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§CONSIGLI DI LETTURA: Bellezza di Mario luzi

In Poesie Ultime e ritrovate (1994-2005), 2014, Garzanti, Milano

Va letto tutto. Sfogliando a caso nel mezzo del libro, riporto questa poesia (Bellezza). Mario Luzi ha dentro la prosodia. Ha un ritmo innato e coltivato negli anni di letture, esercizi, prove, e di vita vissuta per ogni aspetto del suo vivere. La lingua italiana: aperta nelle vocali, con un ampio spettro cromatico in relazione alle variazioni di timbro delle consonanti. La possibilità di variare gli accenti nei versi secondo ritmi regolari, con forme che si avvertono immediatamente nella composizione dello scorrere del verbo parlato e scritto. È La bellezza della lingua italiana nella possibilità di variare nelle gutturali, nelle dentali, conferendo il ritmo poetico dell’armonia dei suoni, nella capacità di mantenere la coerenza d’accento nella variazione dei volumi sonori.

Tutto ciò permette la costruzione di complessi legami tra i versi e le strofe che richiamano strutture coerenti tra le armonie sonore, in modo che l’orecchio le percepisca. La colossale capacità della lingua italiana di sostenere la musicalità del canto poetico in una quantità impressionante di sequenze di versi, senza mai cedere alla facile caduta e appiattimento del verso deteriorato in prosa.

Mario Luzi scrive in modo rarefatto in apparenza, ma tale leggerezza deriva da una densa riflessione sui temi trattati in concomitanza al suo estro poetico che è fisico e immediato. La bellezza si subisce. L’estetica è un patimento in cui il corpo e la mente avvertono la loro divisione creduta, nella possibilità di esprimere la gamma dei sentimenti, scaturiti dalle emozioni in rapporto al mondo. La realtà spinge, irrita, penetra, muove, strabilia, strugge, impaurisce, allarga il giudizio che noi abbiamo del nostro stare con noi stessi e nel mondo.

Nei primi tre versi il mondo si presenta innanzi a noi, nel suo stare davanti e dentro il nostro sentire, che è la base del pensare e del parlare. La bellezza, la forma, il volto. Le regolarità in cui il pensiero determina se stesso attraverso il linguaggio scaturiscono dalle forme che avvolgono i visi degli umani, dei paesaggi, degli alberi, delle case, del cielo, dell’orizzonte, in cui il collegamento comune è quella indeterminatezza che è denominato il bello. Non a caso Mario Luzi scrive il termine “sentiamo”. Bellezza ti sentiamo, ma non ti vediamo, non riusciamo a definirti, ma è impossibile negare che tu non sia. In questi primi tre versi il mondo si presenta e noi riceviamo cognizione di noi stessi attraverso il mondo, con il sentire che è illusione e incanto. Cioè lo stupore, la meraviglia: il cuore del nostro pensare anche nel suo decadimento nel linguaggio e nel verso.

La poesia incanta. La sorpresa blocca quello che crediamo sia il pensiero. La bellezza mostra la nostra limitatezza: liquefa i muri regolari che noi creiamo nell’illusione che sia il mondo. Si noti come gli ultimi tre versi si concludano con le dentali. Cioè abbiamo un blocco della riflessione, perché essa avverte che noi eravamo nell’illusione dei giudizi creduti stabili. La bellezza, la forma e il volto ci ammutoliscono, e quindi le dentali bloccano il fluire del verso, perché inadeguato a descrivere nel ritmo poetico tale sentire.

E tale consapevolezza è comune. Il poeta qui è già aperto in questo sentire che avverte l’essere comune a ognuno. Questo noi è di colui che legge, che poetizza, che semplicemente avverte tale meraviglia. L’irresistibile senso poetico che è l’elemento comune di ciò che è umano.

Il verso successivo è una esortazione nella consapevole idea che la bellezza non è da noi eterodiretta, e la si prega della sua benevolenza o in modo invertito nel ritmo del verso, nel quale noi stessi si sia capace di sorridere, cioè di sostenere la propria apertura verso il mondo. Tale sorriso non manifesta la sua presenza, ma richiama un segno che traluce tra l’ombra del mondo, che è tale perché copre una sorgente che abbaglia; impossibile da vedere integralmente. La mente, cioè la riflessione su tale sentire, si innalza ovvero sente la convinzione che i pensieri possano mantenere tale sorriso che è contemplazione, nel giudizio che qualsiasi opera, parola, progetto sulla bellezza è una contraddizione: l’impossibilità a rinchiuderla, ovvero a serrare la sua bocca. La luce del verbo che traluce.

E poi nella consapevolezza che agisce al di là dei nostri intendimenti, e quindi nella nostra necessità di fornire un quadro compiuto del mondo, che è impossibile a determinare, allora noi, non lei, cala a precipizio. Ciò ci sgomenta, ma lo sgomento è il nostro calare del precipizio dell’illusione di averla afferrata, e quindi in una oscurità opaca che non permette il tralucere.

Si noti il gioco dei due versi tra il “tralucere” e il “talora”. E anche qui le dentali sono poste in modo invertito, rispetto ai due versi precedenti che si concludevano con altre due dentali. Questo collegamento incrociato, mirabile, di livello altissimo nella prosodia, permette a noi lettori di comprendere il senso logico, fisico, estetico di questo scorrere poetico con apparente semplicità, come se tale discorso fosse naturale, senza bisogno che ci si fermi a riflettere del doppio gioco che si pone tra le attività del nostro io verso il mondo.

Questi versi sono il resoconto di millenni di senso estetico, dipinti dalla meraviglia, in modo apparentemente leggero e per noi lineare nella lettura. Non avvertiamo nel magnifico gioco delle consonanze e delle assonanze che la lettura quasi lineare è una illusione che maschera una struttura complessa del discorso con variazioni multiple di cadute verticali emotive. A noi sembra appunto elementare tale discorso, perché Mario Luzi, non attua metafore, allegorie, allusioni, rimandi, ma pone il tema davanti, con la sua capacità poetica nel mostrare che tale oggetto è inafferrabile, e appunto tale gruppo di versi mostra l’impossibilità di presentarlo compiutamente nel verso. Sono versi denotanti una negazione che, attraverso la chiarezza dei legami consonantici, a noi risuona immediatamente innanzi. Qui è la grandezza di questo poeta.

Mario Luzi mostra il ritmo del parlare e del verso, di ognuno di noi, nell’innalzare e nel calare, le armoniche dei pensieri sugli orizzonti del mondo.

Il verso successivo apre una danza contraria rispetto alla esortazione del sorridere, che è quello di chiudersi, perché appunto consapevoli di non essere noi gli artefici del suo essere. La bellezza è paga, piena, non abbisogna di noi: ecco la meraviglia e lo stupore. L’indifferenza non è della bellezza, perché altrimenti sarebbe personificata. L’indifferenza diviene dalle nostre illusioni di descriverla, cioè di differirla. Il nimbo è questo luogo indescrivibile. La nuvola non ha forma e non ha volto. Cangiante nella continua risposta a esser descritta.

Tale verso di esortazione è un inganno, perché è una ripetizione del verso precedente sul sorridere, e fa credere che sia la bellezza ad agire e ad essere in relazione con noi. I due versi invece descrivono le nostre reazioni: il nostro sentire che vorrebbe dare la forma, cioè del sorriso che è aperto. La preghiera informa del consapevole artificio della sua inutilità che non dipende da noi. La bellezza che noi avvertiamo, è lo stupore della nostra impossibilità, che può esser descritta non da un comando, ma da una esortazione che è l’estetica sensazione della propria limitatezza.

“Non dormire in te” è la prosecuzione dell’inganno poetico, cioè io poeta dormo nella mia illusione che sia artefice della possibilità di incantarmi della bellezza, intervenendo su essa. Cioè versificando su di essa. Il termine “profondi” è trasformato in un aggettivo verbale, che, con le locuzioni omesse, crea un collegamento nascosto nel ritmo poetico nell’esortazione a non dormire. Il termine “profondi” avverte la presenza dell’oscuro, corrispondente per il poeta all’aprirsi alla grazia, ovvero a ciò che è di inaspettato e impossibile da contrattare, ma che può comunque arrivare. Tale possibilità implica l’impossibilità a dire che non arriverà mai. Non tanto perché si sa della grazia, ma perché noi, sia per la bellezza sia nello sprofondare nel mondo dell’indicibile, non possiamo definire alcunché. L’esortazione del poeta è nel suo verso e nella sua ultima illusione che la grazia sia.

Questa poesia ha quattro gruppi di esortazioni aventi la funzione di sorreggere le strofe, che giocano sulle sibilanti della limitatezza, della bellezza e sull’innalzare che taglia i nostri pensieri. Tale limitazione avviene per il sentire attraverso lo sgomento e il senso del profondo. Il legame del verso raccorda i due termini nel ritmo le due esortazioni finali relative alla grazia, la quale essendo prodiga, mostra il nostro volere piccolo e bugiardo.

La poesia conclude con il termine “Siilo”. È una meravigliosa chiusura di un sentire dolce, timido, consapevole e universale. Che tu lo sia. “Siilo” è la radice di tutti i versi della poesia con questa sibilante iniziale “SI..” che fa da contraltare con le “z” che tagliano. È una preghiera di speranza. L’ultima illusione di questo immenso poeta.

Bellezza, lo sentiamo

che sei al mondo.

Qualche transitiva forma

ci illudiamo ti sorprenda.

Da qualche raro volto

ci fulmini e ci incanti.

Sorridi, se puoi, traluci

tutta quanta: la mente

innalza allora i suoi pensieri,

talora, lo so, cala

a precipizio dentro i suoi sgomenti.

Non chiuderti però,

ti prego, paga

o indifferente nel tuo nimbo,

non dormire in te, profondi

in chiarità

viva la grazia – fu prodiga

con te lei, tu pure

vogliamo che lo sia. Siilo.

@25 POETICAMENTE: I DONI DI IERI

Di recente presso l’ufficio postale ero in fila per ritirare alcuni libri ordinati, e alcuni in avanti con l’età lamentavano l’incombenza del Natale, per non aver così tanti soldi da poter offrire qualche regalo ai nipoti, in particolare quelli che da lontano sarebbero venuti a trascorrere con loro le feste. Un paradosso la loro voce: tremula per il dispiacere e in colpa per la felicità di poterli rivedere. Una strana vergogna per un senso di inadeguatezza – Cosa posso offrire se non semplici manufatti o qualche soldo che sarà meno della loro paghetta? –

 

Alcuni erano nipoti piccoli ed altri già prossimi all’adolescenza da quanto capivo. E parlavano di un tempo e di come da piccoli ci si accontentasse di poco, ma nei loro ricordi si manifestavano aneddoti ed episodi che erano un patrimonio più dei loro nonni o bisnonni. Le inverosimili ricostruzioni forse erano un tentativo di riprendere la fanciullezza e di richiamare il bambino che già era in loro. E di parlare con coloro che più non erano. Evocavano la mancanza di tempo come un limite per pensare a regali adeguati, ma credo che fosse più un limite dovuto alla riduzione delle stanze dei giorni futuri, data la loro età non più adolescenziale.

 

Dagli angoli della memoria uscirono ricordi miei e dei miei coetanei, e le loro esperienze e racconti a ridosso del Natale. Comparvero regali dimenticati subito dopo. Feste tristi e noiose e altre meno. Quale era la differenza? Solo il passaggio dall’età dell’incanto infantile a quello dell’azione rituale adulta? Eppure anche da adulto ebbi bei ricordi.

 

Nella fila dove ero collocato, s’accostarono altre figure: mio zio e mio cugino, e ancora mio cugino più grande e altre zie e zii acquisiti. I giorni si confondono: forse prima di Natale o proprio il giorno stesso. Aiutai mia nonna e mia zia a sbattere le uova per un ciambellone da farcire con la crema e cospargerlo con la glassa di cioccolato. Con gli incarti argentati di biscotti dal nome greco, assistetti mia cugina più grande per comporre origami a forma di stelle e di animali. Sopra una panca nel corridoio, appoggiammo fogli di carta che disegnammo a pastello con erba e sentieri stilizzati marroni e poi edificammo un piccolo presepe con sopra mollette appoggiate a piramide per simulare la stalla. Mia sorella sventolò lo zucchero a velo per richiamare la neve, anche se in realtà in quelle zone era caldo, ma, insomma, andava bene lo stesso.

 

In un altro Natale chiesi invano il gioco della battaglia navale e qualcuno scherzò dicendo che ero stato cattivo. Dal pianto, alla rabbia, e poi presi due fogli, li divisi in quadretti, e misi di colonna le lettere dell’alfabeto e di riga i numeri. Ne disegnai due. E con i quadretti ritagliati da un altro foglio con la spillatrice datami da mia madre, spillai piccoli rettangolini aiutato da mia sorella per richiamare l’idea delle navi, e poi con altri cugini, stavolta più piccoli, li disegnammo con simboli per dividerli in squadre. In due ore lo finimmo tutti assieme e giocarono subito dopo gli adulti; a noi più non andava, perché nell’euforia, iniziammo a disegnare ognuno un piccolo percorso del gioco dell’oca, e tutti poi li inserimmo in una scatola per le scarpe e lo consegnammo a uno zio, affinché lo desse a un bambino povero. Non so se lo fece, ma in quel momento ne fummo convinti. Ci diedero per premio mandarini che mangiammo assieme tutti.

 

Io sorrisi, e gli altri in fila mi chiesero cosa di loro mi rallegrasse. Raccontai i natali di ieri e quelli che avrebbero potuto essere oggi.

 

E raccontai un altro Natale. Recentissimo, dove non si aveva l’albero. Usammo un portaombrelli e allegammo foglie di foto, rami di vecchi giocattoli, e lo nominammo l’albero dei disegni e dei pensieri, con buste per lettera come frutti.

 

Img - Jpg

Albero delle idee

 

Ne componemmo un altro più piccolo di un portacenere con graffette, penne, tappi scaduti e senza più inchiostro. Con un tronco di carta igienica e in strisce, simulammo le stelle comete volteggianti a vortice su un paralume. E scrivemmo alcune sigle delle costellazioni astrali e nomi di divinità. Anche i più piccoli, scrissero in codice tutte le frasi belle che avremmo voluto dire ai nostri affetti e per pigrizia o per orgoglio non si dissero o non si poterono più dire, perché più non vi sono. Le inserimmo nelle buste del primo albero. Ognuno si fece il regalo: “I mi voglio bene, della mia vita, della vostra vita unica“.

 

Divertiti mi chiesero, quanti anni avesse avuto il più piccolo di noi in questo recente Natale. Io risposi: trentatré anni.