§consigli di lettura: Le finestre di fronte

LE FINESTRE DI FRONTE di Georges Simenon, 1985, Adelphi, Milano. Traduzione di Paola Zallio Messori

Il pericolo che incarna nel proprio corpo il virus della minaccia

Siamo a Batum, sul Mar Nero, nei primi anni di Stalin. Adil bey è il nuovo console turco. Comincia a guardarsi intorno. Entra nel suo ufficio, «sporco di quella sporcizia lugubre che si ritrova nelle caserme e in certi uffici pubblici». Dà un’occhiata fuori e vede due persone affacciate alla finestra di fronte. «Prendevano il fresco, nell’oscurità, in silenzio». Più tardi vedrà il punto rosso di una sigaretta nel buio di quella finestra. Adil bey avverte subito un invincibile disagio, in quella città desolante, dove tutto lo respinge, dove ogni significato è dubbio e sfuggente. E si sente preso in una rete: sguardi, mezze parole, contrattempi, scene intraviste. Capisce di essere un insetto condannato a contemplare la ragnatela che lo imprigiona. Continua a guardare le finestre di fronte, con maggiore curiosità di quella che mostrano gli altri a osservare lui. Spia le spie, e intanto anche il suo corpo sembra intaccato, una cupa rabbia si unisce alla paura

Ogni cittadino controlla l’altro. I russi controllano i georgiani, ognun di loro è sorvegliato dalla polizia segreta. L’uscita e l’entrata dalla città doveva essere certificata. Un documento per richiedere il servizio di una cameriera, di un idraulico, di una segretaria. Il console lavora traducendo le file della persona, in atti amministrativi che quasi mai vengono accolti dalle autorità sovietiche. Fogli che richiamano i fogli, dove le persone si trasformano in timbri e in firme.

Tutti hanno paura di essere infettati dall’accusa di cospirare contro il comunismo, contro i russi, contro l’Unione Sovietica. Lo stile di Simenon è diretto, immaginifico a partire però dalle sensazioni fisiche dei protagonisti. È un libro scritto nel 1933 e nel mondo non si conosceva appieno cosa stesse diventando con Stalin, l’Unione Sovietica. Georges Simenon ha una capacità visionaria eccezionale da configurare realisticamente ciò che negli anni a venire sarebbe diventata la prassi del controllo carcerario di ogni aspetto della società sovietica. Se si pensa che stiamo parlando di uno scrittore che riusciva a scrivere decine e decine di pagine in un giorno solo, si rimane meravigliati dalla sua capacità sovrannaturale, quasi, di narrare intrecci e dialoghi in parallelo, man mano che sviluppava in tempo reale la storia.

“[…] Per lui la città era qualcosa di vivo, una persona che si era rifiutata di accoglierlo, o meglio che lo aveva ignorato, lo aveva lasciato vagare per le strade, tutto solo, come un cane rognoso. La detestava, come si detesta una donna che si sia corteggiata invano. Si accaniva a scoprirne le tare. Era una passione triste, senza contropartite. […]”.

“[…] «Da tre settimane a Batum non si trovano patate. E intanto all’Hôtel Lenin, dove alloggiano gli alti funzionari, servono caviale fresco, champagne francese, kakliks». «È per gli stranieri». «Ma se non ne arrivano due in tutto l’anno!». «E da voi, i ministri non mangiano meglio degli acquaioli?». […]”

Le donne, e stiamo parlando del 1933, tutte cercano di sopravvivere, di ragionare, e di tessere strategie di alleanze, affari, e fughe. Si rimane sinceramente ammirati dal rispetto che Georges Simenon ha della donna, raffigurandola autonoma nelle sue deliberazioni in modo secco, non compiacente, ma reale allo stesso titolo che vale per gli uomini.

“[…] non fiatare! Ci si fa la propria tana. Ci si crea le proprie abitudini. Si arriva persino a non pensare più se non a sprazzi, in modo vago, come quando si sogna. […]”

“[…] Nella notte aveva sudato abbondantemente benché fosse poco coperto, una cosa che gli capitava sempre più spesso. Talvolta si chiedeva se avesse mai sudato in quel modo, tempo addietro. Frugava nei ricordi ma non rammentava di essersi qualche volta svegliato madido di sudore in lenzuola umidicce. Soprattutto non rammentava di essersi alzato più stanco della sera prima. Ebbene, ora succedeva tutti i giorni. Restava un bel po’ con lo sguardo fisso davanti a sé prima di sentirsi dentro la forza di vivere. Era imbruttito; aveva la bocca amara, di un amaro che non conosceva. […]”

Interessante rilevare la critica indiretta agli italiani, quando scrive che il console italiano e la consorte ritornano in patria per Natale, con l’imbarcazione di nome “Aventino”. In quell’anno la dittatura vista in modo ambivalente nel mondo era quella italiana. Ed è sottile la critica di Georges Simenon sugli italiani che avviano rivoluzioni finte, e che le vere rivolte sono rimandate con un ritiro diplomatico che sa di fuga. L’immagine di un popolo cerchiobottista, sempre incline al tradimento.

“[…] E poi c’era il mare, che non assomigliava affatto a un mare né a qualcos’altro. Era un grigiore sconfinato, un vuoto che esalava soffi umidi: non si formavano onde sulla riva, non si udiva lo sciabordio. Era piatto come uno stagno, costellato di migliaia di piccoli cerchi disegnati dalle gocce di pioggia, migliaia di migliaia, fino all’orizzonte, fino in Turchia e forse più lontano ancora. […]”

“[…] Era rimasto solo, Adil bey, nella città battuta dalla pioggia, popolata di gente rintanata dietro le finestre oscurate da cartoni al posto dei vetri. […]”

“[…] Ridevano ancora, dal capitano, quando Adil bey, tornato nella sua cabina, girò l’interruttore elettrico e meccanicamente guardò l’oblò, quasi a sincerarsi che non ci fossero più finestre di fronte. […]”

Un libro che offre all’inizio un virus che potrebbe aggredire ognuno dall’esterno dagli occhi del vicino, dalle strade malsicure, per le quali si è obbligati ad uscire, non avvertendo invece che il veleno sta dentro casa.

§CONSIGLI DI LETTURA: la cacciatrice di storie perdute

La storia del passato e le storie del presente nell’incontro tra madri e figlie

Titolo originale: The Storyteller’s Secret Copyright © 2018 by Sejal Badani All rights reserved. Traduzione dall’inglese di Valentina Legnani e Valentina Lombardi. Prima edizione ebook: giugno 2019 © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma ISBN 978-88-227-3431-0

“[…] era solito raccontarmi mio padre da bambina, ogni volta che chiedevo perché non avessi fratelli o sorelle. «Non sarebbe stato carino nei confronti delle altre famiglie se avessimo chiesto di più dalla vita». Eppure, di rado mi è capitato di sentirmi una benedizione per mia madre. Al massimo riuscivo a essere una delusione per lei: lo vidi dal modo in cui le sue labbra si strinsero quando persi alla finale della gara di spelling in quinta elementare; dal modo in cui il suo viso sembrò irrigidirsi quando non riuscii a entrare nella squadra delle cheerleader; o dallo sguardo distante che ora vedo nei suoi occhi, mentre contempla la mia incapacità di dare alla luce un bambino. […]”

“[…] «La promessa è stato il prezzo che ho dovuto pagare per essere nata. È tutto ciò che hai bisogno di sapere». Con voce stanca, mi augura la buonanotte. […]”

Le storie di Jaya nata negli USA, da una coppia indiana e delle vicende della Nonna Amisha, raccontata da Ravi, vanno in parallelo, quando lei si recò in India, scappando letteralmente da tutto, dopo il terzo aborto spontaneo. E lì nella casa, i due tempi si incrociano: il suo di Jaya che, attraverso i racconti di Ravi, va alle fonti del passato, e l’altra di Amisha, che cerca di imparare l’inglese perché voleva scrivere. I due tempi vanno simultaneamente da quella casa: una in avanti nel tempo e una indietro, ridefinendo un nuovo presente.

“[…] Amisha alzò il capo e i loro sguardi si incrociarono. Negli occhi di lui, vide confusione e distacco. Senza dire una parola alla moglie, Deepak si riaddormentò alla tenue luce della luna. Amisha, invece, continuò a scrivere, trovando conforto nell’unico posto che conosceva, ossia le parole che sgorgavano dal suo cuore. […]”.

“[…] «Io sono un intoccabile». Ravi batté il terreno con un piede nudo e distolse lo sguardo per la vergogna. «È importante che voi lo sappiate». «E io sono una donna». Abituata a vivere una realtà perennemente in ombra, rivolse lo sguardo al sole. «Ora abbiamo stabilito i nostri ruoli». «Voi siete la figlia del proprietario del mulino», ribatté Ravi. «I miei genitori e i miei fratelli sono vagabondi come me. Mendicare è il nostro destino». […]”

Il sentiero di questo tempo è l’India tra le divinità, l’indipendenza, le riforme sociali ed economiche, in un cammino dove le donne e le caste cercano di scrollarsi i vestiti e le catene. Nel libro vi è una sovrabbondanza di monologhi interiori che hanno lo scopo di parlare degli assenti, quali i genitori di Jaya negli Stati Uniti, suo marito Patrick dal quale si è separata, ma ancora non divorziata e i fantasmi del passato raccontati da Ravi, che spiegano gli eventi del presente. Attraverso i racconti e il vivere di quei giorni Jaya si immerge nel cibo, nei ritmi, negli odori, nelle divinità presenti, concrete, dove l’immagine è soggetto a sé e non rimando del divino. Proprio perché il libro viaggia nel tempo, le azioni sono quasi raccontate in uno stile giornalistico. Ed infatti Jaya è una giornalista, scrive come la nonna Amisha, e comprende spinte sue interiori, conoscendo la storia dei suoi parenti lì in India.

Una storia mai raccontata dai suoi genitori.

“[…] Forse, la sua passione per la scrittura non era una sofferenza da tollerare, bensì un dono da amare e proteggere. Le sue storie erano l’unico passaporto che l’avrebbe condotta in luoghi in cui non era mai stata. Senza di loro, sarebbe rimasta intrappolata per sempre in quel villaggio. […]”

“[…] Amisha raddrizzò la schiena e tentò di raccogliere la sua forza limitata, eppure si sentiva piccola rispetto all’imponente donna inglese. «Insegnerò qui perché questo è ciò che mi è stato chiesto». Pensò alle sue storie e all’importanza che avevano per lei. «Per quanto riguarda ciò che insegnerò, non lo so ancora bene», ammise. Nell’affrontare quella donna, si sentì ancora più giovane dei suoi anni. «Chiederò agli studenti di mettere per iscritto quello che si annida nei loro giovani cuori. E se le storie li condurranno in terre lontane, li incoraggerò a intraprendere questo viaggio». Amisha concesse un sorriso a quella donna irremovibile. «Insegnerò loro, quando viaggeranno con le storie, a rispettare le persone che incontreranno e i loro valori. Non sta a noi giudicare gli usi e i costumi degli altri, ma possiamo sfruttare l’occasione per imparare». Ignorò il fatto che la donna la guardasse con gli occhi sbarrati, e concluse dicendo: «Perché quando tendi la mano in segno di rispetto, sarai a tua volta accolto con benevolenza». […]”

“[…] Gli studenti si sporsero in avanti, ansiosi di conoscere quel mistero. «“Prima che nasceste voi, non ero mai stata una mamma”, dissi loro. “Sto imparando a essere la vostra mamma come voi state imparando a essere i miei figli”». «Avete detto loro queste cose?», chiese un’altra studentessa. Emozionata dal modo in cui i bambini stavano interagendo con lei, Amisha annuì. «Sì, l’ho fatto. Erano sorpresi. Probabilmente, credevano che io fossi nata mamma». Sorrise alle loro risate. «Così abbiamo stretto un patto. Loro mi avrebbero aiutato a essere una mamma migliore e io li avrei aiutati a essere dei buoni figli». Amisha si alzò e cominciò a camminare tra le file di banchi. «Propongo a ciascuno di voi lo stesso patto. Non sono mai stata un’insegnante prima d’ora. Se voi mi aiuterete a diventare una brava insegnante, io farò del mio meglio per aiutarvi a diventare degli scrittori migliori». […]”.

“[…]  «Da dove vengono le storie?» «Dalle nostre menti», rispose uno studente. «Dalle varie storie che ascoltiamo», disse un altro. «Dai nostri sogni», esclamò una ragazza. […]”

“[…] Entusiasta per l’interesse dimostrato dagli allievi, Amisha disse: «Voglio che ciascuno di voi scriva della creazione di qualcosa che desiderate, della distruzione di qualcosa di cui non avete bisogno, e della protezione di ciò che è vitale. E dovete spiegare le sensazioni che il vostro cuore, la vostra anima e la vostra mente provano riguardo a ognuno di questi eventi». Amisha stava riordinando la classe quando entrò Stephen, lanciando uno sguardo alla lavagna. «La Terra?» […]”

Jaya comprende che gli Stati Uniti, lei stessa, l’India e sua nonna erano e sono in cammino verso nuove porte del sapere.

“[…] «Non sei d’accordo sulla perfezione della mia pronipote?», chiede Ravi. Urla a Misha di salutare i suoi amici. «Nella mitologia indiana, quando la luna copre il sole, le tenebre hanno il potere di coprire la tua vita». Lentamente, si fa strada attraverso la sala, in direzione dell’uscita. «Ma non è sempre necessario che il sole splenda per avere la luce. Nel buio, dobbiamo cercare le stelle. Anche la loro luminosità ha un potere». «Perché mi hai portata qui, Ravi?», domando. Mi rivolge un sorriso triste. «Mi hai detto che sei venuta in India per fuggire dal tuo dolore. Ho pensato a cosa ti avrebbe detto tua nonna se fosse stata qui». Abbassa la testa. «Non potrei mai pensare di parlare per lei, ma…». […]”

E colei che era venuta per cacciare e raccontare le storie, comprende di esserne parte integrante. Sebbene il finale del libro, ricalca uno stile quasi prevedibile nelle relazioni tra il marito e i genitori e con Ravi, tale senso di ordine, permette invece di immergersi totalmente nella consapevolezza della propria rinascita, dove non si caccia alcunché e la preda è inesistente, perché si è se stessi, testimoni del proprio vivere.