§CONSIGLI DI LETTURA: IL VENTRE DI NAPOLI

Il ventre di Napoli : (venti anni fa, adesso, l’anima di Napoli) / Matilde Serao. – Napoli : F. Perrella, 1906

Questo romanzo fu ed è una inchiesta giornalistica, un trattato di antropologia, una rivendicazione politica, un atto di immedesimazione e di amore verso il popolo napoletano.

9  “[…] Questo libro è stato scritto in tre epoche diverse.

La prima parte, nel 1884, quando in un paese lontano, mi giungeva da Napoli tutto il senso di orrore, di terrore, di pietà, per il flagello che l’attraversava, seminando il morbo e la morte: e il dolore, l’ansia, l’affanno che dominano, in chi scrive, ogni cura, d’arte, dicano quanto dovette soffrire profondamente, allora, il

mio cuore di napoletana.

La seconda parte, è scritta venti anni dopo, cioè solo due anni fa, e si riannoda alla prima, con un sentimento più tranquillo, ma, ahimè, più sfiduciato, più scettico che un miglior avvenire sociale e civile, possa esser mai assicurato al popolo napoletano, di cui chi scrive si onora e si gloria di esser fraterna emanazione.

La terza parte è di ieri, è di oggi: nè io debbo chiarirla, poichè essa è come le altre: espressione di un cuore sincero, di un’anima sincera: espressione tenera e dolente: espressione nostalgica e triste di un ideale di giustizia e di pietà, che discenda sovra il popolo napoletano e lo elevi o lo esalti! […]”.

Matilde Serao racconta Napoli, la parte non detta, le strade vive, ognuna con le sue caratteristiche.  In base ai luoghi, traduce le impressioni in stati emotivi gettati nello stile della scrittura che varia dalla cantilena, al tono declamatorio, alla doglianza medievale quasi. In alcuni passi sembra che l’autrice parli in pubblica piazza, affinché ognuno accolga i lamenti, le richieste, le critiche a nome di chi non può, perché asservito e ricattato dall’indigenza.

21-23 “[…]  

Fortunate quelle che trovano un posto alla Fabbrica del tabacco, che sanno lavorare e arrivano ad allogarsi, come sarte, come modiste, come fioraie! La mercede è miserissima, quindici lire, diciassette, venti lire il mese; pure sembra loro fortuna. Ma sono poche: tutto il resto della immensa classe povera femminile, si dà alla domesticità.

La serva napoletana si alloga per dieci lire il mese, senza pranzo: alla mattina fa due o tre miglia di cammino, dalla casa sua alla casa dei suoi padroni, scende le scale quaranta volte al giorno, cava dal pozzo profondo venti secchi di acqua, compie le fatiche più estenuanti, non mangia per tutta la giornata e alla sera si trascina a casa sua, come un’ombra affranta. Ve ne sono di quelle che pigliano due mezzi servizi, a sei lire l’uno e corrono continuamente da una casa all’altra, continuamente rimproverate per le tardanze. Ne ho conosciuta una, io, si chiamava Annarella, faceva tre case al giorno, a cinque lire: alla sera era inebetita, non mangiava, morta dalla fatica, talvolta non si svestiva, per addormentarsi subito.

Queste serve trovano anche il tempo di dar latte

a un bimbo, di far la calza, ma sono esseri mostruosi, la pietà è uguale alla ripugnanza che ispirano. Hanno trent’anni e ne dimostrano cinquanta, sono curve, hanno perso i capelli, hanno i denti gialli e neri, camminano come sciancate, portano un vestito quattro anni, un grembiule sei mesi.

Non si lamentano, non piangono: vanno a morire, prima di quarant’anni, all’ospedale, di perniciosa, di polmonite, di qualche orrenda malattia. Quante ne avrà portate via il colera!

E tutti gli altri mestieri ambulanti femminili, lavandaie, pettinatrici, stiratrici a giornata, venditrici di spassatiempo, rimpagliatrici di seggiole (mpagliaseggie), mestieri che le espongono a tutte le intemperie, a tutti gli accidenti, a una quantità di malattie, mestieri pesanti o nauseanti, non fanno guadagnare a quelle disgraziate più di dieci soldi, quindici soldi al giorno. Quando guadagnano una lira, le miserelle, fanno economia e si maritano.

Sono brutte, è vero: si trascurano, è verissimo: fanno schifo, talvolta. Ma chi tanto ama la plastica, dovrebbe entrare nel segreto di quelle esistenze, che sono un poema di martirio quotidiano, di sacrifici incalcolabili, di fatiche sopportate senza mormorare. Gioventù, bellezza, vestiti? Ebbero un minuto di bellezza e di gioventù, furono, amate, si sono maritate: dopo, il marito e la miseria, il lavoro e le busse, il travaglio e la fame. Hanno i bimbi e debbono abbandonarli, il più piccolo affidato alla sorellina, e come tutte le altre madri, temono le carrozze, il fuoco, i cani, le cadute. Sono sempre inquiete, agitate, mentre servono.

[…]”

Matilde Serao scrive ponendosi accanto alle protagoniste. Non è il grande burattinaio. Sta lì, assieme a loro e li conduce innanzi al lettore. Bussa alla porta del lettore. Sta lì nell’uscio e indica il mondo, le persone, e lo rende sonoro nel dolore delle loro storie. Porta la biografia di una città, di una comunità, di un mondo. La sintassi è ricca di aggettivi e di superlativi. La caratterizzazione è netta, perché ogni protagonista è al limite nel vivere, dal cibo, alla necessità di sopravvivenza. Non è solo povertà, o una rivendicazione economica, ma pure culturale.

È una rivendicazione di soggettività che è non solo sfruttata, come può accadere in altre parti d’Italia, ma è anche culturale, perché si riflette in una considerazione nazionale artefatta da una parte e nel disprezzo e nella svalutazione dall’altra verso il corpo di Napoli all’interno delle sue viscere. Le autorità gestiscono il consenso, per non fare, mantenendo la stasi del controllo. Nei fatti il potere lascia questo boccheggiare acefalo nello stagno dell’indigenza di futuro, di bellezza, di cibo, di serenità anche piccola, per elemosinare lentamente piccole bocche di ossigeno, rendendo verticali tutti i rapporti sociali. Si trae la ricchezza potenziale in un equilibrio che permette il dominio. E alla fine questo corpo di Napoli è sia un agglomerato perennemente morente che conferisce autorità a chi promette l’elemosina e nello stesso tempo un peso per tutte le istituzioni e la società italiana tutta.

25-27 “[…] bimbi che vanno a scuola; quando la provvista è finita, il pizzaiuolo la rifornisce, sino a notte.

Vi sono anche, per la notte, dei garzoni che portano sulla testa un grande scudo convesso di stagno, entro cui stanno queste fette di pizza e girano pei vicoli e dànno un grido speciale, dicendo che la pizza ce l’hanno col pomidoro e con l’aglio, con la muzzarella e con le alici salate. Le povere donne sedute sullo scalino del basso, ne comprano e cenano, cioè pranzano, con questo soldo di pizza.

Con un soldo, la scelta è abbastanza varia, pel pranzo del popolo napoletano. Dal friggitore si ha un cartoccetto di pesciolini che si chiamano fragaglia e che sono il fondo del paniere dei pescivendoli: dallo stesso friggitore si hanno per un soldo, quattro o cinque panzarotti, vale a dire delle frittelline in cui vi è un pezzetto di carciofo, quando niuno vuol più saperne di carciofi, o un torsolino di cavolo, o un frammentino di alici. Per un soldo, una vecchia dà nove castagne allesse, denudate della prima buccia e nuotanti in un succo rossastro: in questo brodo il popolo napoletano vi bagna il pane e mangia le castagne, come seconda pietanza; per un soldo, un’altra vecchia, che si trascina dietro un calderottino in un carroccio, dà due spighe di granturco bollite. Dall’oste, per un soldo, si può comperare una porzione di scapece; la scapece è fatta di zucchetti o melanzane fritte nell’olio e poi condite con aceto, pepe, origano, formaggio, pomidoro, ed è esposta in istrada, in un grande vaso profondo, in cui sta intasata, come una conserva e da cui si taglia con un cucchiaio. Il popolo napoletano porta il suo tozzo di pane, lo divide per metà, e l’oste vi versa sopra la scapece. Dall’oste, sempre per un soldo, si compera la spiritosa: la spiritosa è fatta di fette di pastinache gialle, cotte nell’acqua e poi messe in una salsa forte di aceto, pepe, origano e peperoni. L’oste sta sulla porta e grida: addorosa, addorosa, ‘a spiritosa! Come è naturale, tutta questa roba è condita in modo piccantissimo, tanto da soddisfare il più atonizzato palato meridionale. […]”

28-29 “[…] Con due soldi si compera un pezzo di polipo bollito nell’acqua di mare, condito con peperone fortissimo: questo commercio lo fanno le donne, nella strada, con un focolaretto e una piccola pignatta; con due soldi di maruzze, si hanno le lumache, il brodo e anche un biscotto intriso nel brodo: per due soldi l’oste, da una grande padella dove friggono confusamente ritagli di grasso di maiale e pezzi di coratella, cipolline, e frammenti di seppia, cava una grossa cucchiaiata di questa miscela e la depone sul pane del compratore, badando bene a che l’unto caldo e bruno non coli per terra, che vada tutto sulla mollica, perchè il compratore ci tiene.

Appena ha tre soldi al giorno per pranzare, il buon popolo napoletano, che è corroso dalla nostalgia familiare, non va più dall’oste per comperare i commestibili cotti, pranza a casa sua, per terra, sulla soglia del basso, o sopra una sedia sfiancata.

Con quattro soldi si compone una grande insalata di pomidori crudi verdastri e di cipolle; o un’insalata di patate cotte e di barbabietole, o un’insalata di broccoli di rape; o un’insalata di citrioli freschi.

La gente agiata, quella che può disporre di otto soldi al giorno, mangia dei grandi piatti di minestra verde, indivia, foglie di cavolo, cicoria, o tutte queste erbe insieme, la cosidetta minestra maritata; o una minestra, quando ne è tempo, di zucca gialla con molto pepe; o una minestra di fagiolini verdi, conditi col pomidoro; o una minestra di patate cotte nel pomidoro.

Ma per lo più compra un rotolo di maccheroni, una pasta nerastra, e di tutte le misure e di tutte le grossezze, che è il raccogliticcio, il fondiccio confuso di tutti i cartoni di pasta, e che si chiama efficacemente monnezzaglia: e la condisce con pomidoro e formaggio.

* **

Il popolo napoletano è goloso di frutta: ma non spende mai più di un soldo, alla volta. A Napoli, con un soldo si hanno sei peruzze un po’ bacate, ma non importa: si ha mezzo chilo di fichi, un po’ flosci dal sole: si hanno dieci o dodici di quelle piccole prugne gialle, che pare abbiano l’aspetto della febbre; si ha un grappolo di uva nera, si ha un poponcino giallo, piccolo, ammaccato, un po’ fradicio; dal venditore di melloni, quelli rossi, si hanno due fette, di quelli che sono riusciti male, vale a dire biancastri.

Ha anche qualche altra golosità, il popolo napoletano: lo spassatiempo, vale a dire i semi di mellone o di popone, le fave e i ceci cotti nel forno; con un soldo si rosicchia mezza giornata, la lingua punge e

lo stomaco si gonfia, come se avesse mangiato.

La massima golosità è il soffritto: dei ritagli di carne di maiale cotti con olio, pomidoro, peperone rosso, condensati, che formano una catasta rossa, bellissima all’occhio, da cui si tagliano delle fette: costano cinque soldi. In bocca, sembra dinamite.

***

Questionario:

Carne in umido? – Il popolo napoletano non ne mangia mai.

 Carne arrosto? – Qualche volta, alla domenica, o nelle grandi feste, ma è di maiale o di agnello.

Brodo di carne? – Il popolo napoletano lo ignora.

Vino? – Alla domenica, qualche volta: l’asprino, a quattro soldi il litro, o il maraniello a cinque soldi: questo tinge di azzurro la tovaglia.

Acqua! – Sempre: e cattiva. […]”

Come osservatrice partecipante, l’autrice anche in modo inconsapevole assume uno sguardo da antropologa nel descrivere la natura degli usi e dei linguaggi del popolino tra i vicoli, i miasmi, le viuzze soffocanti, la sporcizia, e l’acqua maleodorante.

***

71 “[…]

Nessuna donna che mangi, nella strada, vede fermarsi un bambino a guardare, senza dargli subito di quello che mangia: e quando non ha altro, gli dà del pane. Appena una donna incinta si ferma in una via, tutti quelli che mangiano o che vendono qualche cosa da mangiare, senza che ella mostri nessun desiderio, gliene fanno parte, la obbligano a prenderlo, non vogliono avere lo scrupolo.

E i poveri che girano, sono aiutati alla meglio, da quella gente povera: chi dà un pezzo di pane, chi due o tre pomidoro, chi una cipolla, chi un po’ d’olio, chi due fichi, chi una paletta di carboncini accesi: una donna, per fare la carità in qualche modo, lasciava che una mendicante venisse a cuocere sul proprio fuoco, sul focolaretto di tufo, il poco di commestibile che la mendicante aveva raccattato. Tanto avrebbe dovuto perdersi, quel resto del fuoco, dopo la sua cucina; era meglio adoperarlo a sollevare una miserabile.

Un’altra faceva una carità più ingegnosa: essendo già lei povera, mangiava dei maccheroni cotti nell’acqua e conditi solo con un po’ di formaggio piccante, ma la sua vicina, poverissima, non aveva che dei tozzi di pane secco, duro.

Allora quella meno povera regalava alla sua vicina l’acqua dove erano stati cotti i maccheroni, un’acqua biancastra che ella rovesciava su quei tozzi di

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pane, che si facevano molli e almeno avevano un certo sapore di maccheroni.

Una giovane cucitrice era stata a Gesù e Maria, l’ospedale, con una polmonite; poi si era guarita, e pallida, esaurita, sfinita, era venuta via. Pure l’ospedale, per assisterla ancora in vista di una tisi probabile, le concedeva, ogni mattina, quattro dita di olio di fegato di merluzzo, che ella doveva andare a prendere, lassù. Ella capitava ogni mattina, col suo bicchiere, sino a che fu rimessa completamente in salute: e allora le dissero che non le avrebbero più data la medicina. Ella si confuse, impallidì, pianse, pregò la monaca che per carità, non gli sospendessero quell’olio – e infine fu saputo che di quell’olio, ella si privava per darlo in elemosina a una povera donna – la quale per miseria, superato il naturale disgusto, lo adoperava a condire il pane o a friggerci un soldo di peperoni. […]”

***

Matilde Serao partecipa a questa condizione rivendicando direttamente la necessità di rete fognarie e di elettrificare le vie per prevenire con il crimine con i lampioni. Richiede una politica abitativa e un mercato degli affitti compatibili per coloro che hanno un basso reddito, costretti a risiedere nelle baracche. Luoghi continui di epidemie che danneggiano tutti indistintamente dal ceto e dalla ricchezza.

E alla fine per stemperare la tensione, cerca di assumere un tono lirico che offra una speranza minima in particolare nel paragrafo sul CHE fare nel quale loda gli imprenditori, gli operai e le donne, che non accettano le tentazioni come Cristo sul monte, perché l’uomo non vive di solo pane, e questo può essere il riscatto per Napoli: onestà, resistenza al vizio, dignità, laboriosità.

Per Matilde Serao il riscatto morale è necessariamente anche politico e sociale.

§CONSIGLI DI LETTURA: I CANI E I LUPI

Irène Némirovsky I cani e i lupi Introduzione di Maria Nadotti
Traduzione di Luisa Collodi Edizione integrale
Titolo originale: Les Chiens et les Loups, 1940,
Newton Compton Editori.

Irène Némirovsky la scrittrice perennemente in fuga da San Pietroburgo, dalla famiglia, dalla Francia, fino a morire nei campi di concentramento nel 1942. Negli anni venti fu una scrittrice di successo. Innovativa, densa, briosa, tagliente, impietosa. Letta da tutti, perché rispecchiava appieno i mutamenti del tempo. Dimenticata a forza per le leggi razziste contro gli ebrei nella Francia occupata. Riscoperta dopo decenni dalla tenacia delle figlie che dal baule conservato, che proposero gli ultimi romanzi non pubblicati e incompiuti.

Questo romanzo, del 1940, è dotato di uno stile conciso e strepitoso che varia dal resoconto alla cantilena di una fiaba secondo il ritmo espressivo dei bambini nel vedere il mondo degli adulti. L’emotività e il carattere dei protagonisti tracciano il ritmo alla storia. Il lettore è guidato per mano, attraverso una prosa ricca di descrizioni

Gli adulti sono caratterizzati dal fisico in assonanza alle loro ossessioni: il vestito degli scopi della loro esistenza. La compulsione offre l’illusione del libero arbitrio nell’azzardo che naufraga nella “hybris”. Il mondo restituisce una immagine dell’agire umano vile e rozza. La bugia è la sorgente dei valori e della presunzione a dichiararsi gli unici artefici della propria volontà. Le proprie abilità sono il nucleo della cupidigia e della sopraffazione. La morale è la cosmesi che tenta di rendere plausibile la bugia, ovvero la sua reduplicazione

Tutti ne sono immersi. Ogni persona è una maschera che intesse la morale nella trama dell’ipocrisia.

Ada e Ben, da bambini, cercano di salvarsi con la fantasia, creando mondi, città e storie, durante il <pogrom>.

“[…] D’istinto i bambini correvano sempre più in alto, verso le colline, voltando le spalle al ghetto. Poi alla fine si fermarono: non sentivano più niente. I cosacchi non li avevano inseguiti, però erano rimasti soli e non sapevano dove andare. Ada si lasciò cadere su una pietra singhiozzando; aveva perso il cappello, i guanti e il manicotto, l’orlo del cappotto si era strappato e pendeva pietosamente; si strofinò la faccia con i pugni; le piccole guance livide erano segnate da macchie nerastre; il pianto si mescolava alla polvere del giorno precedente, formando lunghe striature scure. Ben disse con voce spezzata: «Noi ora scendiamo e cerchiamo di passare da Lilla». «No! No!», gridò Ada in preda a una sorta di crisi di nervi. «Ho paura! Non voglio andare laggiù! Ho paura!». «Ascolta: ti dico adesso quello che faremo! Passeremo per i cortili, dietro le case. Nessuno ci vedrà e noi non vedremo niente».

«Ada», disse, «non bisogna desiderare così forte».

«Madame, non posso fare altrimenti». «Bisogna avere più distacco negli affari di cuore. Essere nei confronti della vita come un creditore generoso e non come un avido usuraio». «Non posso fare altrimenti», ripeté Ada […]”.

Mentre la bella Lilla rappresenta la superficialità ingenua e limitata, Ada ne è il corrispettivo nell’interiorità, entrambe condannate a girare intorno al loro essere ebree perseguitate.

“[…]  «Imbecille», disse lui con tono di aspro disprezzo come quando erano bambini. «Tu non hai mai capito niente? Sì, io millanto, io invento, ma si comincia con immaginare tutto quello che non si può possedere, e si finisce, se lo si desidera con abbastanza forza, per possedere più di quanto si è immaginato». «Lo credi sul serio? Davvero?», mormorò lei. Nascose il viso tra le mani, poi scosse la testa: «A tratti penso che tu ti beffi di me, a tratti invece che sei fuori di senno». «Abbiamo tutti e due il nostro grano di follia! Non siamo esperti in logica, non siamo dei cartesiani, non siamo dei francesi, noi! Non è insensato sognare, a diciassette anni come a otto, di un ragazzo sconosciuto?» […]

«Tu vivi come su un’isola deserta», diceva Harry. «Non ho mai vissuto in altro modo. A che serve attaccarsi a quello che si dovrà perdere?» «Ma perché si dovrebbe perderlo, Ada?» «Non lo so. È il nostro destino. Tutto mi è sempre stato strappato». «Ma io, allora? Io? Tu però mi ami? Tu tieni a me?» «Quanto a te, è tutt’altra cosa. Ho vissuto senza vederti, e quasi senza conoscerti, e tu eri mio come lo sei adesso. Io, che temo sempre la disgrazia, non temo di perderti. Mi puoi dimenticare, abbandonare, lasciare, sarai sempre mio, e unicamente mio. Ti ho inventato, amore mio. Tu sei molto più che il mio amante. Tu sei la mia creazione. È per questo che mi appartieni quasi senza volerlo». […]”

Ada immagina il mondo nella pittura, ricavandone l’interiorità cercando di non occluderla. Ben invece sostituisce il mondo con la sua immaginazione rivolta all’esteriorità, anche per vendetta contro tutti.

L’autrice descrive la CONDIZIONE UMANA NEI SUOI STADI DELLA VITA. SA INTUIRE I PENSIERI DELLE DONNE E DEGLI UOMINI DALLA LORO GIOVINEZZA E DALLA LORO VECCHIEZZA. UNA INTROSPEZIONE FINISSIMA.

Più volte negli anni Ada cammina intorno la casa di Harry con la speranza di essere accolta, e ogni volta è respinta, errando nel ripetere la condizione del popolo errante respinto dal Paradiso.

“[…] «Che tempi, che tristi tempi per una nascita… E la donna è sola». Ma Rose disse: «Bah! Qualunque donna, anche la più ricca e la più adorata, si sente sola il giorno in cui mette al mondo il suo primo bambino, sola come quella che muore o come la prima di noi che abbia dato un figlio alla luce».[…]”

Ed è qui la grandezza di Irène Némirovsky nel descrivere le condizioni universali dell’essere umano dalla contingenza degli eventi storici.

“[…] suo figlio, senza alcun dubbio, conosceva una parte – ed era ciò a conferirgli quell’aria matura e piena di saggezza; lei possedeva l’altra, lei che non lottava più, che non chiedeva niente, che non rimpiangeva niente, che si sentiva insieme così leggera e così stanca. Queste due parti di verità forse stavano per congiungersi e formare una grande luce? La fiamma attacca uno a uno gli alberi e finisce per incendiare tutta la foresta. Contò sulle dita, come un bambino che enumera le sue ricchezze: “La pittura, il piccolo, il coraggio: con questo, si può vivere. Si può vivere benissimo”. Rose Liebig, un po’ preoccupata dal suo silenzio, si alzò e guardò il letto. «State bene tutti e due?», chiese. «Noi stiamo bene», disse Ada. Ripeté, sorridendo, “noi”… Pensava che era la prima volta che poteva pronunciare con certezza questa parola, e che era dolcissima […]”.

Il bambino nasce. Lei diventa la casa di Harry, di suo figlio, del popolo ebraico. La sua maternità continua nel verbo il <<noi>>.

§CONSIGLI DI LETTURA: ARTEMIS. LA PRIMA CITTA’ DELLA LUNA

Artemis. La prima città sulla luna, 2017, di Andy Weir, Newton Compton Editori, Titolo originale Artemis, 2017 di Andy Weir, Crown Publishing Group, a division of Penguin Random House, LLC.
Traduzione dall’inglese di Marta Lanfranco. 

Le questioni relative al Diritto e alle interazioni sociali riguardano anche la convivenza in piccole comunità umane fuori del pianeta Terra. Già oggi esiste un diritto astro spaziale, e anche di proprietà, simile al diritto navale e internazionale. Gli organismi nazionali e internazionali, veramente e non nei libri di fantascienza, da decenni stanno stabilendo protocolli, intese, linee guida per stipulare codici e leggi adeguate, riferite ad agglomerati stabili in ambienti ostili, dove l’ossigeno è una risorsa scarsa, così come il cibo e il territorio. Il calore è un lusso, così anche un posto per dormire.

Esiste la possibilità che per gli sconvolgimenti ambientali e per la lotta di nuove risorse si avranno nuovi tipi di interazioni sociali insospettate che mutueranno nuove definizioni di “crimine”. Pensiamo solo al 2021 in riferimento alla nuova lotta geopolitica per l’appropriazione delle risorse energetiche e delle terre rare, che può causare disallineamenti tra l’offerta e la domanda, quindi l’inflazione, la recessione. La guerra. La fame.

Quando anche lo spazio è considerato integralmente un bene, i luoghi in cui si cammina (e si respira) divengono un oggetto di contesa. Già oggi emergono nuove domande circa la definizione di nuovi soggetti giuridici. Questo romanzo di fantascienza, seppure nella sua trama avvincente e di fantasia, indirettamente, e forse al di là delle intuizioni dell’autore, mostra che:

NON SAREMO NOI A CREARE LE CITTA’ LUNARI, MA è LA LUNA CHE VERRA’ DA NOI QUI SULLA TERRA. ED è già così NELLA CONTESA DELLO SPAZIO PER LE ROTTE DEI SATELLITI, per controllare il traffico dei dati, ovvero della ricchezza, della vita stessa, del controllo meteorologico, e di una nuova definizione della guerra e degli assetti (astro)geopolitici.

In Artemis sono riprodotte le differenze di ceto e di classe. Nella cupola “Armstrong” lavorano gli operai, i saldatori, gli inservienti. Nella cupola “Aldrin” vi sono i turisti con gli hotel e i mega negozi di lussocostosi. Nella Conrad, il tugurio, dormono gli operai e i poveri.

“[…] Facciamo del nostro meglio per evitare che la polvere lunare entri in città. Non ho saltato la decontaminazione nemmeno quando stavo per morire per la valvola rotta. Come mai tanta fatica? Perché la polvere lunare, se respirata, è estremamente nociva. È composta da minuscole particelle di roccia, che non sono mai state erose dalle intemperie, perché sulla Luna non esistono mutamenti climatici. Ogni pagliuzza è pronta a lacerare i polmoni come se fosse filo spinato. Credetemi, è meglio fumarsi un pacchetto di sigarette all’amianto che respirare quella roba. […]”

Nella Cupola Shepard vivono i ricchi con un arredamento Extralusso pieno di lampadari di vetro con legno. Il vetro costa poco ed è lavorato dai soffiatori di vetro, dato che la Luna è piena di Silicio.

L’aria della Terra è composta per il 20% di ossigeno. Per il resto è costituita da gas di cui i corpi umani non ne hanno bisogno, tipo l’azoto e l’argon. Invece l’aria di Artemis è ossigeno puro a bassa pressione (il 20% di quella terrestre), affinché gli organi interni del corpo umano non ne siano danneggiati. Non è una trovata recente, risale ai tempi delle spedizioni Apollo. Il problema è che, per via della bassa pressione, l’acqua ha un punto di ebollizione più basso. In pratica bolle a 61° Celsius, che è la temperatura massima che possono raggiungere un tè o un caffè.

Il discorso indiretto libero non è scritto in prima persona dall’autore, perché sono gli stessi protagonisti che spiegano l’ambiente rivolgendosi al lettore. Quando rimuginano su di sé, richiamano eventi del passato per svelare la propria personalità o quella degli interlocutori, mostrando la città e i suoi problemi di vivibilità, all’interno di una penuria dei materiali, stando permanentemente in condizioni diverse di gravità

I cibi sono freddi. I liquidi come il caffè non arrivano all’ebollizione: sono imbevibili per i terrestri. Si mangiano alghe: almeno i poveri e gli operai. Il contrabbando è la sopravvivenza e il motivo di rimanere lì, oltre al turismo. L’ossigeno è la materia più preziosa, e il nemico più infido, perché è un comburrente.

Chi parla in prima persona e dirige gli eventi è Jazz, la protagonista proveniente dall’Arabia Saudita, dall’età di sei anni. I bambini non possono essere partoririti sulla Luna, a meno di deformazioni e rischi di sopravvivenza. Si diventa madri sulla Terra.

La città di Artemis è retta dallo stato del Kenya. L’ora della Luna è sintonizzata all’ora terrestre di Nairobi (Kenia). La reggente è Fidelis Ngugi: la ex ministra delle Finanze in Kenya. Il Kenya offriva l’equatore. I razzi che partono da lì, costano di meno per la rotazione della Terra e perché secondo Ngugi, il Kenya era un paradiso fiscale. Gli altri paesi esigono tasse onerose alle agenzie spaziali. Il Kenya no.

La proposta: “<<Jazz, sono un uomo d’affari>>, disse. <<Il mio lavoro è valorizzare le risorse sottovalutate e tu decisamente lo sei>>.

Il concetto di spazio è relativo: un garage è considerato quasi una piazza di una città.

Jazz parla indietro nel tempo con Kelvin., il suo amico epistolare in Kenya e da qui si snoda una storia parallele con le vicende lunari. La narrazione bipartita in due serie temporali dove quella epistolare è antecedente, permette il climax, nel punto di incontro logico delle azioni.

Andy Weir scrive con un linguaggio molto meno diretto e volgare, rispetto all’altro suo famoso romanzo su Marte (Martians). Quest’ultimo aveva uno stile corredato di termini meccanici, astrofisici, Artemis invece è impregnato di chimica, fisica e metallurgia (è l’apoteosi dei saldatori).

L’autore è meticoloso nel rendere la trama verosimile. I protagonisti, infatti agiscono sfruttando le conoscenze fisiche e chimiche degli ambienti non terrestri.

Loretta è una antagonista donna e qui si vede che la moralità di tutti è sfumata.

4614-4619 «Non è solo colpa tua. Ci sono state molte mancanze ingegneristiche. Per esempio, perché i sensori nelle tubature dell’aria non sono stati tarati anche per individuare le tossine complesse? Perché la Sanchez teneva metano, ossigeno e cloro vicino a un forno incandescente? Perché nel Centro di Supporto non hanno dei serbatoi d’aria separati in modo che, in caso di problemi nel resto della città, possano rimanere svegli a risolverli? Perché il Centro di Supporto è centralizzato invece di avere una succursale in ciascuna bolla? Sono queste le domande che le persone si stanno ponendo».

4760-4767 «Ma lo fanno già sotto forma di affitto alla ksc. Introdurrò un modello basato sulla proprietà privata e le tasse, così il benessere della città sarà strettamente legato all’economia, ma non da subito». Si tolse gli occhiali. «Fa parte del ciclo vitale dell’economia. Prima viene il capitalismo senza regole, finché non blocca la crescita. A questo punto subentrano le leggi, la loro applicazione e le tasse. In seguito, benefici pubblici e diritti. Infine, eccessiva espansione e collasso». «Un momento. Collasso?» «Sì, collasso. L’economia è un essere vivente. Nasce piena di vitalità e muore rigida e spolpata. A quel punto, le persone formano dei gruppi economici più piccoli e il ciclo ricomincia daccapo, ma con più sistemi economici, con delle economie neonate come quella di Artemis». «Mmm…», mormorai. «Insomma, per far figli devi farti fottere». Scoppiò a ridere. «Tu e io c’intendiamo alla perfezione, Jasmine».

E da qui consiglio la lettura del libro, senza anticipare gli avvenimenti, perché il ritmo è avvincente con molti colpi di scena.

Una nota finale, Andy Weir alla fine del romanzo nella parte relativa ai ringraziamenti cita coloro che lo hanno aiutato a realizzare l’opera. Sono quasi tutte donne che lo hanno supportato per migliorare la scrittura, per conoscere l’Islam, e per scrivere fingendo di stare dentro un punto di vista femminile.

4820-4829  Persone che vorrei ringraziare: David Fugate, il mio agente, senza il quale starei ancora scrivendo sui blog di notte e nei fine settimana. Julian Pavia, il mio editor, per essere un rompiballe quando ce n’è bisogno. L’intera squadra della Crown e della Random House per il loro lavoro e supporto. Siete troppo numerosi e qui non posso citarvi individualmente, ma, per favore, sappiate che sono incredibilmente grato di avere così tante persone intelligenti che credono nel mio lavoro, tanto da diffonderlo nel mondo. Un ringraziamento speciale va al mio agente pubblicitario di lunga data Sarah Breivogel, i cui sforzi sono stati essenziali nel farmi rimanere lucido negli ultimi anni. Per i loro intelligenti commenti in varie aree, ma soprattutto per avermi aiutato a superare la sfida di scrivere “al femminile”: Molly Stern (editor), Angeline Rodriguez (l’assistente di Julian), Gillian Green (la mia editor inglese), Ashley (la mia compagna), Mahvash Siddiqui (un’amica, che mi ha dato una mano a rendere accurata l’immagine dell’Islam), e Janet Tuer (mia madre).