spazio: quest’ultimo è la rappresentazione da sempre incarnata nei luoghi e nelle ombre nascoste. Le luci e gli attori che permettono il passaggio e il cammino nei gironi infernali, vivono tra il gruppo degli itineranti: noi. Noi stessi piano piano dimentichiamo di essere spettatori, e diventiamo l’oggetto stesso dei canti. Paolo e Francesca, i golosi, i violenti contro se stessi e gli altri, i falsari, fino ad arrivare agli ultimi gironi, dove il freddo e l’umidità aumentano in assonanza all’avvicinamento del cuore dell’inferno costituito dal fuoco eterno che divora, ma non consuma, perché scuro e gelido. E alla fine noi del pubblico siamo i dannati, noi diventiamo Dante, per arrivare infine da “lui” che diversamente dall’ultimo canto dell’inferno,  esprime con parole diverse dall’originale, i percorsi compiuti da altri dopo Dante, cioè la follia suprema, le colpe per chi è credente, e le paure ancestrali dell’ateo, del mistico o dell’agnostico. Lui si pone al centro tra di noi e la finzione salta. Rimaniamo tutti a bocca aperta e immobili; non si ha il coraggio di muovere un braccio, perché lui esprime il dolore più nascosto che già da sempre abbiamo in dote.

Ma poi si ritorna a veder le stelle che s’affacciano sulla città dolente.. ma viva.

 

 

 

@25 POETICAMENTE: I DONI DI IERI

Di recente presso l’ufficio postale ero in fila per ritirare alcuni libri ordinati, e alcuni in avanti con l’età lamentavano l’incombenza del Natale, per non aver così tanti soldi da poter offrire qualche regalo ai nipoti, in particolare quelli che da lontano sarebbero venuti a trascorrere con loro le feste. Un paradosso la loro voce: tremula per il dispiacere e in colpa per la felicità di poterli rivedere. Una strana vergogna per un senso di inadeguatezza – Cosa posso offrire se non semplici manufatti o qualche soldo che sarà meno della loro paghetta? –

 

Alcuni erano nipoti piccoli ed altri già prossimi all’adolescenza da quanto capivo. E parlavano di un tempo e di come da piccoli ci si accontentasse di poco, ma nei loro ricordi si manifestavano aneddoti ed episodi che erano un patrimonio più dei loro nonni o bisnonni. Le inverosimili ricostruzioni forse erano un tentativo di riprendere la fanciullezza e di richiamare il bambino che già era in loro. E di parlare con coloro che più non erano. Evocavano la mancanza di tempo come un limite per pensare a regali adeguati, ma credo che fosse più un limite dovuto alla riduzione delle stanze dei giorni futuri, data la loro età non più adolescenziale.

 

Dagli angoli della memoria uscirono ricordi miei e dei miei coetanei, e le loro esperienze e racconti a ridosso del Natale. Comparvero regali dimenticati subito dopo. Feste tristi e noiose e altre meno. Quale era la differenza? Solo il passaggio dall’età dell’incanto infantile a quello dell’azione rituale adulta? Eppure anche da adulto ebbi bei ricordi.

 

Nella fila dove ero collocato, s’accostarono altre figure: mio zio e mio cugino, e ancora mio cugino più grande e altre zie e zii acquisiti. I giorni si confondono: forse prima di Natale o proprio il giorno stesso. Aiutai mia nonna e mia zia a sbattere le uova per un ciambellone da farcire con la crema e cospargerlo con la glassa di cioccolato. Con gli incarti argentati di biscotti dal nome greco, assistetti mia cugina più grande per comporre origami a forma di stelle e di animali. Sopra una panca nel corridoio, appoggiammo fogli di carta che disegnammo a pastello con erba e sentieri stilizzati marroni e poi edificammo un piccolo presepe con sopra mollette appoggiate a piramide per simulare la stalla. Mia sorella sventolò lo zucchero a velo per richiamare la neve, anche se in realtà in quelle zone era caldo, ma, insomma, andava bene lo stesso.

 

In un altro Natale chiesi invano il gioco della battaglia navale e qualcuno scherzò dicendo che ero stato cattivo. Dal pianto, alla rabbia, e poi presi due fogli, li divisi in quadretti, e misi di colonna le lettere dell’alfabeto e di riga i numeri. Ne disegnai due. E con i quadretti ritagliati da un altro foglio con la spillatrice datami da mia madre, spillai piccoli rettangolini aiutato da mia sorella per richiamare l’idea delle navi, e poi con altri cugini, stavolta più piccoli, li disegnammo con simboli per dividerli in squadre. In due ore lo finimmo tutti assieme e giocarono subito dopo gli adulti; a noi più non andava, perché nell’euforia, iniziammo a disegnare ognuno un piccolo percorso del gioco dell’oca, e tutti poi li inserimmo in una scatola per le scarpe e lo consegnammo a uno zio, affinché lo desse a un bambino povero. Non so se lo fece, ma in quel momento ne fummo convinti. Ci diedero per premio mandarini che mangiammo assieme tutti.

 

Io sorrisi, e gli altri in fila mi chiesero cosa di loro mi rallegrasse. Raccontai i natali di ieri e quelli che avrebbero potuto essere oggi.

 

E raccontai un altro Natale. Recentissimo, dove non si aveva l’albero. Usammo un portaombrelli e allegammo foglie di foto, rami di vecchi giocattoli, e lo nominammo l’albero dei disegni e dei pensieri, con buste per lettera come frutti.

 

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Albero delle idee

 

Ne componemmo un altro più piccolo di un portacenere con graffette, penne, tappi scaduti e senza più inchiostro. Con un tronco di carta igienica e in strisce, simulammo le stelle comete volteggianti a vortice su un paralume. E scrivemmo alcune sigle delle costellazioni astrali e nomi di divinità. Anche i più piccoli, scrissero in codice tutte le frasi belle che avremmo voluto dire ai nostri affetti e per pigrizia o per orgoglio non si dissero o non si poterono più dire, perché più non vi sono. Le inserimmo nelle buste del primo albero. Ognuno si fece il regalo: “I mi voglio bene, della mia vita, della vostra vita unica“.

 

Divertiti mi chiesero, quanti anni avesse avuto il più piccolo di noi in questo recente Natale. Io risposi: trentatré anni.

 

 

#21 CONTAMINAZIONI: LA GUERRA NON SUONA LA CAMPANA

L’8 Novembre 2015 si è svolto un evento patrocinato dal Comune di Colleferro (Roma) in occasione dell’80° anniversario della fondazione della città: il progetto “STORIE DAI RIFUGI“, all’interno degli storici rifugi cittadini. L’iniziativa prevede una rievocazione storica lungo le gallerie dove, fra il 1943 e il 1944, la popolazione trovò riparo dai bombardamenti. Dal lavoro di documentazione drammaturgico di Renzo Rossi e dagli attori dell’Officina Teatro di Colleferro, con la direzione artistica di Claudio Dezi e la partecipazione del gruppo vocale “Gli Slams” di Segni, si è costituita un’azione teatrale itinerante nei diversi “ambienti” ricostruiti nelle gallerie, presentando costumi, oggetti d’epoca e interpretando alcune delle numerose testimonianze raccontate da chi ha abitato sotto i rifugi.

 

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Colleferro e paesi limitrofi come Segni, Valmontone, Artena, fino a Montecassino erano a ridosso della linea Gustav (la linea fortificata difensiva approntata in Italia con disposizione di Hitler del 4 ottobre 1943 e che crollò il 18 maggio 1944). In più la piana di Colleferro, gli stabilimenti chimici d’industria bellica (i più grandi d’Italia), i monti Lepini intorno (con Segni e Carpineto – paesi di controllo strategico), la via Casilina – che arrivava direttamente a Roma – passando per Valmontone – costituivano un luogo di controllo per l’area a sud di Roma, assieme ovviamente ad Anzio per lo sbarco dal mare.

 

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Linee di fortificazioni tedesche

 

Colleferro subì tremendi bombardamenti da parte delle forze alleate da novembre in poi, come quello di marzo – il quarantesimo – dove furono distrutti i collegamenti elettrici e qualsiasi infrastruttura utile. La popolazione cercò di sopravvivere nei Rifugi realizzati prima della nascita della città: erano cave di pozzolana scavate per costruire i primi edifici per i lavoratori della fabbrica di munizioni “Bombrini Parodi Delfino”. Furono tracciati 6 km di tunnel nelle colline all’interno della città, con 15 diverse entrate. Vi fu il divieto di usare l’illuminazione. Fu creata la nebbia artificiale per celare i siti di interesse agli aerei alleati.

 

S’ebbe una seconda Colleferro e la vita oscillò dall’inferno di sopra, alle catacombe di sotto.

 

Gli attori hanno rievocato con crudezza le azioni di ogni giorno. La solidarietà (un ciambellone per un matrimonio, preparato grazie al mercato nero), i pompieri che ogni giorno dopo i bombardamenti salivano per spengere incendi, recuperare i morti, brillare le bombe inesplose (e ancora oggi se ne trovano dopo settanta anni) e che si recavano a controllare i depositi di materiale chimico dell’industria, affinché non esplodesse, perché era in funzione: gli operai erano coatti, sotto il controllo dei fascisti e dei tedeschi.

 

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Fabbrica “Bombrini Parodi Delfino”

 

Talvolta di sera bevevano i giovani una goccia di vino – presa al mercato nero, e si suonava e si cantava assieme a tedeschi, prigionieri ucraini, russi, senza capire una parola e il giorno dopo si risaliva nell’inferno come nemici, per reperire il sale, per asciugare i panni a causa dell’umidità del sottosuolo. Era impossibile accendere i fuochi per l’esiguo ricambio di aria. Vi era una cappella, un ufficio anagrafe, un’infermeria. Le donne non uscivano per paura di essere violentate, se non uccise (il film “La Ciociara” con Sofia Loren è indicativo in merito).

 

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Un fotogramma del film “La Ciociaria”

 

La paura, il buio, la fame, la sporcizia, le infezioni e il controllo da parte delle autorità fasciste erano il pendolo dei giorni.

 

Ho assistito alla magnifica e professionale rappresentazione itinerante. È stato un colpo allo stomaco per ogni parola. Tutto sembrava accadesse in quel momento, camminando presso la discesa dei morti.

 

La stessa sensazione che provai nel camminare ad Amsterdam presso la casa di Anna Frank: paura e claustrofobia. Metà della mia famiglia è di Valmontone, il paese che confina con Colleferro. Valmontone nel 1944 fu completamente distrutto, a parte la Chiesa, il palazzo Doria, e due o tre case. Ogni metro quadrato fu bombardato. I morti di questi paesi sono patrimonio di ogni famiglia. Ora non è un caso che vi sia stata la rievocazione. I testimoni sono morti quasi tutti. Negli anni settanta ero piccolo e gli adulti che avevano cinquanta e più anni, ed erano detti vecchi, raccontavano tali eventi. Io sbirciavo dalla porta, perché non volevano che noi piccoli ascoltassimo. E nelle feste, quando si vedevano i parenti, dopo aver mangiato, in quelle ore di digestione pomeridiane, loro raccontavano i fatti di quei tempi, e gli occhi cambiavano, ridiventavano giovani, ma di lacrime.

 

Oggi con estrema superficialità noi parliamo di bombardamenti. Una bomba squassa il corpo, anche a distanza. Vi è un vuoto di aria. L’orecchio memorizza il rumore e ogni equilibrio è perso. E in futuro, per ogni timbro simile, il cervello regredisce a schemi primordiali, causando il battito dei denti, lasciando adrenalina e ferro in bocca. E gli incubi diventeranno fratelli di ogni notte, se si rimane in buona salute e non s’impazzisce. Sì, perché la pazzia è l’ultimo regalo.

 

E succede oggi; ogni giorno. I rifugiati non hanno casa. Non hanno acqua. Ogni dieci minuti appare una difficoltà. I pidocchi ti fanno compagnia. Non senti l’odore dello sporco. La pelle e i capelli invecchiano subito. I denti si perdono. Le malattie rosicchiano il corpo. Il poco cibo è secco e insipido, ma allontana la tentazione di mangiare insetti.

 

Il rifugio allontana la morte, ma accorcia la vita. La popolazione, prima dell’orrore, ebbe un moto d’incomprensione e di sorpresa: “A noi, proprio a noi? – Vicino a Roma? Dal Duce ?”.

 

Parafrasando quello che dissero i sopravvissuti dei miei nonni (i quali espletarono due anni di leva e subito dopo partirono in guerra) e le mie nonne e le zie: “La guerra non suona la campana, la guerra non bussa alla porta. La guerra è già dentro casa”.

@ 24 POETICAMENTE: La Cacciata dal Paradiso

Il 25 novembre è “La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne” e di solito i luoghi comuni nei mezzi di comunicazione di massa e nei luoghi di ritrovo declinano essenzialmente verso il tema della violenza fisica con recenti neologismi come “stalker” e “femminicidio”. Le discussioni sembrano appiattite ed hanno reazioni polari che oscillano da una visione apocalittica a una di irrilevanza. Le condizioni sulle sperequazioni sul lavoro, sulla gestione del tempo per la cura dei famigliari e di sé, e sull’accesso alle istituzioni addette alla formazione, sono migliorate sensibilmente dagli anni settanta e ne hanno usufruito tutti: maschi e femmine. Per una inerziale semplificazione dei temi, i giudizi di merito volgono sul corpo della donna e sul dubbio a proposito della veridicità della violenza: ancora oggi si discute se la colpa e la responsabilità sia della vittima. E ci si sofferma su un singolo evento e non sul sistema di reti sociali, per le quali il sistema di repressione, l’ordinamento giuridico, l’assistenza minima economica e di sussistenza, amplificano la violenza e la condizione di soggezione.

In questo dibattito il maschio che dice? E’ relegato solo nella figura dell’indifferente o del violento ? O di colui che inventa motti di spirito e luoghi comuni nei mezzi di comunicazione di massa e nei ritrovi gregari tipici del sesso “forte”?

Gli uomini dovrebbero mostrare la volontà di riconoscere il fenomeno e se fossero stati testimoni di eventi di tale genere, che esprimano onestamente giudizi su di sé e sui propri atteggiamenti.

Era una domenica di tardo pomeriggio di fine maggio nel 1985, con aria calda e cielo chiaro. Ero seduto con amici sulle scale dell’entrata principale del municipio di Marino (località in provincia di Roma).

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Palazzo Colonna – Municipio di Marino (Roma)

Apparve una donna con il vestito a festa correre in piazza chiedendo aiuto, e dietro un uomo corpulento più anziano e trasandato che la rincorreva. La gettò a terra e la schiaffeggiò. Il fatto si svolse in meno di 10 secondi. Non facemmo in tempo a muoverci. Increduli ci guardammo inerti e imbambolati. Nel frattempo, accorse un adulto molto più giovane dell’assalitore e lo intimò di fermarsi. Ne arrivò un altro: si seppe che quest’ultimo era un agente in borghese. L’energumeno si calmò e la donna si rialzò e si ricompose. Noi, in piedi, come burattini. Poi arrivarono conoscenti di quella coppia e parlarono animatamente. Infine, tutti se ne andarono e la donna con loro.

Di lato, vi erano signore sedute sul balcone e altre su sedie fuori i rispettivi ingressi di casa. Alcune le conoscevo da sempre: quante volte mi dissero di stare attento alle macchine in corsa, quando più piccolo con altri giocavamo rincorrendoci per le strade, oppure quando offrivano ai figli e ai nipoti e a me, la merenda. Erano persone che infondevano la stabilità, la sicurezza e il senso del tempo. Amabili: una traccia della propria infanzia.

Il loro sguardo era torvo e arcigno: era la prima volta che osservavo quelle facce. Non capivo, e poi ascoltai i loro duri commenti verso la donna che fu appellata con male parole, come una poco di buono con tutto il rosario di aggettivi correlati. Non captai nessun giudizio verso l’uomo. Le zie “acquisite” ora apparivano come statue piene di freddo e fuliggine.

Le case mi apparvero nere con un cielo senza riflesso ed ebbi l’immagine della prima pagina del romanzo “Nel vicolo Protocny” di Il’ja Grigor’evič Ėrenburg, dove un uomo prende a mattonate in testa una donna per strada. E quello che per me, anche se orribile, era sentito come una finzione narrativa, ora ritornava contorcendomi le viscere, balbettando parole sconnesse come i miei due amici accanto.

 

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E ci guardammo ancora arrossendo, umiliati per la nostra deficiente azione e per la paura diffusa nella pelle rabbrividita. E dopo lungo tempo, davanti allo specchio e senza giustificazioni, io compresi che la vergogna provata dopo l’evento, era anch’essa una scusa: pensavamo a noi stessi, non a quella donna. Il groviglio d’emozioni era una rete che allontanò la violenza e l’assurdità di quella scena. L’avevo sotterrata nelle strade della mia mente. Ero diventato, mio malgrado, un complice di quella violenza. Lo specchio rispose che in quell’istante si frantumò il luogo sicuro d’infanzia: fui cacciato dal Paradiso.

@ 23 POETICALLY: RICORRENZE

Le ricorrenze sono tentativi di rendere concreta l’illusione di un ordine negli eventi e di affermare una coerenza di un prima e un dopo. Sono legami che appaiono e si disfano tra individuo e collettività. La condivisione di atti con schemi tra giorno e notte per date da noi inventante e nominate, stabilisce una contiguità e una alleanza nel conservare simboli e significati.

Sotto a queste convenzioni sociali vi sono quelle personali che puntellano i ricordi con la speranza che permangano nella curva o segmento di vita, per la quale in ogni istante portiamo tutta la memoria e il passato qui, ora.

Che giorno caldo fu il 25 ottobre 1990, in licenza per un giorno dal servizio di leva e di buon mattino, prima dell’alba, la corsa per prendere il treno e fiondarsi all’università per sostenere un esame. E quella sensazione dove tutto sembra amichevole: dall’aria, agli alberi, al vento caldo di Roma, ma non invasivo e cafone. E nell’attesa una strana sicurezza e calma che portò a superare l’esame come si voleva che fosse, con massimo risultato. E il ritorno in caserma ove tutti parvero lieti di sentire racconti del vivere quotidiano: di orari, passi, incroci, negozi, e aneddoti che seguono dopo tempeste, operazioni e analisi del sangue.  

 

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Nei pressi di Piazza di Spagna (Roma) di domenica pomeriggio.

E ancor di più un esame di abilitazione proprio per storia e filosofia il 25 ottobre 2001 dove si scrisse delle guerre dei cent’anni e anche con una citazione della battaglia di battaglia di Azincourt del 25 ottobre 1415, dove vinsero gli inglesi in inferiorità numerica contro i francesi. E di lì a pochi giorni mi precipitai a vedere il film di   Kenneth Branagh – “Enrico V” che tratta proprio di queste vicende. E fu lieto anche quel giorno. 

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Kenneth Branagh nel Film “Enrico V”

In un tempo più remoto dove l’anno, però, è impolverato di numeri, un altro 25 ottobre in una via di primo pomeriggio con le strade silenziose domenicali e quasi pigre di movimento, per il quale ci fu un pudico bacio di rossore crepitante sorpresa e riflessi di gioia. Solo uno. E poi fu un sorriso per tutto il giorno. 

 

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Via Del Paradiso – Valmontone (Roma)

E infine una gara di 12 km di corsa, dove fu raggiunto un record mai superato nel 2002. Con pioggia, ma ogni goccia era tepore per il sudore.

Aneddoti con significati e simboli artefatti, di fatti reali, ma usati per ricamare una trama di sprazzi di vita, dove si vuole e si è convinti che questo sia un giorno, come ogni giorno, nel dire grazie a se stessi, perché ancora si è e si ha pregio di mantenere la promessa di un tesoro.

@21 POETICAMENTE: ANNIVERSARIO DI UN CORPO ALLO SPECCHIO

Un colloquio in corso. Anniversario di “Tutto sotto controllo. Un corpo allo specchio.

 

È passato un anno dalla pubblicazione dello scritto in formato digitale di “Tutto sotto controllo. Un corpo allo specchio”. Un’opera, per quanto eccelsa o di medio livello, o di semplice rendiconto del proprio scrivere, se è tale, sia per l’autore sia per lo spazio di comunicazione formale che la recepisce, acquista o dovrebbe acquistare vita propria, affinché accompagni il lettore e lo scrittore in un cammino ancora da esplorare.

 

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Con riferimento al “pubblico” potenziale che immaginai in un lasso di tempo annuale, e quindi non di tante cifre, ancor più per il fatto che i miei due scritti precedenti sono di poesie, questo scritto in prosa, solitario e in sottotraccia, ha proseguito con una costanza da maratoneta a incontrare sempre nuovi lettori ogni mese.

Poiché il costo è poco più di un euro, segue che è stato preso principalmente per assonanza, stimolo e curiosità rispetto al titolo e ai pochi cenni sul contenuto. A prima vista sembra che si parli di anoressia come sintomo di un malessere noto a tutti, ma già dalle prime righe si avverte che la “disfunzione alimentare” è sintomo di processi che sono sì unici e irripetibili per ognuno di noi, e che hanno, comunque, un riferimento comune con processi sociali di lungo periodo.

Il corpo già anticamente inteso come un prodotto di una tecnica, seppure per riferimenti ultramondani, è ora iscritto nei criteri laici di “miglior gestione delle proprie risorse” in un orizzonte per il quale “il fare”, “l’agire in vista di un obiettivo definito” e la gestione “domestica” della propria sussistenza, sono elementi già separati e completamente a disposizione. Si è, dunque, sicuri nel disporre del proprio corpo e di utilizzarlo in schemi temporali già prefigurati, secondo azioni ben definite e sicure in una progressione alla stregua dei viandanti verso le reliquie dell’attestato e del diploma, o per la prestazione sessuale e conviviale, con emozioni e sentimenti ben incasellati nella procedura di un soddisfacimento seriale e sfumato.

 

Tutto deve essere sotto controllo, perché voluto come se fosse già un elemento essenziale ed originario, e non un obiettivo cui tendere. Abbiamo una fede verso una semplificazione del mondo con una doppia inversione di mezzi e scopi, dove il controllo è a un tempo un elemento del corpo che deve essere prodotto e nell’altro un insieme di comportamenti e di visioni del mondo, atte a modificarlo. È un corto circuito.Uno specchio che si vuole falso, e che si vuole dica il falso: “Questa cosa piccola che vedi è l’intera realtà”.

 

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Tina Modotti, mani che lavorano.

Il problema sopraggiunge quando il corpo stesso, la parte ritenuta più semplice, scomposta e debole, si ribella e lo fa attraverso la stessa visione violenta e illimitata che si vuole creare. Lo sfondo e la materia disponibile, quasi disprezzata, oltre a essere la fonte di ciò che si è, offre altre possibilità di esistenza.

Quasi ogni lettore del testo ha dapprima avviato un colloquio attraverso il sito www.linomilita.com, e ognuno discretamente ancor prima di leggere, ha richiesto chiarimenti su tali termini, e successivamente quasi più della metà fino ad ora, è ritornato a scrivermi associando loro esperienze, rispetto al percorso offerto dal testo. Parole ed esperienze uniche e irripetibili per ciascuno, ma dalle quali appare che “noi”, la “nostra” immagine, il “nostro” corpo hanno un sovrappiù indefinito ancora da esser detto, visto ed esperito. E questo “ancora” è illimitato. E che ogni volontà di renderlo statico e uniforme, cozza contro se stessa. Il colloquio è ancora in corso.

 

Il libro in formato digitale (epub), lo si può reperire su:

Ultimabooks: QUI

Bookrepublic: QUI

ebook.it : QUI

Amazon: QUI – in formato kindle..

 

@20 PoeticaMente: mancanze definitive

Incontrai di recente un amico e conversando in un Bar, sopraggiunse un suo conoscente. La conversazione fu lunga e confortevole e sviluppò argomenti informali e privati su aspetti del proprio vivere e su eventi del passato. Il conoscente disse che non aveva rapporti di alcun tipo con i propri genitori (viventi) da più di dieci anni. Tralasciando i motivi ed eventuali giudizi sulle vicende che portarono a questa rottura insanabile, io e il mio amico rispondemmo con frasi e argomenti di circostanza deviando verso temi più leggeri, ma fummo avvolti da un senso di stupore e di angoscia prolungato per giorni. In certi casi, se le storie di vita sono state contraddistinte da traumi, litigi e odi e rancori repressi, il distacco è una dolorosa cicatrice. Nei rapporti famigliari e di coppia e anche nelle amicizie, dopo il litigio si ha un inconscio desiderio, meschino e arcigno, di sapere qualcosa di chi un tempo fu caro. La ipocrita curiosità persiste, nello sperare che il fu caro soffra o sia incorso in eventi dolorosi. In questo caso, sebbene la curiosità non fu espressa, comprendemmo di aver ascoltato un distacco funebre con il paradosso che si parlava di viventi. La risposta più semplice è l’odio che genera la fredda potenza dell’orgoglio cosciente e calcolante.

 

Invece il dubbio più abissale che continuava a girarmi in testa non era tanto l’analisi di un figlio che si comportasse in tale modo, quanto sulle future conseguenze. Vi sono coloro che hanno i genitori anziani e in progressivo peggioramento delle condizioni di salute, dove la vecchiezza si trasforma in vecchiaia: nella strada di ghiaccio del dolore e infine della morte. Alcuni sono orfani dalla tenera età. Di solito la presenza dei genitori è ritenuta scontata, sebbene nel corso dei mesi, comincino di frequente ad apparire piccoli acciacchi, sempre più diffusi e intensi. E se poi loro non appaiono più nella Terra, ognuno ha il pensiero e il dubbio di aver perduto il tempo non condiviso. Gli stessi che frequentano i genitori ogni giorno, nel momento in cui vi è l’evento luttuoso, hanno il rimpianto di non aver detto frasi importanti, vere e sentite. Il senso di inadeguatezza è comune e riflette anche il nostro vivere. La fine dei giorni per gli altri, fa pensare alla nostra dipartita; al tempo già passato e alla costellazione delle occasioni facilmente realizzabili, ma che per pigrizia, superficialità e ignoranza, sono state rinviate in un futuro immaginario.

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Alicja Bloch, immagine presa QUI

 

La scomparsa dei genitori è compresa appieno nei giorni futuri, in cui ognuno si misura con i riti quotidiani delle ricorrenze e delle stagioni. Non avere un contatto con i propri genitori, implica un salto temporale, perché il ruolo di figlio è fermo in un punto del passato o in un cancello della mente, dove noi aspettiamo di entrare per ripetere l’episodio del distacco. Non avendo più rapporti, è come se si fosse già arrivati a una chiusura definitiva, sebbene i “morti” ancora appaiono. Il problema allora sorge nel momento in cui si sa o si viene a sapere che non vi sono più.

 

Cosa può succedere dopo il lutto definitivo?

 

Una prima risposta è che tutto il passato si presenta davanti, con tutte le rabbie e i dolori che non possono più essere risolti. In più, forse, appare un senso di vuoto lacerante misto ad impotenza. Vi è il rischio che le strutture depositate negli anni nel costruire la diga della divisione, possano crollare. E a che cosa si va incontro allora?

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Tom Bennett , Sleepwalk 20, 2010, Immagine presa QUI

 

 Cosa accade nell’affrontare i morti per la seconda volta ? Cosa accade quando l’incontro è definitivo? Che mancanze avremo a subire?