#RACCONTARE LA SCRITTURA. TERZA PARTE

In quei primi giorni notai una distonia nel modo di scrivere. Quando componevo per le poesie, l’atteggiamento era incentrato su di me, sul mio corpo. Fungevo da collettore esprimendo il ritmo di sensazioni ed idee, traducendolo in narrazioni poetanti oppure in strutture versificate, naturalmente da rivedere da riaccostare. E in una seconda lettura riattraversandole con altre rime, esagerando anche in una spiegazione immediata delle stesse, permettendo una loro emersione in versi e il loro differenziarsi in prose. Talvolta, invece, la struttura appariva già delineata tra le mani, in strofe o in versi liberi, che proprio perché così vaghi, rappresentavano e rappresentano richieste di approfondimento, simili a sonde che invitano a penetrare ancor di più i fondali in movimento. Però, ancora, l’elemento comune è il mio nucleo emotivo, ovvero la rappresentazione scritta di quello stato che immediatamente tesseva il tono e il timbro espressivo. Ogni poesia riconduceva me stesso, attraverso il ritmo melodico sparso in cellule fonetiche: la cartina da tornasole che risponde a un marchio uguale per tutte. Ponendomi in modo passivo rispetto al contingente per patirlo poi nella risposta riflessa della versificazione, il vincolo di entrata ero sempre io. Il personaggio è unico: il poeta. Nel palco vi è solo il poeta e il suono della sua voce interiore.

Mi resi conto, anche se già formalmente ne ero consapevole, che nella scrittura di un romanzo non esiste un personaggio unico e che lo scenario, i luoghi, il palco, il palcoscenico, il pubblico, l’anfiteatro non sono una diretta emanazione dello scrittore, come nell’atto di poetare. Lo scrittore in prosa e in particolare di un romanzo, e non di un monologo, e tantomeno di un racconto, e ancora di una scena teatrale, deve mostrare un mondo che pian piano si snoda attraverso il racconto.

Dopo alcuni giorni mi bloccai, perché l’inconscio mi diceva: “Fermati! Stai correndo su una stradina che intorno non ha alcunché di evidente per il lettore. È tutto compresso negli appunti sedimentati dagli anni e nella tua testa”.

Infatti, ero io. Dove sono i protagonisti del romanzo? Quelli di contorno? Quali scenari? Non si possono mica inventare così, concentrandosi su un posto che magari si preferisce e si è sicuri di scrivere. E poi non è solo una questione di nomi. Ogni personaggio deve acquisire una vita propria. “Tutto giusto”, mi dicevo tra me e me. Certo: ma come? Quanto di più lontano rispetto alla pratica del poetare. Il poeta è presente a sé, anche nella fase di trance, o di dispersione, ma è la mia perdita. Sempre di me si tratta. Per il romanzo invece occorre che i protagonisti si distacchino dal personaggio che è l’emanazione dello scrittore, oppure ancora che abbiano una autonomia tale da esser reputati completi da parte del lettore, che ovviamente non sta nella mia testa e nel mio corpo di autore.

Mi rifermai. E cominciai come un attore, dentro casa, parlando da solo. Cercavo di sviluppare storie partendo dalla situazione che dovevo scrivere recitando a braccio e in piedi, con un flusso di parole e pensieri, tentando di distaccarmi e alterando la voce e le movenze, con le espressioni facciali dei primi protagonisti che avevo appena delineato. Dalla metà di settembre ai primi giorni di ottobre 2017, inframmezzandomi tra le attività quotidiane domestiche, recitavo davanti a una cinepresa immaginaria. Naturalmente alcuni sporadici presenti erano dubbiosi se chiamare la guardia medica 😀 –

Interpretando questi personaggi che via via apparivano mentre recitavo a braccio, anche le situazioni, gli scenari e i luoghi premevano per entrare. Ancora non mi era chiaro quali fossero in dettaglio, perché la logica della trama già scritta e riscritta negli anni precedenti, non bastava più. Era stretta. Vedevo innanzi oceani neri nella notte. Nello scoramento, però mi accorsi che li annusavo e li sentivo. Prima ero sordo. Percepivo altri protagonisti nascosti, mai pensati fino ad allora che bussavano nell’inconscio e tutti mi dicevano: “Guarda che senza di noi, gli altri sono vuote comparse. In più stai sempre dentro un luogo. Non esci mai da lì?”

Mi allargai sempre di più, scrivendo poi di corsa i tratti e i luoghi, ma non alla rinfusa, seguendo una logica ferrea. E il giorno dopo, con la mia solita domanda: “Ma come ci sono riuscito a tenere insieme questi livelli in contemporanea e a implicarne altri?”

Sbagliavo come sempre a pormi le domande, perché iniziavo con “io”, con quell’io che vuole dominare tutto. Il piccolo “io” che si crede il mondo, essendone invece una individuazione. Occorreva rendere concreti i personaggi nel caratterizzarli anche attraverso il luogo di origine, fissando i loro nomi, i ruoli, e configurando i gruppi formali e informali di appartenenza, dove questi chiedevano a loro volta una storia.

A metà ottobre ero sfiancato. Ogni passo in avanti ne apriva un altro. Ritornai ancora indietro nella scrittura, dopo che già la produzione di ottobre, dopo una recitazione che durava ore e ore nella mia testa, era quantitativamente mastodontica, con scritti di flussi di coscienza, dialoghi, caratterizzazione dei personaggi però dove talvolta confondevo i nomi e i luoghi. Credevo fossero refusi, ma in realtà erano sentinelle dell’inconscio che mi dicevano di sviluppare ancora ciò che era stato scritto, prima di andare avanti. Avevo timore come già negli anni prima, di arrivare a un punto morto nel creare materiale che tutto sarebbe diventato, meno che un romanzo.

Però mi dissi: gli errori, le sviste, le spiegazioni schizofreniche dentro i dialoghi abbozzati, lunghi, corti, da teatro, ampollosi, eccedenti, circolari, monchi, in realtà sono porte che indicano una strada più ampia e strutturata. Stavo creando cartelli stradali di una regione, poi di uno stato, poi di una città (tutti luoghi veri che andavo a studiare veramente via per via, e anche nella loro storia recente e passata). Tutto implicava un soggetto mancante: dovevo creare un mondo e collocare i protagonisti in parti di esso, assolutamente non a caso, e con nomi pregnanti, anche attraverso lo studio delle lingue e degli idiomi del luogo di origine dei protagonisti.

Alla fine del mese di ottobre 2017 mi gettai nell’impresa. Avevo già conoscenze pregresse in merito per acquisire i nuovi dati e le informazioni.

#RACCONTARE LA SCRITTURA. SECONDA PARTE.

Riuscii a comporre in modo organico le poesie, delle quali alcune pubblicate nei due libri, perché non praticai il mio modo usuale di scrittura, caratterizzata da una preliminare visione sistemica, seguita da una stesura analitica in settore delimitati, dove io ne ero al di fuori: freddo e calcolatore. Io divenni l’oggetto, nella veste della mia sensibilità tesa ad agire in modo analogo a una cassa armonica, amplificando le sensazioni che provavo e incanalandole in strutture concettuali che d’incanto uscivano già formate. Il giorno dopo, rileggendo quello che scrivevo in versi mi domandavo: “Ma ero io? Come ci sono riuscito? “

Queste domande non otterranno la risposta, perché hanno un presupposto che nega qualsiasi argomento: vi è un “io” sotto inteso!

Riesco a scrivere in flusso continuo, soltanto se mi dimentico. Naturalmente dopo segue la correzione. Emerge ciò che a livello metaforico è detto inconscio. Se penso di programmare tutto e di progettare quello che devo scrivere in versi o in prosa, mi blocco, oppure scrivo un programma di informatica, un trattato, un resoconto, un mini saggio, o un argomento filosofico su quel tema in cui all’inizio avevo la pretesa di romanzare o di versificare.

L’impegno ad ascoltare quella che metaforicamente talvolta è detta la parte energetica di sé, quella veramente creativa associata al “femminile” che ognuno di noi ha, anche se lo releghiamo nell’inconsapevolezza. Iniziai a rifletterci senza volerla limitare, perché ogni atto di volizione verso uno scopo immediato, avrebbe ottenuto l’effetto opposto. Non imponevo nulla, astenendomi da selezionare coscientemente un punto di vista nel determinare un orizzonte creativo, senza volerlo, almeno nelle intenzioni, racchiudere o incatenare.

Ripresi gli appunti datati a partire dal 1989 per l’ennesima volta nel mese di agosto del 2017. Ridevo per i termini usati, stupito nel rilevare una logica inusitata nel discorrere e nell’elaborare trame, approfondendo concetti più che mai attuali, anche se espressi con altri termini nei dibattiti pubblici. E ancora una volta mi chiesi: “Ma ero proprio io? E adesso ne sarei capace di questi slanci?”

Ebbene la risposta è affermativa: sviluppai in modo coerente quelle trame monche e incerte nella forma, perché mi lasciai andare e mi venne in mente l’analogia della bimba o del bimbo che gioca. In quei momenti il bimbo è serissimo, talvolta muto e totalmente impegnato in quel che fa. E se sbaglia, ricomincia daccapo. Si pensi al bimbo che, disteso sul pavimento, prende una matita e un foglio e inizia a scribacchiare. Le linee, progressivamente, acquisiscono forme più regolari. E continua, fino a infittire gli spazi del foglio. Si alza. Ne prende un altro e ricomincia in modo sempre più raffinato, moltiplicando le varietà del tratto, del segno e variando consapevolmente l’impugnatura. Non chiama la madre. Forse borbotta e parla con amici immaginari e inventa una storia.

Il tratto comune rispetto a tutti i bimbi che si comportano in questo modo è che si dimenticano delle loro voglie momentanee. Dal cantare filastrocche o dal disegnare, o nel modellare la creta, o roteando bambolotti in aria, in quel momento creano e ricreano un mondo.

La biografia itinerante dei tentativi e degli errori, costituisce la mappa per fondare una struttura tesa a comporre l’opera.

Certamente l’idea non scaturì per aver preso tra le mani quei vecchi appunti, in verità era il tarlo fisso che riemerse, pressato appunto dai me stesso più giovani. Lo sentivo dentro. Nei decenni passati lessi molto di romanzi, di poesie e non solo di quello. Cercai di ricordare le innumerevoli volte che per motivi di lavoro, di diletto, di curiosità e di necessità momentanee, ripresi i dizionari, i manuali di versificazione e le grammatiche, sia a livello scolastico sia di livello filologico. Basta. Avevo letto troppo. Inutile leggere ancora. Alcune stesure degli anni passati arrivarono quantitativamente a centinaia di pagine, ma non era più un romanzo, bensì un trattato, anzi un insieme di ricerche, riflessioni e piccoli saggi su argomenti molto specifici. Altri ancora nei decenni successivi, cioè dopo il 2000, apparivano nella forma di uno Zibaldone. Ecco avevo tanto, tantissimo materiale che paradossalmente non mi permetteva di iniziare, perché mi tratteneva nei fondali.

Era inutile portare tutto innanzi ancora una volta, sicché decisi di ritornare alla fonte, cioè all’idea principale. E mi convinsi. Provai verso la fine di agosto del 2017. Scappai subito. Compresi che stavo ripetendo lo stesso schema, come se dovessi svolgere un compito. No. Doveva partire dalla mia emotività, come per le poesie.

Cominciai con leggerezza il primo settembre 2017, senza pretendere di scrivere alcunché. E come mio solito cominciai vedendo dei quadri in internet relativi a un tema specifico, indugiando alla fantasia senza regole.

Annotai la data nella prima riga e scrissi di getto quasi tre pagine. Mi resi conto poi alla fine, dopo neanche 30 minuti, che all’inizio era un dialogo, e poi divenne una narrazione, quasi da monologo interiore, simile al mio altro scritto pubblicato in ebook “Tutto sotto controllo. Un corpo allo specchio”: un racconto breve con una voce sola narrante.

Non è un caso, perché nella scrittura in prosa, dopo le prime righe, in particolare per i neofiti, non si regge la concentrazione per interpretare i ruoli di chi parla o agisce, e si ritorna nel proprio io. Se si parla di un concetto o di una idea, e la si associa a un personaggio, alla fine per non perdere le idee, i luoghi, le immagini, ci si rifugia nel monologo. Va benissimo, ma non è il romanzo, eventualmente è l’embrione della situazione, dalla quale si incardinano i protagonisti, i dialoghi per porli in relazione alle trame che si snoderanno per tutto lo scritto, di decine e centinaia di pagine.

In quelle tre prime pagine avevo già in mente alcuni protagonisti, ma non erano ben delineati e mi confondevo con i nomi. L’inconscio mi diceva: “Fermo. Stai attento. Non puoi continuare così velocemente. La situazione è ottima ed è da sviluppare, ma devi descrivere il loro fisico, i loro nomi, i loro tratti. Continua comunque, ma fra qualche giorno ti dovrai fermare”.

E così accadde: per i giorni successivi scrissi in media una o due pagine al giorno. Cercando in rete, determinai il primo luogo in cui iniziarono gli eventi. Agivo come un rabdomante, ma trovai una difficoltà: pensavo come un poeta e non come uno scrittore in prosa. Mi usciva fuori una prosa poetante. Quasi melodica. Illeggibile per il lettore, a meno che non fosse un poeta avvezzo agli stili e di poco dissociato come lo ero io in quel momento!

#RACCONTARE LA SCRITTURA. PRIMA PARTE.

Perdonatemi se per qualche tempo presenterò alcune pubblicazioni egoriferite qui in facebook, in altri ambienti digitali e anche in presenza, mostrando una quota maggiore di vanità.

Il giorno 1 settembre 2017 presi un impegno che ho condotto giorno per giorno, al netto di pause per altri impegni e per le attività di gestione ordinaria che riguardano tutti noi. Ora è in fase di redazione finale da parte dell’editore.

Un onere e un piacere giornaliero che mi sono imposto, avendo giornate di sconforto, di meditazione che a occhi esterni potevano sembrare improduttive, vuote, grigie, ma che in realtà erano contraddistinte da fasi di lavoro inconscio e di incubazione.

Il bello è che stato, anche ora nelle ultime gocce di attività, un periodo creativo nel tradurre in opera le capacità di ideazione, scrittura ed interpretazione, assumendo il ruolo di un rabdomante che trova parole in territori inesplorati.

Non sono partito dal nulla. Vi era già una idea concepita nel lontano 1989. Scrissi, allora, quaderni di appunti, note, racconti, propositi in merito. Lasciai. Li ripresi dopo alcuni anni, ma lasciai ancora lì. Alcune riflessioni poi furono dedicate in ambiti diversissimi dalla prosa e dalla poesia. Ho scritto molto negli anni per lavoro, per ricerca e studio. E le pubblicazioni lì sono state incanalate. Dieci anni fa ripresi il progetto, ma ancora una volta seguì l’inclinazione che più propria sentivo nel comporre di poesia, nonostante che poi alcuni temi di quegli scritti del 1989, hanno attraversato la composizione dei due miei libri di poesia con immagini “Sogni Sospesi” e “Reciproche Rinascite”.

Dopo quasi trenta anni decisi di impegnarmi nella scrittura nella forma del romanzo.

/-/

Vorrei parlare con voi di come ho iniziato a scrivere il romanzo, che ora è in fase di redazione finale. Ciò mi serve per distaccarmi da esso e da ciò che è contenuto, perché, ripeto, il nucleo iniziale fu ideato decenni fa. E certamente a quei tempi usavo altri termini. Però, e qui è il punto che vorrei sottolineare, questo discorso costituisce una biografia narrante che si fa or ora che scrivo in un rendiconto mio nello stato di ideazione e creazione, attraverso il mio corpo. In questi anni, il me stesso adolescente, mi guardava alle spalle. Anzi molti me stesso, più giovani mi guardavano severi e sprezzanti: “Allora? Non hai finito? Di tutti questi tentativi e appunti cosa ne fai? Non mantieni le promesse!”

Il tribunale di noi stessi adolescenti è terribile. Non puoi fuggire. Ti conoscono. Sanno tutte le bugie e le scuse che dici allo specchio. Sanno tutto e di più di te.

Vorrei continuare a rispondere a loro, anche dopo la pubblicazione del libro e con voi, ma non soltanto per forme indirette di vanità, quanto per esprimere una individuazione della nostra capacità di creare e di ascoltare il nostro inconscio, o per meglio dire, il nostro cervello che lavora per la sua residuale attività cosciente.

Per tanti anni ho scritto versi, ma iniziai seriamente a comporre nel 2010, nonostante che io da sempre abbia letto di poesia. Se scrivevo per diletto o per occasioni particolari, mi uscivano versi attraverso uno stato di semi ipnosi. Un diluvio di frasi che componevano versi, scritti per un amico o per una amica, o per diletto in osteria o in birreria. Se invece mi cimentavo con l’intento di comporre qualcosa di programmatico, mi bloccavo. E, anzi, provavo un senso di scoramento, nell’incredulità a ricordarmi di aver scritto in fiumi di versi anche a comando, con stili del cinquecento, seicento, ottocento.

Ogni volta mi uscivano spiegazioni e trattati in prosa, che nulla avevano a che vedere con uno slancio creativo.

E figuriamoci nel tentativo di scrivere un romanzo. La questione strana, magari simile a quello che provate voi che mi state leggendo, è che nel momento in cui dimenticavo di me stesso, cioè non avevo il mio io presente, non avevo bisogno di concentrarmi, perché emergevano sensazioni che assumevano istantaneamente forme e strutture elaborate. Se pensavo a me, al mio “io” davanti a uno specchio o a un pubblico che applaude, mi bloccavo. La questione paradossale emergeva un istante dopo, se iniziavo a scrivere un saggio, o qualche scritto di ricerca o per lavoro: ero (e sono) velocissimo.