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CONSIGLI DI LETTURA: LA RAGAZZA DELLA PALUDE

LA RAGAZZA DELLA PALUDE, di Delia Owens (Autore), Lucia Fochi (Traduttore), Solferino Editore (2022), Rizzoli, Milano, ed. originale in lingua inglese, 2018

Non è un caso che appena uscito, fu un successo per tutto il mondo anglosassone e poi europeo, e da cui fu tratto un film, famosissimo. Il romanzo, però, al di là delle stesse intenzioni dell’autrice, ed è questo il bello delle opere mirabili, è ben più articolato e denso del film e della pubblicistica. Qui siamo innanzi all’evento di questa ragazza che oltrepassa il suo luogo d’ideazione e diviene veramente la “La Ragazza della Palude”.

Gli anni vanno e vengono nella narrazione come onde, flutti e riflussi sulle coste. Ritornano lì nel pantano, e tutto ritorna accolto nella palude. La mappa fornisce i luoghi topici e mitici. La città è una escrescenza tra l’oceano, la pozzanghera, l’umido e il fiume, conservata per poco dal sale, e poi corrosa. Tra schiume del tempo e brezza del ricordo.

In quel luogo vi è la ragazza della palude che ognuno abbandona nella solitudine. Però, lì, quasi tutti ritornano. Nel pantano le onde e i rami schiumano, interrompendo il loro flusso ben coordinato e veloce rispetto allo scandire del tempo. Ciò che sembra lineare, nel pantano sembra arrestarsi. Acqua, fango, uova di uccelli, molluschi, insetti, rami, radici, foglie morte, ognun si tampona con l’altro. Il grande cumulo, dove anche i secondi restano intrappolati nella sabbia che, accogliendoli e disgregandosi, inclina lo spazio, e lo proietta in una immagine statica, senza che vi sia movimento: in modo carsico. L’acqua pian piano fluisce e lega ogni oggetto in un groviglio, vivo o decomposto, in un grande grumo, che continuamente si dispiega, in una metamorfosi di insetti, di larve, di fusti d’acquitrino, di alghe, di pesci che lì stazionano e nascono. È una danza da fermi che roteando genera strutture ben più corpose, come le aree costruite dagli uccelli migratori e da quelli stanziali, i quali, come provetti carpentieri, impastano l’acqua nell’edificare le spiagge, i nidi, gli isolotti e le dighe.

Prede e predatori lì convergono, attirati da tutti i loro secondi impigliati.

Delia Owens, prima di scrivere il suo romanzo d’esordio, e anche dopo, è stata una valente etologa e ornitologa, e lo si nota dalla descrizione minuziosa degli animali, dei pesci, degli insetti, i quali agiscono, entro e con la palude, assieme ai personaggi canonici.

L’ecologia, intesa come un nido d’infanzia, la casa di cura e di nascita, segue un filo narrativo parallelo con le azioni dei singoli, oscillando su intervalli temporali che, come il giorno e la notte della nebbia e della rugiada della palude, vanno avanti negli anni e ritornano indietro. Gli eventi iniziano in modo invertito, collegandosi con situazioni accadute mesi e decenni prima, e viceversa. Il perno di questo vortice temporale che conferisce la stabilità alla narrazione è LEI: la ragazza della palude. La fragile bimba vessata ed abbandonata, disprezzata, osteggiata, isolata, che, però, trae da sé stessa le forze e le capacità per sopravvivere e crescere e venire in relazione con ciò che è al di fuori della palude, nel tempo della società. Quella particolare comunità che però ondeggia tra il fiume e l’oceano. Due canne d’acqua in balia delle onde del tempo, delle quali, la palude, è ancor di più, a pelo d’aria e d’acqua, sospesa tra il reale e il fantastico, che risponde nel mito, nel ricordo e nel racconto.

Quando la ragazza della palude è estremamente debole ed indigente, fortunatamente riceve l’aiuto di alcuni, che però, guarda caso, sono anch’essi quasi reietti dal mondo del tempo lineare. E quando acquisisce l’autonomia, altri ancora, però, tentano di sopraffarla e acquisirle la vitalità, l’eccitazione e la propria affermazione. La palude e la ragazza sono i luoghi in cui l’inconscio di ogni personaggio emerge nei lati non visti e non espressi magari, volutamente celati, oppure strenuamente perseguiti.

All’inizio il romanzo assume uno stile quasi dell’ottocento, nel raffigurare una famiglia disgraziata, con l’abbandono di questa figlia. Dopodiché assume il tono di un thriller, fino a quello del mistero, passando per l’avventura della sopravvivenza, ma poi declina in una descrizione etologica di tutti gli esseri viventi, non fredda, ma partecipata e quasi compassionevole. Il lettore si ritrova a convivere con famigliarità in questo ambiente di più dimensioni temporali dove i mutamenti non si disperdono, ma si raccolgono in quella memora ciclica di nascita, crescita, mutamento che è la palude, con il suo ingresso che è il pantano: il luogo che risponde alle proprie inclinazioni. Dure, crudeli, di riparo, edificanti, in base agli angoli nascosti dei protagonisti.

È anche una storia indiretta del sud degli Stati Uniti, visti però da lontano, dove gli avvenimenti giungono sfocati, lenti, in punta di piedi e questi subiscono l’erosione dell’ambiente salino, salmastro, sornione della palude. La riposante umidità che ipnotizza, impigrisce, richiama, affonda, e fa naufragare le parole a una sola dimensione. Si riesce a muoversi e a vivere, solo se si ha la capacità di osservare la realtà e di comprendersi in più livelli interpretativi. I ruoli si moltiplicano nello stesso personaggio, connettendosi, però, attraverso contorni laschi e sfumati.

Violenza, delitto, amore, passione, fuga, tristezza, dolore, speranza, eroismo, generosità, tutto vi è un questo quadro che prende vita ogni volta che il lettore ha la spinta a percorrerlo. E lì quell’incrocio tra il fiume e l’oceano ad esprimere questa comunità piccola e modesta, ma universale tra l’angoscia della caduta, il timore dell’attacco, la speranza del guado, come è appunto la vita di una libellula d’acqua, cioè la ragazza della palude.

§CONSIGLI DI LETTURA: LA PORTA

La porta di Magda Szabò (Autore), Bruno Ventavoli (Traduttore), 2014, Einaudi, Torino, ( Prima ed: Az ajtó, 1987)

È una crepa nel presente che cresce come un vortice, attirando moti d’aria e d’attenzione, perché non si può smettere di leggere. I personaggi sono introdotti con indizi che a mo’ di esca, attraggono e seducono, evocando una irresistibile curiosità.

Gli eventi e i luoghi sono sorgenti di misteri che veicolano la narrazione. Anche rimanendo tali, li sentiamo scandire il ritmo delle vicende.

La descrizione dei personaggi si accompagna ai loro atti e alla osservazione partecipante dell’autrice che è una dei partecipanti. Si è nel dubbio se la scrittrice stia rievocando la sua biografia, o se sia una inventata. In ogni caso, le protagoniste si sdoppiano nell’offrire un diario degli eventi. I quali a loro volta viaggiano in un binario esterno cronologico e uno interiore che curva e si torce nelle storie di vita accadute di ognuno.

Nonostante i rimandi e le spirali, non si hanno sensazioni di pesantezza nel voler definire un ordine logiche di cause che scateneranno nuovi sommovimenti. Anzi, il lettore è invitato a supporli amplificando una ricca offerta di climax nella narrativa.

È una magnifica prova di scrittura per Magda Szabò, non a caso ritenuta una delle scrittrici ungheresi più autorevoli del ‘900. Dovette subire decennali e multiple forme di censure, resistendo comunque, attraverso un’incessante opera di libera divulgazione, tesa a scandagliare i processi più profondi dell’animo umano, correlati a precise e tragiche vicende storiche.

La storia delle protagoniste è anche uno specchio della storia del popolo ungherese, con rimandi continui tra gli anni e i secoli. L’inconscio di una bimba è quella di un popolo, e ogni ciclo famigliare costituisce una individuazione del corso di crescita dell’Ungheria.

4-6  “[…]. I miei sogni sono assolutamente uguali, tessuti di visioni ricorrenti. Sogno sempre la stessa cosa, sono in piedi, in fondo alle nostre scale, nell’androne, mi trovo sul lato interno del portone con il telaio d’acciaio, il vetro infrangibile rinforzato di tessuto metallico, e cerco di aprirlo. Fuori, in strada, si è fermata un’ambulanza, attraverso il vetro intravedo le silhouette iridescenti degli infermieri, hanno volti gonfi, innaturalmente grandi, contornati da un alone come la luna. La chiave gira nella serratura, ma i miei sforzi sono vani, non riesco ad aprire il portone, eppure so che devo far entrare gli infermieri altrimenti arriveranno troppo tardi dal mio malato. La serratura è bloccata, la porta non si muove, come se fosse saldata al telaio d’acciaio. Grido, invoco aiuto, ma nessuno degli inquilini che abitano sui tre piani della casa mi ascolta, non possono farlo perché – me ne rendo conto – boccheggio a vuoto come un pesce, e quando capisco che non solo non riesco ad aprire il portone ai soccorritori, ma sono anche diventata muta, il terrore del sogno raggiunge il culmine. A questo punto vengo risvegliata dalle mie stesse urla, accendo la luce, provo a dominare il senso di soffocamento che mi assale sempre dopo il sogno, intorno ci sono i mobili conosciuti della nostra stanza da letto, sopra il letto l’iconostasi di famiglia, i miei avi parricidi che indossano i dolman con gli alamari secondo la moda del barocco ungherese o del biedermeier, vedono tutto, capiscono tutto, sono gli unici testimoni delle mie notti, sanno quante volte sono corsa ad aprire la porta agli infermieri, all’ambulanza, quante volte ho provato a immaginare, mentre udivo filtrare dal portone aperto il passo felpato di un gatto, o lo stormire delle fronde, invece dei noti rumori diurni delle strade ora ammutolite, che cosa succederebbe se un giorno lottassi invano e la chiave non girasse nella serratura. I ritratti sanno tutto, in special modo ciò che mi sforzo di dimenticare, che ormai non è più sogno […]”

Una governante e la padrona in perenne conflitto che ricercano comunque attraverso gli anni un universo coerente circa gli eventi subiti e immaginati, perché questi non cadono mai nel participio passato. Rimangono lì, modificando lo spazio, indirizzando i comportamenti, coltivando le superfici perennemente seminate di nuovi simboli.

L’ossessiva descrizione degli ambienti e delle persone fin nei minimi particolari, potrebbe instillare un pigro e sonnolento giudizio circa la dilatazione temporale delle storie. Quasi uno stato di indugio autocompiaciuto. In realtà ogni offerta degli scenari provoca uno slittamento semantico che ricompone un nuovo quadro di significato. S’aprono ulteriori direzioni che avvertono nuovi accadimenti in relazione con quelli accaduti.

La doppia riflessione su una narrazione che è già una strada di analisi, trasla ciò che è compiuto accostandolo a ciò che in quel momento è considerato l’attimo presente. Il passato si espande nel presente, ma non dilegua, perché lascia aperta una porta al lettore, illudendolo che sia il censore che finalmente risolve il dissidio, ma che in realtà diviene il vettore di una nuova strada possibile: cioè il futuro.

Gli oggetti, i luoghi apparentemente banali e i dialoghi di raccordo, d’improvviso evocano le guerre mondiali, quelle dell’ottocento, le dominazioni subite e inflitte ai confinanti. Le prime forme statuali emergono d’improvviso, come mattoni nello spazio in cui i protagonisti si muovono. Ogni famiglia è una comunità, e questa è un popolo. La città è la nazione ungherese e questa è parte dei popoli che in essa la attraversarono e che ancora lì sono presenti, tra i cimiteri, le nascite, le guerre, e le stagioni.

La governante è la padrona instaurano un dialogo ininterrotto, scambiandosi a volte il ruolo della coscienza che disvela, e quello dell’errante cieco, sordo e muto. Eroiche e malate entrambe. Ignare comunque di portare l’eredità di questa storia personale e collettiva, anzi di esserne loro stesse un simbolo che via via si accosta a tutti gli altri di questo percorso accidentato tra le porte, le serrature, e i muri: ostacoli prima, illusioni dopo, ed enigmi sempre.

33-34  “[…] Al momento del mio risveglio non la vidi in casa, né in strada quando partii per l’ospedale, ma il marciapiede scopato e sgombro di neve davanti al portone rivelava la presenza del suo lavoro. «Evidentemente Emerenc sta facendo il giro delle altre case», spiegai a me stessa mentre il taxi mi portava a destinazione; non ero piú angosciata, avevo il cuore leggero, sentivo che in ospedale mi aspettavano solo buone notizie, ed effettivamente fu cosí. Rimasi fuori fino all’ora di pranzo, rincasai affamata, sicura che lei fosse là seduta nell’appartamento e aspettasse il mio ritorno, ma mi sbagliavo. Mi trovai nella situazione, cui non ci si riesce mai ad abituare, di chi torna a casa e non trova nessuno curioso di sapere che notizie porta, liete o funeste che siano – l’uomo di Neandertal probabilmente imparò a piangere quando capí per la prima volta di essere completamente solo accanto al corpo del bisonte trascinato nella caverna, di non aver nessuno con cui condividere le avventure della caccia, nessuno cui mostrare il trofeo o le ferite subite. L’appartamento mi aspettava vuoto, la cercai dappertutto, chiamai il suo nome ad alta voce, semplicemente non volevo […]”

133  “[…] Emerenc, se mai credeva in qualcosa, credeva nel tempo: il Tempo, nella sua personale mitologia, era un mugnaio che macinava senza sosta nel suo mulino eterno e dosava la tramoggia degli eventi a seconda del sacco che le persone gli posavano davanti. Nella fede di Emerenc nessuno restava a mani vuote, nemmeno i morti, non capiva come, ma era convinta che il mugnaio macinasse anche il loro grano e riempisse i loro sacchi, solo che alla fine erano altri a caricarsi la farina in spalla e a portarla via per cucinare il pane […]”

Il tempo, la scrittura, il ritmo, e la porta: il grande ostacolo che in realtà è tale in base alle domande che il singolo si pone. Una sfida stimolante per il lettore, perché in questo romanzo è direttamente chiamato in causa, assieme alla sua intera biografia itinerante.

§CONSIGLI DI LETTURA: L’ESTATE INCANTATA

L’estate incantata di Ray Bradbury, 2019,
(Prima ed. 1957) Collana: Moderni,
Mondadori Milano

L’incanto nella visione di un bambino in una veste animistica. Ogni cosa acquista una vita propria. Il Sole nelle case, nelle mura, le luci. Le stelle che spariscono con un soffio del bimbo per offrire lo spazio per il ciclico tragitto del carro del sole. Le strade che si illuminano come occhi di drago. Arriva l’estate. Lui, Douglas, sveglia tutti. Le luci del mattino delle case si aprono come grappoli nell’orizzonte e nel converso i lampioni nella città si spengono come candele su una torta nera. Voler essere nudo tra gli alberi, portando sulla pelle il freddo del congelatore e il caldo della nonna che arrostisce i polli.

Metafora, sinestesia, allegoria. Per un bimbo tutto è un simbolo che si scopre per ogni oggetto: la magia che porta nuove parole dalle fiabe e dai racconti. Ogni elemento della realtà è uno scrigno di invenzioni.

La città viva che pulsa rigogliosa nelle nuove e crescenti ramificazioni estive per ragazzi che giocano tra il possibile e il reale, tentando di realizzare l’immaginazione negli eventi del mondo.

Gli adulti sono ancora bambini e non lo sanno: ecco perché falliscono. Non riconoscono di esser già quello che di cui vanno perseguendo, ma Douglas e i suoi compagni invece riescono a scorgere il tesoro. La macchina della felicità di Spaulding fallisce miseramente, ma alla fine si accorge che questa è fornita dall’amore della moglie. Il vecchio colonnello Freleeigh cerca di mantenersi in vita riportando il passato nel presente, capendo però alla fine di esser lui stesso la congiunzione temporale, utile e benefica per i più giovani.

La quasi centenaria Loomis che offre nuove vite e altri mondi già accaduti al giornalista Forrester, che la segue abbeverandosi alle sue considerazioni, fino a quelle più preziose.

“[…] In un pomeriggio di primo settembre William Forrester attraversò il giardino di Helen Loomis e la trovò intenta a scrivere. Lei mise da parte la penna e l’inchiostro. «Le stavo scrivendo una lettera» confessò. «Be’, dato che sono qui può risparmiarsi la fatica.» «No, si tratta di una lettera speciale. Guardi.» Gli mostrò la busta azzurra, che chiuse e premette. «Se la ricordi. Quando il postino gliela recapiterà, lei saprà che sono morta.» «Che discorsi sono questi?» «Si sieda e mi stia a sentire.» […]

 «Ma lei non può predire la sua morte» disse Bill. «Per cinquant’anni ho guardato la pendola in salone, William; dopo averla caricata so indovinare al secondo quando si fermerà, e nel mio caso è lo stesso. I vecchi le sanno, queste cose: sentono la macchina che rallenta e gli ultimi pesi che calano sul piatto. Oh, per favore, non mi guardi a quel modo… per favore.» «Non ci posso fare niente» disse lui. «Abbiamo passato insieme dei bei momenti, vero? Le nostre chiacchierate quotidiane erano qualcosa di speciale. C’è una frase abusata in proposito: “l’incontro di due spiriti”.» Helen rigirò fra le mani la busta azzurra. «Ho sempre saputo che la qualità dell’amore viene dallo spirito, anche se il corpo a volte si rifiuta di ammetterlo. Il corpo vive per conto suo, vive per cibarsi e aspettare la notte. È essenzialmente notturno. La mente invece, William, è nata nel sole, e passa gran parte della vita sveglia e all’erta. Si può trovare un equilibrio tra il corpo, pietosa ed egoista creatura della notte, e l’intelletto, fatto per una vita solare e attiva? Non lo so. Ma so che quando la sua mente e la mia si sono incontrate, i nostri pomeriggi in giardino si sono trasformati in qualcosa di unico. C’è ancora molto da dire, ma rimanderemo alla prossima occasione.» […]”

Douglas gioca, si interroga, sperimenta, vede le nascite e gli abbandoni. Da dodicenne qual è sente nel suo intimo l’idea del mutamento e il senso della morte. Prova la disperazione del rifiuto di tutto, inizialmente perché non vuole dipendere da nessuno, dato che tutti prima o poi lo abbandoneranno o moriranno, e le cose come le scarpe da tennis e i giocattoli si romperanno.

“[…] Quindi…! Inalò due profonde boccate d’aria e le espirò lentamente, fra i denti stretti. QUINDI. L’ultima parte la scrisse in tutte maiuscole. QUINDI SE I TRAM, LE MACCHINE, GLI AMICI E I CONOSCENTI POSSONO ANDARSENE PER UN POCO O PER SEMPRE, ARRUGGINIRE O CADERE A PEZZI; SE LA GENTE PUÒ ESSERE ASSASSINATA, SE PERFINO LA BISNONNA, CHE AVREI GIURATO CAMPASSE IN ETERNO, PUÒ MORIRE… SE TUTTO QUESTO È VERO… ALLORA IO, DOUGLAS SPAULDING, A MIA VOLTA UN GIORNO… DOVRÒ… Ma le lucciole, come spente dai suoi lugubri pensieri, non facevano più luce. In ogni caso non posso scrivere più, pensò Douglas. E non lo farò. Finirò un’altra volta, non stanotte. Dette un’occhiata a Tom, che dormiva appoggiato sul gomito, la guancia nel palmo della mano. Gli bastò dargli una spintarella perché Tom crollasse nel letto, silenziosamente. Douglas prese il grande boccale con le lucciole e lo agitò: come vitalizzate dal suo tocco, le bestiole splendettero di nuovo. Douglas guardò l’ultima pagina, che aspettava le sue conclusioni. Invece di scrivere parole andò alla finestra, alzò la zanzariera e liberò le lucciole, che si sparsero di qua e di là nella notte senza vento. Si affidarono alle ali e volarono via. Douglas le guardò scomparire. Se ne andavano come i pallidi frammenti dell’ultimo crepuscolo di un mondo morente. Se ne andavano come gli ultimi brandelli di calda speranza dal palmo della sua mano.

[…]”

Ma l’intimità della sua irresistibile capacità a stupirsi e a notare che anche l’estate prendeva congedo, lo lasciò di nuovo ammirato per i primi doni dell’autunno che lanciava messaggi di arrivo. E anche qui, sentì nel suo intimo l’incanto di questi doni, che, non avendo ancora nomi, la sua meraviglia li portavano in una presenza piena di vita, e con uno slancio poetico tra i suoni e le luci, nuove sinestesie apparvero.

Quest’opera è un formidabile canto dei corsi del vivere, sempre diverso, mutevole, caduco, ma tenace, tra il dolore e il sorriso, nella conoscenza del dolore e nell’abbraccio al tesoro del proprio animo: l’inimitabile patimento del vivere.

§CONSIGLI DI LETTURA: LIBERA NOS A MALO

Libera Nos s Malo, 1963 di Luigi Meneghello,
Settima edizione (8 febbraio 2006), Rizzoli, Milano

“[…] Il titolo è un gioco di parole tra l’espressione evangelica “liberaci dal male” e il paese natale di Malo in provincia di Vicenza. Meneghello propone in una sorta di rivisitazione autobiografica gli usi, i costumi, le figure tipiche, la vita sociale che ha conosciuto nel corso della sua infanzia e giovinezza nel paese natale e traccia un ritratto della provincia vicentina, della sua gente e della sua cultura dagli anni trenta agli anni sessanta […]”

All’interno del discorso relativo alla funzione antropologica e letteraria del dialetto, proprio degli anni sessanta del secolo scorso, Meneghello esplicitamente scrive che esso rappresenta il volume delle correnti sotterranee dell’oceano dei nostri modi di comunicare in noi stessi, nel mondo, e tra il tempo in cui il presente, il passato e il futuro giocano, inventando percorsi temporali infiniti. Ogni percorso è una biografia individuale che si rifrange, si moltiplica, cambia nelle memorie.

Tali correnti dispongono il patrimonio delle coorti generazioni che permette la costruzione infinita delle comunità. Ovvero il luogo in cui i soggetti hanno la fiducia di attribuire simboli, significati, azioni e scopi adeguati, congruenti e conformi nelle interazioni che ognuno ha con l’altro. E in particolare anche a quelli che risiedono nelle fantasie, nelle memorie, e nelle biografie continuamente reinventate.

La lingua formale italiana è vista da Meneghello nella funzione di un artefatto successivo a quello che è originario della comunità, in particolare alla prima manifestazione nella biografia di ognuno: il rapporto con la madre e i genitori, quindi alla casa, e successivamente all’ambiente circostante, come la stia, la via, la cascina, il villaggio.

Nel dibattito dei due decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, relativo alla autonomia conoscitiva e al fondamento della soggettività di ogni agente sociale, tra il linguaggio italiano istituzionale e quello dialettale, all’interno delle variazioni e delle preferenze che attribuivano a una visione polare un peso distintivo tra le due sorgenti creatrici dell’identità e del senso del tempo, Meneghello in via prioritaria non attribuisce uno schema “vero-genuino” per una e “imposto-artefatto” l’altra. O ancora che un polo sia il vero luogo del linguaggio e l’altro una tappa di crescita biografica.

Meneghello imposta la sua visione nella forma dialettale che è in osmosi con la comunità: questa si riconosce tale perché è nel luogo di interazione dei dialetti, in cui è in essa si riconosce, usandola come strumento e fonte di significato nell’attribuire senso e coerenza agli scopi prefissi di sopravvivenza, di relazione e di proiezione rispetto al mondo (ciò che ignoto e lontano).

Carlo Emilio Gadda in quel periodo usava il dialetto per approfondire le tecniche narrative del linguaggio e sue relazioni tra lingua e idiomi. Pierpaolo Pasolini lo intendeva come il luogo della concretezza del singolo rispetto ai mutamenti sociali ed economici, in cui la valenza comunicativa e culturale rappresenta l’affermazione di una propria dignità e di autonomia di rivendicazione sociale diretta. Meneghello ammette che nel dialetto abbiamo una immediatezza originaria tra parola e cosa. L’esperienza infantile, infatti, nell’acquisire il dialetto in modo embrionale e impreciso, definisce una forma vocativa e idiomatica ambigua nell’uso delle parole verso le cose. L’esperienza primigenia è per sua natura metamorfica. La comunità è questa mappa che, crescendo nella biografia, denota una struttura di senso per orientare gli scopi di mantenimento e di riproduzione della comunità stessa.

La lingua formale è sempre posteriore non tanto in senso temporale, per il singolo, ma è derivata in senso logico rispetto al dialetto. È la costellazione delle insegne stradali, ovvero delle regole che devono essere estese alle relazioni tra i singoli prescindendo dall’esclusività del singolo. Occorre un riconoscimento sì, ma una separazione di ogni biografia del linguaggio nelle interazioni sociali tra il nome e la cosa. Emerge allora la necessità di perseguire la coerenza, la distinzione, tra il segno, il simbolo e il soggetto in uno schema riproducibile e riconoscibile, e per questo occorre una mediazione. Ecco allora che per Meneghello sono veri e concomitanti i mondi dei due linguaggi, dove lui bimbo, e altri bimbi si trovano a comunicare. In tale contesto il linguaggio istituzionale è accessibile in virtù della mediazione del linguaggio del nido, quello vernacolare e quindi quello della comunità, che con la sua crescita si amplia sempre più, fino a mutare in un luogo separato simbolico e di memoria con quello sociale (istituzionale).

Ma, vi è un “ma”. È un romanzo sì, ma può essere inteso anche come un gigantesco affresco poetico, che non riesce ad essere tale, perché collassa in una forma in prosa. Un testo di poesia che è proiettato quasi topologicamente in un piano di prosa.

Nel linguaggio dialettale per Meneghello vi è una osmosi tra la parola e la cosa, e ogni variazione fonetica della parola dialettale è unica, e quindi tutte quelle che appaiono, coprono il mondo dell’esperienza. Questa ipotesi genera un dissidio con incoerenze nascoste. Non è un caso che il testo dello scritto inframezza la narrativa con cantilene, proverbi, detti, vocativi: cioè il linguaggio poetico che è voce, suono.

E il linguaggio poetico serve perché è verticale secondo le caratteristiche del dialetto posto da Meneghello stesso, cioè osmosi e non semplice rapporto (come nel linguaggio formale) tra parola e cosa. È un ottimo stratagemma, forse inconsapevole: lui ci si è trovato. Non poteva fare altrimenti. Il libro, se lo si legge anche sentendo la voce interiore e il suono, sembra cantata, più precisamente narrata secondo lo stile un grande vecchio dei paesi dell’Africa che racconta la storia di tutto il villaggio, partendo dall’inizio e non può essere interrotto. Deve percorrere tutto il tragitto per riviverlo, adattandolo in rapporto alla disponibilità, alla memoria e al sistema simbolico dell’ascoltatore. E quindi serve il mito, il ciclo, la paratassi, l’analogia.

E la prima è la voce il suono. Si parte dalla madre per il dialetto, cioè il luogo del vernacolo. Ma è proprio vero che l’osmosi tra la parola e la cosa sia così originaria e immediata? Non può essere che anche essa sia derivata in modo diverso rispetto a quella istituzionale del linguaggio formale?

I suoni e le vibrazioni sono già a livello intrauterino tra madre e figli. Prima ancora degli occhi e del verbo. Le frequenze e le relazioni specifiche uniche e irripetibili tra madre e embrioni, costituiscono la derivazione invece originaria nella nascita dove vi è il vocativo. L’urlo di nascita. Non è già quella una separazione tra nome e cose, tra voce, soggetto e oggetto? Ora tutto ciò è comune per ogni madre di ogni tempo. Ma il punto però è che l’idioma mantiene la sua osmosi anche con lo stratagemma poetico che è verticale, nel tempo attraverso le memorie e queste si nutrono delle interazioni che uno ha verso il mondo. E quindi anche con il linguaggio istituzionale dove egli stesso è un produttore di suoni, significati e simboli. E questi servono poi ai dialetti per offrire simboli coerenti ai percorsi biografici di ognuno.

La poesia aiuta, ma proprio perché è verticale, è libera di nuotare tra correnti superficiali e sotterranee e agire e parlare in modo concomitante (e non stratificato) all’interno di ogni vocativo co tutti i livelli e profondità.

Ciò comporta allora l’ipotesi che i dialetti e i linguaggi formali siano mediati entrambi, rispetto a qualcosa di altro, e la forma poetica ci avverte come una sonda di questo “nascosto”.

Ecco perché questo libro di Meneghello è da vivere, percorrendo consapevolmente con la propria biografia, per incorporarlo nel nostro sentire vocativo, evocativo, comunitario e sociale. Ci ritroveremo in esso. Sentiremo che siamo tutti collassati, ma non per questo ridotti a una stenografia di un mondo. Anzi, siamo molto di più e abbiamo tanto da parlare, e poetare di ciò che è il nostro tesoro.

§CONSIGLI DI LETTURA: STORIE DELLA TUA VITA

Ted Chiang, Storie della tua vita Traduzione di Christian Pastore, Frassinelli, SPERLING & KUPFER. Prima edizione 2002, prima edizione italiana 2008., Milano.

Questi racconti di fantascienza cesellati con una cura maniacale per il ritmo imposto alla narrazione degli eventi, prospettano in evidenza problemi etici e teoretici. Ted Chiang è un informatico di professione e lo si avverte quando tratta i temi della programmazione, del linguaggio, della cibernetica e dell’intelligenza artificiale. È uno scrittore che estende il suo sguardo alla religione e all’aldilà. Dispone prospettive coerenti riguardo le tendenze future che ci attendono, imperniate in un fulcro che è fantascientifico.

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Nonostante l’ipotesi di partenza sia irreale, il contesto e i personaggi sono verosimili. Le tecnologie e le scoperte scientifiche pongono precise domande con la speranza di ottenere risposte sul destino dell’umanità e sul suo scopo.

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La spinta a interrogare il cosmo e se stessi corrisponde alla convinzione della propria infinita inadeguatezza risolutiva che fa da traino alla tensione narrativa. Il lettore, lentamente, nel prendere confidenza con lo scenario fantascientifico, si sente coinvolto dal problema etico e sociale emergente.

Molto è stato scritto su questi racconti che partono dal 1990 e sono facilmente reperibili in grandi quantità anche nella rete web. Io vorrei esporre una chiave di lettura ulteriore, in particolare sul racconto che fa da titolo alla raccolta e che è stato utilizzato anche per un film del 2016 “Arrival”.

Nel racconto la realtà ha una visione sincronica, dove il futuro e il passato combaciano aderendo all’amor fati, nell’accettare ciò che si è e a cui si è destinati.

Sottolineo due passi:

“[…] Analogamente, la conoscenza del futuro era incompatibile con il libero arbitrio. Ciò che mi rendeva possibile agire liberamente mi impediva al tempo stesso di conoscere il futuro. Adesso che conosco il futuro, al contrario, non agirei mai in contrasto con esso, e questo significa anche non rivelare agli altri ciò che so. Chi conosce il futuro non ne parla. Quelli che hanno letto il Libro delle Ere non ammetteranno mai di averlo fatto.

[…]

Conoscevo la mia destinazione fin dal principio, e scelgo la mia strada di conseguenza. Ma vado verso una gioia estrema, o verso un estremo dolore? E ciò che realizzerò sarà un minimo, o piuttosto un massimo? […]”

Ted Chiang espone al lettore i suoi dilemmi attraverso una tecnica narrativa che è coerente e conforme alle premesse iniziali della storia.

In tutti i racconti vi è il tema contraddittorio della libertà che è discusso in un modo iper analitico. Le domande poste in questi due passi, contengono ipotesi nascoste che un linguaggio formale non può conoscere in modo esplicito, perché esterne ad esso. Se si conoscesse il futuro, si determinerebbe ogni evento e ogni mia e altrui decisione di chi ha a che fare con me. E qui emerge il punto che Chiang da eccellente logico-programmatore-cibernetico conosce molto bene. Ogni decisione è al minimo tra due possibilità. Io decido di mangiare o di non mangiare una mela. La possibilità è tale perché ora io nel tempo, ancora devo agire in conformità a ciò che decido. Nel momento in cui decido di prendere la mela e di addentarla (quindi decido di muovere il braccio e di essere sicuro che il braccio risponderà alla mia volontà e che la mia volontà è la causa scaturita da un pensare volitivo), rendo questo lato della decisione una necessità e l’altra opzione una impossibilità.

La possibilità è tale perché non so ancora ciò che avverrà nel momento seguente. Io sono pensante qui. Questa è l’ipotesi di sfondo dei due passi. Ripeto: è una ipotesi sotto intesa, non provata e posta come un assioma logico, semplice e indubitabile.

Nel racconto accade invece che io conosco il futuro, e che quindi conosco l’esito dei miei atti volitivi. In questo caso la possibilità non esiste, perché ogni atto è già accaduto ed accadente attraverso me: ogni evento è necessario.

Ricordo che tutto questo argomento è partito dall’assunto che la possibilità esiste, e quindi posso dire le parole, cioè decidere e scegliere, sicché da questa ipotesi giungo a un paradosso che afferma la non esistenza della possibilità. Attenzione: non che sia impossibile, ma che la totalità del mio e del nostro vivere è integralmente necessario.

Come ci siamo finiti? L’autore ci sta prendendo in giro? No. Anzi qui è molto serio e lascia il dilemma insoluto. È esploso nelle sue mani, e non poteva che essere così, perché la struttura è coerente, adeguata e conforme alla trama del racconto.

Qui è il nodo. Nel racconto, secondo il mio modesto parere, che lascio da criticare a chiunque sia arrivato a leggere sin qui, quando si postula la possibilità come un assioma, oltre a commettere l’errore di considerarla come sotto intesa, si intende inconsapevolmente che sia primitiva e che non vi siano altri assunti precedenti in modo logico.

Ve ne sono? Poiché la possibilità è nel tempo, allora le cose, gli atti, le decisioni devono essere infinite ed indefinite.

Se poi, associo alla nozione di possibilità, l’assunto composto che esista l’amor fati e che io dica sì (cioè conosca) il mio destino, cioè il mio futuro, il presente risulta una individuazione dell’identità tra il passato e il futuro. Affinché tutto ciò sia coerente (e Ted Chiang è fedele alla coerenza), allora le cose conosciute si raggruppano nella totalità delle cose conosciute, e questa totalità diventa essa stessa un oggetto, seppur di estensione infinita, ovvero diventa limitata: definita.

Cosa fa allora la protagonista del racconto? Nella premessa intende che la totalità sia infinita ed indefinita nel tempo, e poi nella conclusione, usando l’Amor Fati come connettore logico, la intende come finita.

Questi due passi, costituiscono una contraddizione dove si dice “a è vero= possibilità infinite” nella premessa e poi si offre un giudizio nella conclusione dove “a è falso=possibilità finite, ovvero la possibilità è necessità”.

La grandezza di questo scrittore risalta anche nella sua onestà intellettuale che mostra i limiti dei suoi intenti, in modo pudico e discreto.

Credo che Ted Chiang, oltre ad essere un professionista serio per tutto quello che fa, sia anche una bella persona.

IL VENTO DEL NOSTRO COLLOQUIO MILLENARIO: POEtare leggendo

Franco Fortini

Provo un senso di frustrazione a scrivere della poesia “Il vento che verso” di Franco Fortini. Ho parlato di essa, oggi, a qualche anima generosa che mi ha sopportato per più di un’ora nel descrivere soltanto i primi dieci versi. Chi mi conosce dal vivo rileva una totale distonia rispetto al mio stile di scrittura nel momento in cui presento qualche verso, e in particolare ai miei due libri di poesie con immagini “Sogni Sospesi” e “Reciproche Rinascite”.

Sono estremamente curate nello stile e nella versificazione, ma in origine, la maggior parte di esse, furono scritte di getto. Naturalmente poi, sono state riviste, curate, ampliate, analizzate allo spasimo, anche contro gli intenti iniziali, forzando l’evidenza di ciò che a me oscuro, mi guidò nella scrittura. Parto dalla prosodia e dall’oralità. Sono il peggior declamatore di una poesia, perché non la finisco mai: mi dilungo, la spezzo, la ripeto, la interpreto, la mastico. Creo versi miei variando gli stili solo da una riga, e se talvolta lo espongo in modo stenografico, d’improvviso mi esce un fiume in piena.

Sono estremamente fisico: l’eventuale pubblico scapperebbe dopo cinque minuti, perché lo coinvolgo fisicamente, creando in base alle sue reazioni; ai suoi sguardi. Al suo respiro. L’interlocutore sente la mia presenza. Demolisco la barriera e il bello è che se parto in quarta, neanche me ne accorgo, e ogni volta, ogni volta, dopo qualche ora che ci ripenso, riprovo la vertigine: “come ho fatto?”

In questi ultimi tre anni mi sono violentato a scrivere in prosa il romanzo “Dentro l’Apocalisse. Quando tutto è già accaduto”. E poi quest’anno passato di blocco e letture. E ora risento la voglia di ridiventare un amplificatore prosodico. È seducente, ma è pericoloso. Vi è il blocco apparente, ma è in realtà il mare ghiacciato nell’approssimarsi dell’estate. La scrittura di una poesia, difficile, ostica, voluta, aspirata, è in realtà la punta di un iceberg remoto dentro di sé: suono, richiamo e .. vento .. che alita il proprio nume interiore. La cosciente razionalità non è che un piccolo spicchio, eppure è tutto, perché la pianta del linguaggio in esso alberga.

***

IL VENTO CHE VERSO

Il vento che verso le piane dai valichi va

e assiderati lima lembi altissimi

e i nidi dai rigidi rami divide,

è il nostro padre

che vuole per noi veramente.

Per quanto tempo abbiamo riposato,

le vesti e i cibi sanno di corpi e fiati,

il fumo è salito dal tetto della casa,

il lume della lampada

ha data tutta la vecchia dolcezza.

Sciogli il cuore nebbioso, tu portalo via,

il tristo nido di meditata vecchiezza,

vento inflessibile, ruba la vizza veste,

gela la stilla,

spazia, disprezza, aprici.

Da tanto tempo abbiamo voluto piangere,

ma di pietà e di gioia, per le fronti avvenire.

Ora sappiamo che tutto nostro è il tempo,

ora noi stessi siamo i nostri figli,

dove in te, vento, penetriamo noi ultimi.

1956

***

La poesia “Il vento che verso” ha una quantità impressionante di topi, metafore, allitterazioni, consonanze, assonanze, metonimie, incroci multidimensionali, richiami che sottendono metriche antiche. Ognuno con un buon libro di versificazione e di retorica, le può scorgere per gioco. Nei grandi poeti come Franco Fortini, la densità degli strumenti prosodici e retorici usati in così pochi versi, non è immediatamente voluta. La conoscenza, l’esperienza, il duro lavoro creativo, bello e rigoroso, permette una loro costruzione inconscia, analogamente al pedalare, che è un procedimento automatico, utile ad agire con altri intenti più consci e razionali.

La messa in atto del poetare, e dell’ascolto, ridotto anche nella lettura e nel mio scritto di adesso, che sento povero, in bianco e nero, e incatenato, per quello che potrei esprimere adesso davanti al lettore, come questa mia scrittura velocissima, ascoltando musica e osservando il tramonto che lambisce il mio volto nelle pieghe grigio violette, è l’inesauribile vibrazione che ognuno di noi ha in questo colloquio ininterrotto che parla dalla prima lallazione dei nostri capostipiti e che viaggia nel Vento.

Si osservi la prima strofa e in particolare la consonante “v” del primo verso che imprime nel nostro orecchio il suono del vento che si muove dando l’idea della dinamicità con (v)erso che (v)alica da un dietro e un davanti, e quindi di(v)ide il nostro ambiente, in particolare il nostro vivere ritenuto la totalità di ciò che è: il nido.

È il padre che (v)uole il (v)ero. Ciò che è vero è il vento che è il vivere del nostro animo, comune ad ognuno. E si osservino le assonanze che informano del verbo e della particolare azione del vento: il valico va – lima(re) lembi. La realtà prende forma attraverso il vento: la sua verità. Il vento va verso la verità.

Già da questa strofa si rilevano gli intrecci sintattici e semantici, e qui abbiamo più metafore sovrapposte riguardo lo stesso poetare del vento che vers(o)ifica nel linguaggio la nostra origine, richiamandoci al vero.

Si osservi lo stesso meccanismo complesso tra “fumo” e “lume”, dove entrambi salgono nell’aria domestica e in quella esterna, passando dalla luce all’oscurità. Delineano il passare del tempo, nonostante la nostra illusione del nido statico. Voler credere nel silenzio dell’immutabile riposo, che è invece l’assenza di pensiero nel silenzio e nella sordità. La volontà che volendo allontanarsi dal volere del vero che è il vento che va, cioè del moto, rivela invece l’odore stantio, prossimo a dileguare. Tale vento incatenato, vecchio perché passato, ci attrae nella sua dolcezza che sfuma tra il lume e il fumo.  

Ciò che divide nella prima strofa, lo spazio e il luogo, nella seconda, il lume e il fumo dividono il nostro prima dal poi, entrambi piccoli e vecchi.

La terza strofa si sviluppa incorporando i vortici delle prime due. I corpi e i fiati stantii costituiscono la nebbia del cuore, che è appunto colui che nonostante la voglia di silenzio e di morte, risuona di continuo dentro di noi, nel verso che vuole il vero nel parlare. È il presente della parola che detta il verso: sciogli: libera: porta via l’illusione della stasi, cioè svelala, soffia il vero. Nel nido, ancora qui, i “nidi” dei “rigidi rami” (azioni e nostri pensieri, ritenuti la verità) sono immoti, perché meditati, mal masticati, e perciò deboli e flebili come nella prima strofa.

Lo scarto che dilegua è la vecchiezza della “vizza veste” (ancora qui le mirabili cellule prosodiche che impongono il ritmo del nostro suono interiore, mentre leggiamo) che è meditata, cioè mediata, ovvero incatenata e perciò trista, di un suono che non gira intorno a sé.

Il poeta invoca di gelare questo processo, cioè di avvilupparlo, di compierlo, attraverso lo spaziare, cioè lo spazio delle rime, nel dis-prezzare, ovvero nel mostrare che il vento è bilancia e misura dei valori nostri, e quindi al di fuori di esso. Impossibile appunto da prezzare. Si noti il richiamo che apre un’altra poesia nascosta tra la “dolcezza” e la “vecchiezza” nella seconda e nella terza strofa, e che lega i versi a tre a tre dalle prime strofe.

Nel quarto verso, vi è un’altra poesia quasi autonoma (tutti giochi dell’eco del vento) tra il “tempo” del riposo e il “tempo” del pianto che fa scorrere la sequenza della pietà di sé e della gioia di essere tutti assieme, figli del vento e dell’avvenire. Questo legame che agglutina due grandi allegorie con i piani sovrapposti di <figlio e padre> e di <comunità e umanità>, riverbera nel “nostro” tempo, ricongiungendoci al destino che dispiega la vera condizione di esser figlio e ramo. È la foglia e il frutto che si muovono nel vento, dove ogni frase, ogni parola d’ogni lettore è nella sua presenza. L’ultimo verso in cui il vento è sempre in esso penetrato. Il destino del vento che è il vero.

L’ultimo verso che penetra, riprende quello del primo che valica: la conoscenza della propria limitatezza, comune a ogni individuazione del suono nei versi che richiama il ritmo del cuore nel timbro poetico.

E qui mi fermo, nell’impossibilità di esprimere il secondo passo di questo moto, che può esser solo presentato dalla mia voce in carne ed ossa.

§CONSIGLI DI LETTURA: la cacciatrice di storie perdute

La storia del passato e le storie del presente nell’incontro tra madri e figlie

Titolo originale: The Storyteller’s Secret Copyright © 2018 by Sejal Badani All rights reserved. Traduzione dall’inglese di Valentina Legnani e Valentina Lombardi. Prima edizione ebook: giugno 2019 © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma ISBN 978-88-227-3431-0

“[…] era solito raccontarmi mio padre da bambina, ogni volta che chiedevo perché non avessi fratelli o sorelle. «Non sarebbe stato carino nei confronti delle altre famiglie se avessimo chiesto di più dalla vita». Eppure, di rado mi è capitato di sentirmi una benedizione per mia madre. Al massimo riuscivo a essere una delusione per lei: lo vidi dal modo in cui le sue labbra si strinsero quando persi alla finale della gara di spelling in quinta elementare; dal modo in cui il suo viso sembrò irrigidirsi quando non riuscii a entrare nella squadra delle cheerleader; o dallo sguardo distante che ora vedo nei suoi occhi, mentre contempla la mia incapacità di dare alla luce un bambino. […]”

“[…] «La promessa è stato il prezzo che ho dovuto pagare per essere nata. È tutto ciò che hai bisogno di sapere». Con voce stanca, mi augura la buonanotte. […]”

Le storie di Jaya nata negli USA, da una coppia indiana e delle vicende della Nonna Amisha, raccontata da Ravi, vanno in parallelo, quando lei si recò in India, scappando letteralmente da tutto, dopo il terzo aborto spontaneo. E lì nella casa, i due tempi si incrociano: il suo di Jaya che, attraverso i racconti di Ravi, va alle fonti del passato, e l’altra di Amisha, che cerca di imparare l’inglese perché voleva scrivere. I due tempi vanno simultaneamente da quella casa: una in avanti nel tempo e una indietro, ridefinendo un nuovo presente.

“[…] Amisha alzò il capo e i loro sguardi si incrociarono. Negli occhi di lui, vide confusione e distacco. Senza dire una parola alla moglie, Deepak si riaddormentò alla tenue luce della luna. Amisha, invece, continuò a scrivere, trovando conforto nell’unico posto che conosceva, ossia le parole che sgorgavano dal suo cuore. […]”.

“[…] «Io sono un intoccabile». Ravi batté il terreno con un piede nudo e distolse lo sguardo per la vergogna. «È importante che voi lo sappiate». «E io sono una donna». Abituata a vivere una realtà perennemente in ombra, rivolse lo sguardo al sole. «Ora abbiamo stabilito i nostri ruoli». «Voi siete la figlia del proprietario del mulino», ribatté Ravi. «I miei genitori e i miei fratelli sono vagabondi come me. Mendicare è il nostro destino». […]”

Il sentiero di questo tempo è l’India tra le divinità, l’indipendenza, le riforme sociali ed economiche, in un cammino dove le donne e le caste cercano di scrollarsi i vestiti e le catene. Nel libro vi è una sovrabbondanza di monologhi interiori che hanno lo scopo di parlare degli assenti, quali i genitori di Jaya negli Stati Uniti, suo marito Patrick dal quale si è separata, ma ancora non divorziata e i fantasmi del passato raccontati da Ravi, che spiegano gli eventi del presente. Attraverso i racconti e il vivere di quei giorni Jaya si immerge nel cibo, nei ritmi, negli odori, nelle divinità presenti, concrete, dove l’immagine è soggetto a sé e non rimando del divino. Proprio perché il libro viaggia nel tempo, le azioni sono quasi raccontate in uno stile giornalistico. Ed infatti Jaya è una giornalista, scrive come la nonna Amisha, e comprende spinte sue interiori, conoscendo la storia dei suoi parenti lì in India.

Una storia mai raccontata dai suoi genitori.

“[…] Forse, la sua passione per la scrittura non era una sofferenza da tollerare, bensì un dono da amare e proteggere. Le sue storie erano l’unico passaporto che l’avrebbe condotta in luoghi in cui non era mai stata. Senza di loro, sarebbe rimasta intrappolata per sempre in quel villaggio. […]”

“[…] Amisha raddrizzò la schiena e tentò di raccogliere la sua forza limitata, eppure si sentiva piccola rispetto all’imponente donna inglese. «Insegnerò qui perché questo è ciò che mi è stato chiesto». Pensò alle sue storie e all’importanza che avevano per lei. «Per quanto riguarda ciò che insegnerò, non lo so ancora bene», ammise. Nell’affrontare quella donna, si sentì ancora più giovane dei suoi anni. «Chiederò agli studenti di mettere per iscritto quello che si annida nei loro giovani cuori. E se le storie li condurranno in terre lontane, li incoraggerò a intraprendere questo viaggio». Amisha concesse un sorriso a quella donna irremovibile. «Insegnerò loro, quando viaggeranno con le storie, a rispettare le persone che incontreranno e i loro valori. Non sta a noi giudicare gli usi e i costumi degli altri, ma possiamo sfruttare l’occasione per imparare». Ignorò il fatto che la donna la guardasse con gli occhi sbarrati, e concluse dicendo: «Perché quando tendi la mano in segno di rispetto, sarai a tua volta accolto con benevolenza». […]”

“[…] Gli studenti si sporsero in avanti, ansiosi di conoscere quel mistero. «“Prima che nasceste voi, non ero mai stata una mamma”, dissi loro. “Sto imparando a essere la vostra mamma come voi state imparando a essere i miei figli”». «Avete detto loro queste cose?», chiese un’altra studentessa. Emozionata dal modo in cui i bambini stavano interagendo con lei, Amisha annuì. «Sì, l’ho fatto. Erano sorpresi. Probabilmente, credevano che io fossi nata mamma». Sorrise alle loro risate. «Così abbiamo stretto un patto. Loro mi avrebbero aiutato a essere una mamma migliore e io li avrei aiutati a essere dei buoni figli». Amisha si alzò e cominciò a camminare tra le file di banchi. «Propongo a ciascuno di voi lo stesso patto. Non sono mai stata un’insegnante prima d’ora. Se voi mi aiuterete a diventare una brava insegnante, io farò del mio meglio per aiutarvi a diventare degli scrittori migliori». […]”.

“[…]  «Da dove vengono le storie?» «Dalle nostre menti», rispose uno studente. «Dalle varie storie che ascoltiamo», disse un altro. «Dai nostri sogni», esclamò una ragazza. […]”

“[…] Entusiasta per l’interesse dimostrato dagli allievi, Amisha disse: «Voglio che ciascuno di voi scriva della creazione di qualcosa che desiderate, della distruzione di qualcosa di cui non avete bisogno, e della protezione di ciò che è vitale. E dovete spiegare le sensazioni che il vostro cuore, la vostra anima e la vostra mente provano riguardo a ognuno di questi eventi». Amisha stava riordinando la classe quando entrò Stephen, lanciando uno sguardo alla lavagna. «La Terra?» […]”

Jaya comprende che gli Stati Uniti, lei stessa, l’India e sua nonna erano e sono in cammino verso nuove porte del sapere.

“[…] «Non sei d’accordo sulla perfezione della mia pronipote?», chiede Ravi. Urla a Misha di salutare i suoi amici. «Nella mitologia indiana, quando la luna copre il sole, le tenebre hanno il potere di coprire la tua vita». Lentamente, si fa strada attraverso la sala, in direzione dell’uscita. «Ma non è sempre necessario che il sole splenda per avere la luce. Nel buio, dobbiamo cercare le stelle. Anche la loro luminosità ha un potere». «Perché mi hai portata qui, Ravi?», domando. Mi rivolge un sorriso triste. «Mi hai detto che sei venuta in India per fuggire dal tuo dolore. Ho pensato a cosa ti avrebbe detto tua nonna se fosse stata qui». Abbassa la testa. «Non potrei mai pensare di parlare per lei, ma…». […]”

E colei che era venuta per cacciare e raccontare le storie, comprende di esserne parte integrante. Sebbene il finale del libro, ricalca uno stile quasi prevedibile nelle relazioni tra il marito e i genitori e con Ravi, tale senso di ordine, permette invece di immergersi totalmente nella consapevolezza della propria rinascita, dove non si caccia alcunché e la preda è inesistente, perché si è se stessi, testimoni del proprio vivere.

§CONSIGLI DI LETTURA: l’uomo che ricordava troppo

Umberto Rossi. L’uomo che ricordava troppo. Prima edizione dicembre 2015 ISBN 9788867759828 © 2015 Umberto Rossi Edizione ebook © 2015 Delos Digital srl Piazza Bonomelli 6/6 20139 Milano Versione: 1.0

“[…] Johann Hagenström ha un bel problema: la sua memoria ha perso parecchi pezzi del suo passato; in compenso, ogni tanto ricorda cose che non sono mai successe… che non possono essere successe. Johann vorrebbe tornare a una vita normale e al suo normale lavoro di traduttore: ma la strana sindrome mentale che lo affligge non glielo consente. La terapia dello psichiatra che lo ha in cura non sembra dare risultati; come se questo non bastasse, i suoi falsi ricordi lo portano frequentemente nel bel mezzo di una feroce guerra civile che lo atterrisce, o di un’Italia ridotta a un deserto. E nelle sue allucinazioni retroattive torna ossessivamente una figura enigmatica, un’affascinante donna di colore che pare conoscerlo molto bene… troppo bene. Quando poi Johann comincia a incontrare persone uscite dai ricordi di una vita che non ha vissuto, tutto intorno a lui comincia a disgregarsi; lui stesso comincia a dubitare di se stesso; e quella che emerge è una realtà minacciosa. E letale. Un romanzo finalista al Premio Urania, dove Philip K. Dick incontra Alfred Hitchcock. […]”.

Un libro avvincente che inizia in modo colloquiale, portando il lettore per mano nei luoghi della narrazione. Il modo informale e la sintassi apparentemente disordinata all’inizio, suggeriscono invece richiami e indizi per gli eventi che via via si snoderanno lungo il corso delle pagine. È un libro strutturato a più livelli, dove ogni nome, le vie, i richiami storici, alcunché non è posto a caso.

È un libro di atmosfere familiari in cui i tempi della nostra immaginazione si intersecano. Si annusano gli ambienti dei gialli, dei racconti di fantascienza dei decenni passati, ma questi sono aromi volatili, che, appena dileguati, annunciano qualcosa di altro. E lo si sente. Gli Odori e le suggestioni diventano elementi che compongono un ritmo nella narrazione. Un libro di incroci temporali tra le vite dei protagonisti e gli spazi, dove entrambe le direzioni prendono una vita autonoma intersecandosi a più riprese, fornendo squarci ulteriori dell’orizzonte degli eventi.

“[…] e l’eternità c’è entrata, si è impadronita di me, senza che lo volessi, senza che facessi nulla per entrare nel suo dominio, mi ha preso e non mi lascia più se solo riuscissi a ricordare quando e come ho lasciato quella saponetta nel lavandino; se solo riuscissi ad uscire dal tempo delle acque e delle rocce, che mi ha catturato; se riuscissi a tornare tra gli uomini, a ridiventare me stesso… ma non so come si fa eppure deve esserci un modo per ricordare… […]”

Suggestivo lo stile in cui il protagonista parla in prima persona circa gli eventi del passato, affermando di non ricordarli in modo compiuto. È una narrazione di memorie delle proprie dimenticanze.

“[…] tra Contro-passato prossimo di Morselli e un romanzetto di fantascienza di un certo Philip K. Dick, che neanche ho mai letto (con un titolo ridicolo: Slittamento temporale su Marte… possibile che abbia comprato una scemenza del genere?). Sta di fatto che l’ho dimenticato di nuovo.

[…]”

“[…]  Dico finalmente, perché se avessi continuato a distruggermi inseguendo un passato perduto o i fantasmi di una vita che non ho mai vissuto sarebbe finita che non sarei vissuto più. E questo non lo voglio. Devo dare un taglio netto a quel passato che mi ha portato a sprecare due anni nell’abulia più malsana. Devo pensare a vivere, qui e ora […]”.

“[…] Ho sempre sentito dire che in vecchiaia ti tornano ricordi perduti dell’infanzia con una grande intensità. Ma io non sono vecchio; e qui non è solo ricordare, è rivivere. Come se fossi andato in trance, come un sogno. Ma no, ma che sogno. I sogni sono cose incasinate e surreali, nei sogni guidi una macchina che ha come volante una frittata, cose del genere. Quel posto, quel capannone, era vero. Era tutto vero, troppo vero. Anche la paura che provavo. Anche la morte che aleggiava nell’aria. Io lì ci sono stato. […]”.

La visione del protagonista è caleidoscopica. Si ha la sensazione di camminare per le vie di Roma, assieme a lui, anzi dentro i suoi occhi, provando le sue sensazioni di fatica e di spaesamento. E tra questo uomo che ricorda diversi orizzonti temporali, si avverte la peculiarità della città di Roma, che è una città del tempo, come della morte. Una sovrapposizione continua di luoghi e linguaggi, tutti presenti, anche in modo conflittuale. In sequenza alcuni, in conflitto oppositivo altri.

L’oblio e la memoria più che un legame dialettico, sembra abbiano una rilevanza spaziale. Il tempo è scandito dalle azioni e dai mondi evocati dal protagonista. La memoria degli eventi del passato per noi lettori, e alcuni di essi nel futuro, rispetto al tempo della narrazione, oscillano come il parabrezza di una macchina. Emergono, anche, spicchi della memoria storica di noi italiani, dei lati oscuri del nostro passato recente nella guerra, nel fascismo, nel razzismo, nelle oscenità che stancamente attribuiamo ai popoli a noi vicini, per non fare i conti con noi stessi.

È un romanzo in cui, oltre alla trama che non rivelo, perché, oltre ad essere distopico, mantiene una tensione narrativa che lascia indizi per gli eventi a seguire, esprime il senso delle tante città e dei tempi che quel luogo eminente del ricordare, presente e concreto, è Roma. Poiché noi italiani ne siamo uno spicchio relativamente recente, questa moltiplicazione prospettica delle trame e delle vite, si estende nei territori circostanti, oltrepassando l’Italia e il continente.

Iniziamo a ricordare anche noi.