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CONSIGLI DI LETTURA: Cassa Depositi e Prestiti. Storia di un capitale dinamico e paziente. Da 170 anni

Cassa Depositi e Prestiti. Storia di un capitale dinamico e paziente. Da 170 anni, 2021, di Paolo Bricco (Autore), Il Mulino, Milano

La lettura di questo libro ci informa della nostra storia istituzionale e della nostra attuale vita quotidiana. Benché da gran parte dei lettori eventuali e della quasi totalità del popolo italico la “Cassa Depositi e Prestiti” sia intesa come un luogo, o un totem fumoso e lontano, in realtà ha a che fare con il nostro portafoglio, con l’orizzonte entro il quale scegliamo cosa e quanto possiamo spendere. L’ammontare di eventuali risparmi e la loro possibile allocazione.

In Italia vi è un problema strutturale di lungo periodo più accentuato rispetto ai paesi a noi vicini per il reddito, il livello di istruzione, e l’assetto tecnologico, rispetto a quelli dell’Unione Europea: un livello quasi totale di analfabetismo finanziario e monetario, anche per ciò che riguarda la gestione istituzionale del patrimonio pubblico e privato, per quanto piccolo o insignificante possa essere quest’ultimo.

Ripercorrendone l’operato dalla fondazione a oggi vediamo scorrere le vicende italiche: l’unificazione, le grandi trasformazioni economiche di fine Ottocento, la modernizzazione industriale dei primi del Novecento e gli effetti della Prima guerra mondiale, la crisi degli anni Trenta e le politiche per il Mezzogiorno del secondo dopoguerra. Oggi, a più di 170 anni dalla sua fondazione e dopo essere divenuta una Società per azioni, ha assunto pienamente un ruolo attivo per lo sviluppo delle infrastrutture e delle società ritenute “strategiche”, e non più solo come un erogatore passivo di risorse sul mandato del ministero del Tesoro e delle Finanze.

Ciò pone interrogativi sulla funzione storica di salvataggio di imprese anche decotte e di ciambella di sopravvivenza in occasione dei grandi sbandamenti finanziari e crisi di produzione, nonché strutturali del nostro paese, rispetto ad una presenza che è stata ritenuta soffocante per uno sviluppo imprenditoriale robusto e all’altezza dello scenario mondiale.

Per decenni l’Istituto fu utilizzato per gestire i debiti e i crediti cercando di mantenere l’assetto contabile e finanziario indipendente dai capitali stranieri, incanalando i risparmi di tutti in quello delle poste. Quintino Sella a suo tempo cercò di ampliare le attività della Cassa, oltre a quelle di erogare i prestiti agli enti locali, negli impieghi in titoli di Stato– di tipo fruttifero e infruttifero – con il ministero del Tesoro, in relazione al debito pubblico.

La “Cassa Depositi e Prestiti” contribuì alla costruzione di una base finanziaria nazionale. Tale processo fu opposto dalle banche rilevandone un possibile concorrente. E questa fu una tensione che ci portammo fino ai giorni nostri, riguardo i prestiti ai comuni e alle province.

Comportò un cambiamento nel modo di risparmiare dei cittadini per il disallineamento fra la raccolta postale e l’impiego di queste risorse, perché la raccolta postale ha tempi brevi e liquidità molto forte (tendenzialmente con rimborsi anticipati, effettuabili in ogni momento e senza vincoli), che si devono misurare con le condizioni di mercato, in termini di tassi e di rendimenti.

Nel 1876 vengono emessi 60.000 libretti di risparmio. In quell’anno, l’80% del denaro va ad alimentare i progetti pubblici del Paese reale e il 20% è destinato alla sottoscrizione dei titoli di Stato. La “Cassa Depositi e Prestiti”, a questo punto, ha una più cospicua forza finanziaria e una nuova centralità strategica. È il cuore dell’infrastruttura finanziaria italiana.

Durante la seconda guerra mondiale per quanto, soprattutto nei primi anni, continui a erogare mutui ai comuni e alle province – estremizza la sua funzione di polmone finanziario dello Stato.

Fino agli Sessanta vi fu un capitalismo manifatturiero privato proiettato sui mercati internazionali, reso debole, però, dall’inflazione nei bilanci e dalla lotta di classe nelle fabbriche. Questo modello basato sulla crescita della spesa pubblica e sui cittadini come “clientes”, è consentito dallo sviluppo internazionale, fino allo shock petrolifero di riduzione dell’offerta fra il 1973 e il 1974, con l’aumento del prezzo del greggio e, a catena, di tutte le materie prime.

Si ha la spinta inflazionistica e in concomitanza vi è lo sfaldamento del sistema di gestione monetaria di Bretton Woods.

Negli anni Settanta si hanno aumenti salariali non corrispondenti agli aumenti di produttività, una forte inflazione, la crescita del debito pubblico e la svalutazione della lira. Problemi strutturali che hanno portato conseguenze fino ai giorni nostri, ancora vive e pressanti.

Negli anni Settanta si hanno quindi l’inflazione e la recessione: la tempesta perfetta. Le monete europee perseguono un equilibrio basato su una parità di cambio, mitigata da un margine di fluttuazione dei loro valori. Nel 1973 l’Italia esce da questo meccanismo, con una svalutazione del 20%, la prima delle «svalutazioni competitive» che avrebbero segnato la storia nazionale nei successivi vent’anni.

Nel 1977 si prova a rimediare. Il ministro del Tesoro del terzo governo “Andreotti”, Stammati, opera un consolidamento dei debiti della finanza locale e nazionale attraverso un’emissione di titoli decennali del Tesoro a favore di “Cassa Depositi e Prestiti”. In linea di principio, da quell’istante comuni e province chiedono prestiti alla “Cassa Depositi e Prestiti” soltanto per gli investimenti e non a copertura dei debiti pregressi. Non è permessa più l’assunzione di nuovo personale e il nuovo indebitamento a breve termine formalmente viene vietato. Sulle urgenze, soltanto la Cassa può erogare mutui a breve scadenza. Questa chiarezza finanziaria non serve solo a evitare le micro-implosioni di province e di comuni, perché costituisce un tentativo di togliere opacità alla finanza pubblica.

Lo stesso Stammati, con la legge 468 del 1978, delinea un bilancio dello Stato sottoponibile alle verifiche e al controllo del Parlamento. Viene introdotto il bilancio annuale di cassa, oltre che quello di competenza. Il bilancio di competenza è esteso a più anni. La legge finanziaria diventa lo strumento di adeguamento della normativa finanziaria alla politica di bilancio, nella programmazione e nell’assestamento. Tutto questo pone le basi per una delle linee di fondo del funzionamento dell’Italia negli anni Ottanta: la determinazione annuale degli aggregati di finanza pubblica e la fissazione dei vincoli amministrativi da parte del governo.

Gli esiti legislativi promossi da Stammati, in realtà, confermano la centralizzazione prevalente delle fonti di finanziamento degli enti locali. Nel sistema di finanziamento degli enti locali, è appunto introdotto il principio di spesa storica quale criterio di riparto dei fondi statali tra gli stessi enti locali. Si tratta di un principio rigido perché cristallizza i differenziali di spesa corrente per abitante. Sembra bloccare l’esplosione della spesa pubblica locale. Si conferma, però, l’accentramento delle entrate (a fine anni Settanta il 95% della spesa regionale e il 65% della spesa locale sono sostenuti dai trasferimenti erariali) e allo stesso tempo si assiste a un irrobustimento della spesa pubblica locale, con il peso delle amministrazioni locali che, nel corso degli anni Settanta, aumenta sul totale delle amministrazioni pubbliche di oltre dieci punti, arrivando a sfiorare nel 1981 il 31%.

La “Cassa Depositi e Prestiti” è autorizzata a concedere mutui decennali ai comuni (garantiti dallo Stato) per portare sul lungo termine tutti i crediti che, a fine 1976, erano a breve termine. I comuni e le province diventano così debitori di lungo periodo della Cassa, che si assume l’onere di soddisfare i crediti delle banche. Lo stesso accade con i mutui che i comuni e le province non riescono a pagare. In generale Cassa fa, a un tasso del 15%, delle anticipazioni sui disavanzi che possono essere pari al massimo alla loro entità. Se, invece, l’ente pubblico è in pareggio nel 1976 ed è in disavanzo nel 1977, la Cassa eroga anticipazioni per il 70%. Diventano a carico dello Stato (e di Cassa) le rate dei mutui a pareggio di disavanzi economici dei bilanci degli enti locali e dei mutui contratti per il consolidamento dei debiti a breve termine. “Cassa Depositi e Prestiti” viene, poi, rimborsata dal Tesoro.

Il decreto legge 269/2003 diventa la legge 326/2003, con cui la Cassa si trasforma in una «vera e propria market unit, fuori dal perimetro delle amministrazioni pubbliche». La Cassa continua a svolgere il suo compito originario: il finanziamento di Stato, regioni, enti locali, enti pubblici, organismi di diritto pubblico mediante l’utilizzo del risparmio postale e di altra «provvista» che può essere garantita dallo Stato (la così detta «gestione separata 1», qualificata dal decreto del ministero dell’Economia e delle Finanze del 6 ottobre 2004 quale «servizio di interesse economico generale», insieme al risparmio postale).

Così la Cassa svolge il suo ruolo più classico: prende il risparmio postale, su cui permane la garanzia dello Stato, e lo dà in prestito al settore pubblico perché faccia investimenti. Inoltre, sul piano giuridico e operativo, la Cassa può svolgere operazioni anche in regime di «gestione ordinaria» (tecnicamente definita «provvista non garantita dallo Stato») per finanziare – fra l’altro – opere e impianti, reti e dotazioni destinati alla fornitura di servizi pubblici. La gestione ordinaria viene sostenuta con l’emissione di strumenti finanziari – per esempio obbligazioni – ma appunto senza la garanzia dello Stato.

La chiusura del cerchio avviene anche a livello regolamentare e istituzionale: la Cassa è assimilata dalla Banca d’Italia a intermediario finanziario non bancario. Nella contabilità nazionale, dalla fine del 2006, la Cassa è classificata come una istituzione finanziaria monetaria, soggetta alla riserva obbligatoria, anche se non è assimilata a una banca: non è iscritta all’albo delle banche e non è soggetta al complesso delle regole prudenziali di vigilanza. La sua attività rientra in quella svolta dagli enti creditizi: la Cassa, assoggettata al regime di riserva obbligatoria prevista dalla regolamentazione della Banca centrale europea, diventa «controparte» nelle operazioni di politica monetaria di Francoforte, per esempio le operazioni di rifinanziamento.

La Cassa, diversamente dalle banche, è esclusa dalla vigilanza prudenziale fissata dalla Capital requirements directive. È quindi portata al di fuori dal debito pubblico. Poi, assolve al suo secondo compito ricevendo in dote dal ministero dell’Economia e delle Finanze i pacchetti azionari delle imprese post-pubbliche e, in cambio, apportando denaro fresco al ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) che, con questo, può abbattere ulteriormente il debito.

Ricordando che sono sempre soldi dei cittadini, nel 2003 viene acquistata dal Mef (Ministero Economia e Finanza) la prima tranche dell’Eni: il valore della transazione è di 5,3 miliardi di euro e corrisponde al 10% del capitale. Nello stesso anno “Cassa Depositi e Prestiti” diventa azionista di Enel e di Poste italiane. Acquisisce dal Mef il 10,35% di Enel per 3,1 miliardi di euro e nel 2009 sottoscrive un aumento di capitale per altri 3,1 miliardi arrivando al 17,36% del capitale. Nel 2003, rileva, sempre dal Mef, il 35% di Poste italiane per 2,5 miliardi di euro.

Nel 2004 vi è l’acquisto dalla allora Finmeccanica (oggi Leonardo) per 1,4 miliardi di euro di una partecipazione indiretta del 10,07% in STMicroelectronics NV, uno dei grandi gestori del settore della ricerca e della produzione dei semiconduttori e dell’alta tecnologia, attraverso l’acquisto del 30,44% della società di diritto olandese STMicroelectronics holding NV.

Nel 2005 rileva il 29,99% di Terna, la società della rete elettrica nazionale nata nel 1999, come primo effetto della liberalizzazione del mercato, in seno all’Enel, che poi l’aveva quotata nel 2004. L’acquisto vale 1,3 miliardi di euro. A condizioni radicalmente mutate, si verifica il meccanismo opposto di dieci anni prima con le privatizzazioni: negli anni Novanta le partecipazioni in capo alla Cassa sono state spostate, senza compensazioni, nel perimetro del Tesoro, che ha provveduto a trasformarle in Spa e poi a privatizzarle. Adesso, invece, quote significative dei gruppi di antica matrice Iri – ormai già riplasmati dalla membrana delle privatizzazioni – entrano nel perimetro della Cassa.

Intanto, dalle crisi finanziarie del 2008, a quelle dei fondi sovrani del 2011, fino ai giorni nostri con il Covid e le guerre che ci circondano, continua il declino economico e produttivo, di un paese vecchio, antimeritocratico, in crisi di Welfare, con una amministrazione sempre più pervasiva, ed inefficiente, la “Cassa Depositi e Prestiti” mantiene e sviluppa una ossatura solida che la rende un soggetto attivo di movimenti sui mercati secondari e primari, sugli investimenti e sulle acquisizioni.

Agisce da e con il settore pubblico. È un ente privato che sostiene e, in concomitanza, appare in concorrenza con le società privata. Attraverso le sue acquisizioni, si ha una idea dell’assetto presente e prossimo del paese. Ma, e qui vi è il nodo, tanto più il paese decade, la Cassa per converso acquisisce sempre più forza e incidenza sino al cuore infrastrutturale, economico e produttivo del paese. In un’ottica di breve periodo è un salvagente per i bilanci pubblici e anche per una minima sostenibilità del denaro di ognuno, ma nella visione strategica, sembra anche soffocare ogni altra attività che possa crescere e svilupparsi in ambito privato.

Proprio per la sua commistione opaca talvolta, incestuosa per tanti anni, ibrida e ambigua con il settore pubblico, e con l’agire politico sempre più debole nel riuscire nei suoi intenti, la Cassa incrementa e amplia il suo spazio di azione.

Tutto ciò apre un dibattito sul cuore dei nostri assetti istituzionali e dei rapporti di comunità che ognuno ha con l’altro.

La lettura di questo saggio che è quasi un romanzo storico per il modo agile e scorrevole di stesura, corredato da fonti bibliografiche corpose dagli archivi primari ufficiali dei soggetti coinvolti, è un’utile risorsa per approfondire cosa accade quando investiamo, depositiamo, risparmiamo e consumiamo, anche per la compravendita di oggetti quotidiani di facile consumo.

La “Cassa Depositi e Prestiti” è dentro i nostri bancomat e nei nostri portafogli. Fornisce le mappe delle scelte che compiamo credendo di esserne i soggetti autonomi, capaci di valutare in modo appropriato i nostri progetti di vita assicurativa, sanitaria, pensionistica e di investimento per noi e i nostri figli, o più in generale per le coorti generazionali future.

In un paese ove l’analfabetismo economico è drammatico in tutti i livelli, indipendentemente anche dal titolo di studio, sarebbe auspicabile riflettere in modo lento, pacato, e lontano dalle chiacchiere e dalle polemiche quotidiane, che, di fronte a questi temi, sembrano una matassa di fuochi fatui stagnanti in un’aria paludosa e mefitica.

Certamente le righe soprascritte in modo così polemico sono una provocazione, ma sarebbe il caso di conoscere chi è il nostro vicino di banco che ci accompagna ogni volta che prendiamo in mano il denaro in qualsiasi forma quest’ultimo sia.

§CONSIGLI DI LETTURA: Storia dell’Ucraina. Dai tempi più antichi ad oggi di Massimo Vassallo, 2020, Mimesis Editore, Milano

Questo libro è stato concepito e pubblicato documentando gli eventi fino al 2020. È una poderosa ricerca della storia dell’Ucraina e di tutte le terre ad essa afferenti e confinanti. Il mondo slavo che va dalla Siberia fino qui da noi ai confini dell’Italia e giù, più a sud della Grecia.

Vi è una spiegazione delle teorie e delle ricerche circa l’origine e l’autorappresentazione dei popoli, dei nomadi, che attraversarono, si fermarono e difesero queste terre. Lungo il corso dei decenni che partono dall’Ottocento Dopo Cristo fino ad oggi.

Dalle prime pagine si comprende immediatamente come i nostri dibattiti, qui in Italia, nel definire e giudicare le contese e addirittura ad inquadrare le comunità di riferimento, siano errati e superficiali, e sotto sotto, hanno la funzione di nascondere o di rivendicare parti della nostra storia che sono ancor oggi presenti e foriere di conflitto.

Credere che rivendicare questo o quel confine, o ritenere che gli Ucraini siano Russi dispettosi e che entrambe siano comunità monolitiche, composte da un solo popolo, con una sola lingua in un territorio in costante e lineare configurazione, consegue la produzione di giudizi e di valutazioni errate, ignave, e forse anche in malafede.

Esistono ondate di modifiche nell’antico slavo che portano differenze vistose tra il bielorusso, il russo, l’ucraino e tutte le altre forme linguistiche, in un vortice forsennato per l’orda mongola che sconvolge a più riprese tutto quel vasto territorio, senza contare l’avvento delle tribù nomadi turche, nonché farsi, oltre a quelle vichinghe. Per ogni secolo si rilevano ondate e miscele continue che hanno relazioni prima con Bisanzio, e con Roma, e poi anche con i turchi, e poi gli ottomani.

Con l’ausilio di una miniera di fonti, le vicende dei personaggi sono ricostruite in parallelo, ritornando da vari punti di vista per ogni capitolo, nel descrivere l’evoluzione di una comunità. E se si crede di aver circoscritto l’intero quadro storico, dopo l’anno mille arrivano quelli che saranno detti polacchi, casciubi, ungari, lettoni e lituani.

Tutti questi eventi millenari hanno a che fare con noi, e lo ebbero con i Papi, le Repubbliche di Venezia e di Genova, con l’impero germanico, con i Franchi, con l’impero austroungarico, e più recentemente con gli slavi del sud, tra Bulgari, Croati, Serbi, Sloveni, Slovacchi.

E per ognuno di loro, sono ripercorse le vicende che gravitano attorno a quel territorio che denominiamo Ucraina.

Chi ha un minimo di dignità comprende immediatamente quanto poco conosce e quanto qui in Italia vi sia un dibattito omissivo che in ogni caso pagheremo in futuro. Dimentichiamo e non vogliamo vedere che quello che capita laggiù, ricade qui in termini materiali, di risorse e di confine.

Vi è una avvincente spiegazione linguistica e delle forme di ordinamento giuridico e statuale.

Perché li vediamo così lontani nonostante tutto? Possiamo ipotizzare più risposte. Per esempio dimentichiamo che anche noi qui in territorio italico nei secoli, ancora prima dei latini e dei Romani, vi erano le guerre tra le comunità e i popoli provenienti da continenti e da mari diversi. Prima, durante e fino all’età moderna, l’Italia è stato il luogo di scontro di quasi tutti i conflitti che avvennero in Europa. Settanta e più anni di pace, e meno male (non riflettiamo mai quanto siamo fortunati, noi e i nostri padri per questo), ci hanno reso ciechi e sordi rispetto al nostro recente passato.

Non vogliamo pensare al concetto di difesa del territorio e delle vie di commercio, perché da decenni vi è qualcun altro che pensa a questo per noi. E in più, qui è il nostro specchio nascosto, nascondiamo il nostro passato. Se pensassimo con profonda umiltà, alla volontà degli Ucraini di emergere come popolo unito, dovremmo in conseguenza pensare a ciò che siamo stati nel fascismo, a come abbiamo condotto l’unità d’Italia, e ripensare a ciò che è stato il Risorgimento. Non è una riscoperta indolore. Gli italiani non sono stati “brava gente”.

Si rimane stupiti dalla capacità dell’autore di padroneggiare così tante lingue, di aver raccolto e coordinato una tale quantità di materiale a dir poco oceanica, e di aver mantenuto più fili conduttori coerenti e avvincenti alla lettura.

Questo lavoro è un tomo fondamentale per capire ciò che è fuori dalla nostra porta, perché offre una chiave per accedere quella stanza nel centro delle nostre case che teniamo chiuse.

Tutto ciò non è facile, ma l’apertura degli antri, permette il passaggio di aria buona, che richiama l’umiltà, la prudenza e l’umanità. Dapprima è doloroso respirare questa aria fredda e corposa, ma dopo si avverte una maggiore leggerezza di pensieri e di cuore, nel dire sì: IO VI VEDO.

Compratelo: è una sorgente di umanità senza fine.

51-53 La scelta di privilegiare il punto di vista ucraino non deriva assolutamente da una inesistente “scelta di campo” né tantomeno da una sottovalutazione delle esperienze viste da un angolo extra-ucraino, quanto dalla constatazione della (quasi) assoluta mancanza a tutt’oggi, in lingua italiana, di una storia continua di quella Nazione che tenga in debita considerazione anche i lavori della migliore storiografia ucraina, novecentesca e contemporanea, le cui conclusioni possono senza dubbio essere criticate con forza e comunque debbono sempre essere valutate criticamente, ma non dovrebbero restare ignote ad un più largo pubblico, non fosse altro perché senza conoscerle si corre il rischio di non riuscire a inquadrare in modo chiaro, adeguato e lineare molti sviluppi dei nostri giorni, dietro i quali vi è sovente una lunga e complessa storia. Ho quindi deciso di utilizzare sempre, tranne in casi rarissimi ove sarebbe stato pedante e potrebbe indurre all’errore, le forme ucraine dei nomi di persona, di regione e di luogo, senza per questo (lo ribadisco) voler fare una scelta di campo né sminuire le altre tradizioni, che conosco, rispetto e ammiro, come credo sarà evidente da una lettura non superficiale; per questi motivi, talora nel testo ma più spesso in nota per non appesantire la già non sempre scorrevole lettura, ho messo le forme in altre lingue (spesso più d’una). Ho deciso di trattare, seppur brevemente, la storia delle terre oggi ucraine sin dall’Antichità, un’epoca in cui colà fiorirono altre civiltà, alcune quasi ignote altre ben conosciute in quanto propaggini estreme del mondo classico, prima greco e poi romano: tali civiltà non possono però essere definite “ucraine”, se non appunto in senso territoriale, ad onta delle rivendicazioni dei nazionalisti che in alcuni casi estremi hanno ascritto agli ucraini (visti come gruppo etnico già in sostanza distinto) pure la cultura di Trypillja del III millennio a.C!é…]”

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51-53 La scelta di privilegiare il punto di vista ucraino non deriva assolutamente da una inesistente “scelta di campo” né tantomeno da una sottovalutazione delle esperienze viste da un angolo extra-ucraino, quanto dalla constatazione della (quasi) assoluta mancanza a tutt’oggi, in lingua italiana, di una storia continua di quella Nazione che tenga in debita considerazione anche i lavori della migliore storiografia ucraina, novecentesca e contemporanea, le cui conclusioni possono senza dubbio essere criticate con forza e comunque debbono sempre essere valutate criticamente, ma non dovrebbero restare ignote ad un più largo pubblico, non fosse altro perché senza conoscerle si corre il rischio di non riuscire a inquadrare in modo chiaro, adeguato e lineare molti sviluppi dei nostri giorni, dietro i quali vi è sovente una lunga e complessa storia. Ho quindi deciso di utilizzare sempre, tranne in casi rarissimi ove sarebbe stato pedante e potrebbe indurre all’errore, le forme ucraine dei nomi di persona, di regione e di luogo, senza per questo (lo ribadisco) voler fare una scelta di campo né sminuire le altre tradizioni, che conosco, rispetto e ammiro, come credo sarà evidente da una lettura non superficiale; per questi motivi, talora nel testo ma più spesso in nota per non appesantire la già non sempre scorrevole lettura, ho messo le forme in altre lingue (spesso più d’una). Ho deciso di trattare, seppur brevemente, la storia delle terre oggi ucraine sin dall’Antichità, un’epoca in cui colà fiorirono altre civiltà, alcune quasi ignote altre ben conosciute in quanto propaggini estreme del mondo classico, prima greco e poi romano: tali civiltà non possono però essere definite “ucraine”, se non appunto in senso territoriale, ad onta delle rivendicazioni dei nazionalisti che in alcuni casi estremi hanno ascritto agli ucraini (visti come gruppo etnico già in sostanza distinto) pure la cultura di Trypillja del III millennio a.C!

§CONSIGLI DI LETTURA: ADRIANO OLIVETTI. UN ITALIANO DEL NOVECENTO

Adriano Olivetti, un italiano del Novecento,
2022, Di Paolo Bricco, Rizzoli, Milano

È più di una biografia. È una narrazione che gli italiani ancora oggi risentono circa la loro autorappresentazione, ereditata dai primi sessanta anni del secolo scorso. Adriano Olivetti è stato il figlio di Camillo, altro grande imprenditore a cavallo del ‘900. Uno studente di meccanica e di legge, pervaso da una vorace aspirazione a coniugare lo sviluppo tecnologico all’interno dell’imprenditoria in vista in un’etica tesa al miglioramento morale e materiale del popolo.

Contribuì a definire quei tratti tipici con i quali noi inconsciamente talvolta, con fastidio frequentemente e con orgoglio timidamente ci contraddistinguiamo: una versatile capacità camaleontica di aderire alle ideologie, di inventare storie di sé e di riformulare il passato come se dovessimo cambiarci i vestiti, sia per una volontà tesa a un perenne rinnovamento salvifico e sia per una furbizia stracciona e impotente, quasi disperata. Lasciando poi trasparire in modo quasi inspiegabile tratti di eroica genialità e di sacrificio.

4-5 “[…] Inaugurando nel 1955 la fabbrica di Pozzuoli, Olivetti presenta così gli obiettivi della sua impresa: “La nostra Società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate fra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto” […]”

Non fu uno studente particolarmente brillante e neanche dotato di uno spirito pratico e agile, secondo le indicazioni del padre. Fu goffo, solitario, taciturno, non particolarmente atletico, ma dotato di uno sguardo sognante oltre il presente, contraddistinto da una inesauribile capacità immaginativa.

Aiutò Turati a fuggire durante la presa del potere del fascismo. Fu poi organico al regime e, in posizione di monopolista, trattò per rendere sempre più efficace la sua posizione aziendale in vista di una espansione produttiva e di sviluppo tecnologico privilegiato, venendo a patti con i potenti, fino a chiedere di interloquire con lo stesso Mussolini. Fu socialista segnalato dagli stessi prefetti fascisti, per poi rivendicare e anzi proporre uno stato etico ancora più pervasivo nei meccanismi dei processi economici, finanziari e produttivi.

Ciò fu ed è motivo di dibattito, perché potrebbe indurre una facile omologazione dell’uomo all’ideologia nefasta che fu, tale da risultare quasi il nemico più acerrimo della libera impresa, nonostante che mantenne, nel secondo ventennio, con grande riprovazione dei gerarchi, uno sguardo attento e positivo agli sviluppi tecnologici e imprenditoriali degli Stati Uniti. Insomma delle liberal democrazie.

Fu quasi uno dei più fedeli al regime e nello stesso tempo osteggiò in modo radicale le leggi razziali, anzi salvò tantissimi italiani di fede ebraica, sia assumendoli con altro nome nelle loro aziende, anche in modo posticcio, e organizzando poi, con la resistenza la fuga di molti, e tentando poi nel 1943 di scardinare la Repubblica di Salò con l’appoggio degli Usa e dell’Inghilterra per creare un regime democratico. Appoggiò quel nucleo di resistenti che formò il Partito D’Azione. Fu vicino agli ambienti del partito Repubblicano. Fondò il Movimento di comunità e partecipò alle elezioni nazionali, dopo qualche timido successo a livello locale, nei pressi di Ivrea, subendo una sconfitta nel 1959 che contribuì a fiaccarlo ulteriormente pochi mesi prima della sua morte nel 1960.

Ci si potrebbe chiedere se negli anni avesse avuto un filo conduttore di pensiero e di scopo. Non possiamo dirlo con certezza, ma questo libro, frutto di dieci lunghi anni di studio tra gli archivi di tutta Italia e non solo, oltre alla comparazione delle dichiarazioni di chi gli fu vicino, ricostruisce alcune linee di continuità a livello retrospettivo di tendenza storica, e non propriamente psicologica, per una persona piena di dubbi, pragmatica, e risoluta, razionale a volte, avventata in altre. Cinica e determinata nel perseguire gli scopi d’azienda, suicida e donchisciottesca nel perseguire suoi personali modelli di nuove relazioni sociali. Duro talvolta, ed estremamente generoso in altre.

Certamente subì l’influsso dell’idea dello stato che si fa padre, istitutore, controllore, gestore delle interazioni sociali e della moralità individuale, conduttore verso uno sviluppo delle comunità e delle genti italiche. Anzi elaborò e cercò di tradurre la visione risorgimentale di lungo periodo, nazionale dei primi anni colonialisti, fascista poi, di una sottomissione del singolo per il bene della collettività e poi della nazione. Posizione che invertì subito dopo l’8 settembre 1943, con una ulteriore conversione interiore, per definire una forma di personalismo cristiano che cercasse di coniugare la libertà con l’uguaglianza, la disparità sociale con la solidarietà e la redistribuzione che partisse dalle politiche e dai movimenti dal basso, prima di tutto culturali.

Se si cercasse di delineare una linea coerente secondo gli schemi attuali, si avrebbero le vertigini per queste giravolte tortuose. Il punto però è che indirettamente, consapevolmente a tratti, emerse sempre di più nei decenni un minimo comun denominatore: l’azienda e i lavoratori. Da essi e per essi elaborò una nuova forma di aggregazione comunitaria e quindi di interazione sociale.

Nell’impresa tutto deve ricadere. Il mondo del lavoro, a partire dalla fabbrica, determina ed espande le mense, le biblioteche, i musei e i centri culturali, gli asili nido per tutelare la maternità, la sanità complementare per i lavoratori, per i loro parenti e come una macchia d’olio via via per tutti. E quindi anche l’edilizia che deve essere redistribuita per i quadri, gli amministrativi, gli operai. Tutti, nessuno escluso, avrebbero dovuto godere esteticamente delle offerte culturali, di apprendimento e di una socializzazione aperta, libera e progressiva.

Insomma non è lo stato, il nuovo diritto, il partito fascista, il sindacato, le idee socialiste, le azioni di resistenza, gli approcci liberali che devono configurare i sudditi, i cittadini, i poveri, i ricchi, gli operai e gli intellettuali, passando anche nella rideterminazione dei luoghi di lavoro. No, ed è questo il fulcro, almeno io ritengo lo sia, della visione sotterranea di Adriano Olivetti: è l’azienda, il luogo della fabbrica, la comunità dei lavoratori, che assorbe tutto il resto. La società emana dai luoghi di lavoro. In essi si realizza la morale nell’attività di lavoro e culturale per una etica in cui la persona sia il perno.

Adriano Olivetti agisce in modo spregiudicato attraverso le ideologie, le forme di diritto, le nuove forme statuali che si susseguono prima e dopo la seconda guerra mondiale e la guerra fredda, perché le ritiene onde e scosse telluriche intorno agli arcipelaghi che sono appunto le reti di impresa, collocate tra la città e la campagna.

86-88 “[…] Le tre radici, dunque: la cultura liberal-risorgimentale, il progetto marxiano e l’appartenenza all’ebraismo. Nelle storie individuali e nelle vicende delle comunità e dei gruppi politici e culturali italiani, spesso la prima e la seconda radice si avviluppano con la terza, l’appartenenza all’ebraismo. E non importa se quest’ultima si manifesta in una intensa e palese identità religiosa o se si esprime in una mimetizzazione e in una diluizione della sua tradizione nella secolarizzata società italiana ed europea. È questo il contesto storico articolato e multiforme in cui il demone della politica appunto abita – inizia ad abitare – in Adriano. Il quale vive le contraddizioni degli uomini e si trova a operare nelle pieghe della Storia, che ora lo fanno stare come su un panno rosso e ora lo stringono al collo come una corda di canapa, ora ne fanno un protagonista ammutolito dall’eccitazione delle cose e ora lo trasformano in un ingranaggio reso silenzioso e grigio dal procedere della quotidianità

120-122 “[…] L’economia pubblica e la pubblica amministrazione, il governo e i ministeri. Il partito unico. Tutti questi elementi compongono la realtà. Il rapporto con loro diventa essenziale e vitale, necessario e naturale. La normalità è fatta di legami organici e non episodici con i corpi dello Stato e con il Partito nazionale fascista. Adriano è un imprenditore. La Olivetti è una società italiana. Opera su un mercato a bassa concorrenzialità e a elevato controllo da parte della politica e della pubblica amministrazione. Sono poche le altre imprese che producono macchine per scrivere e macchine da calcolo. La Olivetti, per svilupparsi e per prosperare, deve misurarsi con i regolatori e i controllori di una realtà economica e sociale che, negli anni Trenta, si trovano nelle stanze della politica, negli uffici della pubblica amministrazione e nelle sezioni del Partito nazionale fascista. Il 27 ottobre 1933 (con una lettera in cui alla data è aggiunto il numero romano XI, undicesimo anno dell’era fascista) Adriano scrive una lettera al ministero delle Corporazioni. La richiesta è quella di inserire il settore delle macchine per scrivere fra i comparti per i quali è necessaria l’autorizzazione del governo, forma grossolana e potente di controllo dell’attività industriale privata: «Con riferimento al R. Decreto 15 maggio 1933, n. 590, il quale assoggetta all’autorizzazione governativa i nuovi impianti e l’ampliamento di quelli esistenti per un determinato gruppo di industrie, esponiamo i motivi per i quali riteniamo necessario che l’industria delle macchine per scrivere venga compresa nell’elenco»10. Adriano gioca duro. Ha interesse a limitare sia la concorrenza interna sia quella estera. Sulla concorrenza interna, dice con una ambiguità abbastanza esplicita sulla presunta irrazionalità e, in ogni caso, sul presunto non interesse nazionale che nuovi investitori italiani entrino in un mercato in crisi: «Qualunque quota del risparmio nazionale indirizzata nell’industria delle macchine per scrivere non potrebbe che risolversi in uno spreco del capitale nuovo ovvero nell’indebolimento o nell’annientamento delle vecchie industrie del ramo che da sole hanno sopportato tutti i pericoli e gli oneri dell’inizio e dell’affermarsi di un’industria nuova per il nostro paese»11. C’è, poi, il rischio che altri gruppi stranieri entrino in Italia: «Ci risulta che importanti fabbriche nord-americane impressionate dalla quasi totale perdita del mercato italiano, dovuta alla nostra affermazione, stanno studiando la possibilità di costruire fabbriche di montaggio e costruzione parziale in Italia»12. Adriano, nel rivolgere la sua richiesta di inserimento del settore fra quelli a maggiore controllo autorizzativo pubblico, scopre la carta più pesante: «Nella nostra organizzazione lavorano oltre 1100 fra operai e impiegati. Se la minaccia di una nuova concorrenza interna alimentata anche da capitale e appoggio di nostri concorrenti interni avesse un inizio di esecuzione, noi dovremmo immediatamente e drasticamente ridurre non solo le ore di lavoro, ma anche il numero dei nostri dipendenti»13. Che sia una minaccia reale o solo tattica, l’Adriano portatore dell’insegnamento paterno, secondo cui la disoccupazione involontaria sarebbe stata la peggiore condizione umana per la classe operaia, in questo caso sonnecchia. E, al di là di questo, la Olivetti che ormai opera in condizione di semimonopolio si rapporta con il governo da monopolista. La Olivetti godrebbe di una posizione di forza da una misura che restringesse la possibilità per tutti di fare nuovi investimenti. Ne avrebbe un vantaggio strutturale. E Adriano ottiene questa misura. […]”

“[…] 152-155 Adriano ha un atteggiamento di adesione neutrale o di consenso passivo alla dimensione politica del fascismo. È un imprenditore. Fa gli interessi della sua azienda. Gioca su più tavoli con la pubblica amministrazione. Opera in un’economia in cui il protezionismo è la vera ragione prima di ogni estremizzazione autarchica e in cui la concorrenza è ridotta al minimo dall’influenza della politica e dai corpi dello Stato, da cui Adriano, per la sua azienda, riesce a ottenere molto […]”            

209-210  “[…] Dopo l’apertura, nel 1937, dell’asilo per i figli dei dipendenti con meno di cinque anni, nel 1940 è stata costruita la nuova struttura riservata ai bimbi con meno di tre anni. Alla Olivetti si può essere una mamma che lavora. Nel giugno del 1941, quando viene ampliato l’asilo nido progettato da Figini e Pollini in stile razionalista e con citazioni di Le Corbusier, viene riorganizzato tutto il servizio per l’infanzia e per la maternità offerto dall’impresa. In Italia il trattamento previsto dalla Cassa mutua e dall’Istituto nazionale di previdenza è minimo: stai a casa ricevendo l’equivalente del salario di due mesi, uno prima del parto e uno dopo. Al trentunesimo giorno di vita di tuo figlio, devi tornare in fabbrica o in ufficio. Alla Olivetti, nel 1941, viene emanato un regolamento – l’ALO, Assistenza lavoratrici Olivetti – secondo il quale le lavoratrici sono esonerate dal lavoro da 75 giorni prima del parto fino al settimo mese compiuto dal loro piccolo o dalla loro piccola e continuano a ricevere, grazie a un sussidio aziendale, il medesimo ammontare del salario: un trattamento così favorevole alla lavoratrice è un’eccezione nell’economia e nella società internazionali, non soltanto del Novecento. Peraltro, tutto questo accade sempre e comunque: non importa che tu sia sposata o che tu sia ragazza madre. È così. La membrana che separa la Olivetti dal mondo è fatta anche di quella particolare materia che è l’accudimento dei bambini da parte delle loro mamme. Intorno alla mamma e al bambino si crea un mondo. Si stabiliscono premi di natalità aziendali così da «alleggerire l’onere della famiglia in un momento particolarmente delicato»79. Sono previsti contributi straordinari, in caso di famiglie con particolari difficoltà economiche o con particolari condizioni di salute. A sette mesi, quando la mamma torna nello stabilimento o in ufficio, il piccolo viene accolto nell’asilo nido. All’asilo nido si trova una camera per l’allattamento, così la mamma può allontanarsi per il tempo necessario dall’ufficio o dalla linea produttiva e dare il suo latte al piccolino o alla piccolina che ne abbia ancora bisogno. A tre anni, i bimbi vengono accolti all’asilo e, poi, a quattro anni – e fino ai sei – alla scuola materna aziendale. Al compimento dei sei anni – fin dal 1938 – possono andare alla colonia montana di Champoluc, che rimarrà attiva per decenni, e al mare a Loano, servizio che invece smetterà di funzionare nel 1941. A differenza delle altre imprese italiane, i dipendenti che lo desiderino possono accompagnare i figli in colonia. La membrana che separa la Olivetti di Adriano dal resto del mondo definendone l’anomalia è formata da un ultimo, prezioso, strato: nell’asilo nido aziendale, che ha un numero limitato di posti, fra il figlio dell’operaio e il figlio dell’impiegato viene data la precedenza al figlio dell’operaio […]”

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È incerto, fra tante sponde. Deve andare a Milano, aprire le sedi a Barcellona, in Francia, Inghilterra, Svizzera, ma il fulcro è però quasi paesano: Ivrea. Tende a dimenticare e rimuovere il passato socialista del padre, il fascismo, le sue discussioni con gli alti gerarchi e con lo stesso Benito Mussolini sul corporativismo e sulla concezione di una nuova azienda. Propose confusamente il modello di una nuova economia ai servizi segreti inglesi e USA, a causa del quale fu messo da parte come agente principale di un eventuale colpo di stato ai tempi dell’8 settembre 1943. Sembra comportarsi come un reggitore di una Signoria dei secoli andati.  

262-63 “[…] La crisi della democrazia liberale, il Biennio rosso, l’ascesa violenta del fascismo, la ribellione delle minoranze, il consenso di massa, l’adesione, la via fascista alla modernità, la partecipazione agli organismi dei corpi intermedi, il lavoro intellettuale sul corporativismo, i rapporti con la ristretta cerchia di Mussolini, la crescita della Olivetti in un regime di oligopolio, i legami con la pubblica amministrazione e la politica fasciste. Tutto cancellato, dimenticato, rimosso, destinato all’oblio. A poche settimane dal rientro a Ivrea, nel suo primo discorso ai dipendenti – in una occasione, dunque, fondante – Adriano costruisce il suo nocciolo duro di riflessione per la contemporaneità e per il futuro su una crisi che è di civiltà, sociale e politica: «Allora, amici, vorrete domandarmi: dove va la fabbrica in questo mondo? Cosa è la fabbrica nel mondo di domani? Come possiamo contribuire con il nostro sforzo e con il nostro lavoro a costruire quel mondo migliore che anni terribili di desolazione, di tormenti, di disastri, di distruzione, di massacri, chiedono all’intelletto e al cuore di tutti, affinché giorni così tristi né i nostri figli né i figli dei nostri figli e molte generazioni ancora non potranno dimenticare né potranno, una seconda volta, affrontare?» […]”

E si arriva alla fine del suo percorso.

486 […] Le cose, dunque, non vanno bene. Adriano, dopo il fallimento alle elezioni politiche nazionali del 1958, si trova a operare in una condizione di negoziato continuo con gli altri famigliari e gli altri soci. Conosce il legame fra finanza d’impresa (al servizio, appunto, dell’impresa) e finanza straordinaria (al servizio, anche, degli azionisti). In questa nota si legge che questi 8 miliardi corrispondono «a più di due volte le emissioni di nuove azioni di tre miliardi», un fattore di persistente tensione con gli azionisti della Olivetti, abituati da dieci anni a portare fuori capitali sotto forma di dividendi e ad autoassegnarsi aumenti di capitale non a pagamento, vedendo crescere la loro ricchezza individuale senza pagare alcun dazio. In un contesto simile la questione della Fondazione, che di necessità interromperebbe l’assorbimento di dividendi da parte degli Olivetti dalla Olivetti, diventa astratta e irrealistica e il tema del Consiglio di gestione appare significativo, ma minimo. L’intero edificio non regge più. Non funziona il meccanismo nel rapporto fra impresa e azionisti, che sono abituati ad avere tanti, tanti dividendi. Non funziona il rapporto fra Adriano e gli altri famigliari. Non funziona, paradossalmente, nemmeno il rapporto fra Adriano imprenditore e Adriano politico perché, come in una dissociazione, il secondo è stato «spogliato» delle sue finanze personali dal primo […]”

E appena pochi mesi dopo la sua morte:

509-512  “[…] Il 10 febbraio 1961, il Comitato centrale del Movimento di Comunità si scioglierà. Tutto questo succede sei anni dopo il discorso di Adriano ai lavoratori di Pozzuoli: «Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica? La nostra Società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate fra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto». Ma è tutto il mondo di Adriano a perdere consistenza, a sfibrarsi e a sfilacciarsi nella realtà e, allo stesso tempo, a impiantarsi, a crescere e ad assumere vita nell’immaginazione degli altri. Con la scomparsa di Adriano, è come se all’improvviso le radici nascoste dell’albero della crisi prendessero vita e si manifestassero nella Storia ed è come se, simultaneamente, una nuova dimensione civile e affettiva venisse costruita prima di tutto sulla sua assenza. La stessa Olivetti, segnata dai conflitti famigliari e dalla mancanza di un leader carismatico seppur discusso come Adriano, sarà scossa da uno sbandamento strategico e si ritroverà in una fragilità finanziaria di cui c’erano già segni evidenti fra il 1958 e il 1960. Pochi anni dopo rischierà di diventare di proprietà delle banche svizzere, che avranno in pegno le azioni degli indebitatissimi Olivetti: per evitarlo, il ripianamento dei debiti personali di questi ultimi e la ricapitalizzazione della società verranno realizzati dal gruppo di intervento coordinato da Mediobanca e composto da Fiat, IMI, Pirelli e La Centrale. La Olivetti, però, perderà la sua autonomia, diventando un’impresa industriale senza un imprenditore. La riduzione dell’autonomia sarà duplice: la Olivetti, diventata acefala, dovrà rinunciare alla grande elettronica, ceduta alla General Electric, e si troverà in una sorta di camera iperbarica finanziaria, con una specializzazione produttiva concentrata sulla meccanica e sulla piccola elettronica e una dipendenza completa dal sistema bancario italiano. Succederà tutto questo, nel 1964, esattamente cinquant’anni dopo la prima volta di Adriano in uno stabilimento: «Nel lontano agosto 1914, avevo allora tredici anni, mio padre mi mandò a lavorare in fabbrica. Imparai così ben presto a conoscere e odiare il lavoro in serie: una tortura per lo spirito che stava imprigionato per delle ore che non finivano mai, nel nero e nel buio di una vecchia officina. Per molti anni non rimisi piede nella fabbrica, ben deciso che nella vita non avrei atteso all’industria paterna»56. Succederà tutto questo pochi anni dopo che Adriano ha vissuto il suo ultimo giorno. Un ultimo giorno in cui ha mangiato cacciagione e ha bevuto champagne, ha festeggiato la quotazione in Borsa della Olivetti con i suoi famigliari e i suoi dirigenti industriali, si è occupato di libri e di editoria, ha aumentato lo stipendio ai redattori di una rivista, è salito su un treno diretto in Svizzera per discutere con i banchieri e per andare ad amare […]”

§CONSIGLI DI LETTURA: POSTDIRITTO. NUOVE FONTI. NUOVE CATEGORIE

Giuseppe Zaccaria, Postdiritto.
Nuove Fonti, nuove categorie,
Il Mulino, Milano, 2022

È un libro denso per opera di un eminente studioso del diritto, ancora in attività. Come intendiamo il diritto e la sua applicazione? Che relazioni vi sono oggi tra il diritto, i valori, le norme? Come valutiamo l’incidenza delle pratiche giuridiche in coerenza con gli schemi formali del diritto in rapporto alla Costituzione e allo Stato, ove questi subiscono una riduzione di applicazione in conformità verso enti privati transnazionali e istituzioni sovranazionali?

È percorso un dibattito a tema che cerca di ridefinire qui in Italia le nozioni di giusnaturalismo, giuspositivismo, tra originalismo ed ermeneutica.

Vi sono temi antichi che si ripropongono assieme a dilemmi, controversie e ai limiti delle interpretazioni, delle pratiche e delle giustificazioni di fondazione del diritto e delle giurisprudenze correlate.

Il dibattito storicamente ha attinto anche agli strumenti propri della filosofia del linguaggio, della logica, della retorica, e della storia giuridica relativa alla nozione della definizione dei principi e delle tecniche di giustificazione.

Se è concesso esprimere qualche perplessità, che non inficia l’inarrivabile autorità e preparazione dell’autore, rispetto al sottoscritto, per chi conosce i dibattiti della filosofia teoretica e delle questioni di sociologia, sembra che vi sia una ripetizione di ciò che già decenni fa, fu considerato già sorpassato.

D’altra parte per chi ne è a digiuno, tale approccio, invece è un ottimo viatico per offrire la possibilità di porsi nuove domande indefinitamente più articolate.

Per quanto riguarda lo stile, a tratti sembra vi siano toni di arringa innanzi a un tribunale, ma questa inclinazione verso una scrittura che richiama una dizione orale, rende più colorita e partecipe una narrazione altrimenti astratta per i neofiti.

A mio parere non bisognerebbe subito cadere nel giudizio che il diritto sia in crisi relativamente alla nozione di universalità, con la coerenza e la validità della sua applicazione. La questione è relativa a quell’articolo determinativo “il”. Il diritto è antecedente all’apparizione della forma statuale di nazione, ovvero attraverso una Carta di Identità di un testo Costituzionale.

È un libro ricchissimo che offre al lettore di rivedere parole che usa ogni giorno in un’ottica più ampia, rilevando come la collettività, la nostra Repubblica, e tutti i soggetti correlati a livello interno e internazionale, provengono da lontano, essendo in continua mutazione.

Mi si perdoni questo egocentrismo, ma sto prendendo alla lettera l’insieme delle indicazioni evocate dal testo, perché il diritto non è astratto, infatti si realizza nei casi e nel fatto concreto. A mio parere, dunque, EMERGE UNA SPINTA ETICA: ESSERE PRESENTI NEL PROPRIO TEMPO, nel comprendere la propria relazione rispetto agli altri e alle istituzioni, all’interno di valori indisponibili in una concezione universale degli ambiti di definizione e di giudizio.

Ovvero rendere grazie a coloro che ci hanno offerto un mondo ben più amichevole e materno rispetto al passato, per adempiere alla responsabilità di conservarlo, al fine di renderlo disponibile per le generazioni future.

Dal Codice Pandettistico si passa alla necessità di un ritorno a logiche plurali del diritto in cui la relazione diretta, fatto, caso, norma non sia l’unica matrice dove si inscrive la prescrizione, la regola, la coattività, la tutela, il titolo.

È un libro urticante. Ci fa riflettere. Prende una posizione, inducendo il lettore ad oscillare nell’essere a favore o contro rispetto agli argomenti trattati

È uno stimolo comunque per essere presenti nel nostro tempo, in modo di non subire l’effetto inconsapevole dei processi storici e sociali in atto.

Il diritto penale del nostro tempo è composto da un corpo di leggi, spesso promulgate in funzione pedagogica, più che sanzionatoria rispetto a determinati comportamenti sociali: con una conseguente tendenza ad un aumento dei reati e ad un inasprimento delle pene, non più caratterizzate da certezza e dal principio di proporzionalità. La proliferazione incontrollata, la cattiva qualità e l’ambiguità di una legislazione frutto di compromessi, minano dall’interno il principio di legalità ed accentuano notevolmente lo spazio di discrezionalità dei giudici, privando nei fatti il cittadino di quelle garanzie di libertà dagli abusi del potere punitivo dello Stato e di ragionevole prevedibilità delle conseguenze dei propri comportamenti – come precondizione di libertà nelle proprie scelte – che sulla carta dovrebbero essergli riconosciute.

Nel mondo globale il diritto perde il suo rapporto esclusivo con un determinato territorio e tramonta il monopolio degli Stati nel produrre diritto. Regimi giuridici di diversa origine convivono e si moltiplicano in una pluralità di istanze che interagiscono e spesso si pongono in reciproca competizione. Nuovi soggetti, ufficiali e non ufficiali, non solo statali né solo pubblici, producono una serie di prassi non più riconducibili a logiche unitarie.

Ampie zone del mondo giuridico vengono privatizzate, preferendo la scelta del foro più conveniente agli interessi che si intendono perseguire. Contestualmente, per risolvere controversie e conflitti, accanto ai giudici nazionali, si diffondono organismi giudiziari e para giudiziari che espandono i diritti individuali, introducendo garanzie e rispetto delle forme contro le violazioni dei diritti.

Al pluralismo sociale si affianca un pluralismo giuridico con fonti pubbliche e private, tra loro non più disposte in un rigido rapporto gerarchico. Al diritto «scritto» (basato esclusivamente sulla legge) si affianca il diritto di fonte giurisprudenziale. Si ingigantisce il ruolo degli interpreti, soprattutto degli interpreti giudici in qualità di protagonisti per risolvere le difficoltà o le carenze prodotte dalla cattiva qualità o dall’assenza degli interventi legislativi.

Il rimprovero alla pervasività dell’intervento giudiziale è frequentemente mosso da quella stessa politica che lo rende inevitabile con la propria mancanza di scelte nette. I pilastri del moderno Stato di diritto, il principio di legalità e di separazione dei poteri, trasformati in luoghi comuni e dogmi intangibili, denotano una maggiore difficoltà, rispetto al recente passato, nel tenere il passo circa l’imprevedibilità di casi concreti in cui ciascuno pretende una giustizia personalizzata.

L’attuale mutazione del diritto, non più imperniata sulla legge ma sui due poli della Costituzione da un lato e delle corti dall’altro, ridimensiona fortemente, in questa forma parzialmente destatalizzata del diritto, il modello continentale moderno con le sue istanze di potere statale e di preminenza del legislativo.

Si consuma la rottura del monopolio e del rigido controllo statuale sul diritto. Si tratta in ogni caso di processi di adattamento e di cambiamento che indubbiamente mettono in discussione antichi confini e storici assetti, ma che non possiedono ancora sufficienti elementi di univocità e di chiarezza.

L’uso smodato del ricorso alla sanzione penale (secondo recenti ricerche 7.000 norme penali in Italia, tra codici e leggi complementari) alimenta infatti disposizioni ben lontane dalla chiarezza e dalla precisione.

La conseguenza è quella di un tasso rilevante di ideologicità e di genericità in molte disposizioni di legge, tutte piegate al perseguimento di obiettivi contingenti di immediata utilità politica, e non di rado contenenti espressioni con funzione emotiva più che normativa. Tutto ciò inevitabilmente implica proprio la rinuncia alla funzione di orientamento dei comportamenti che sarebbe propria di una norma penale precisa e circoscritta.

 L’idea che tramite il diritto penale si possa rimediare ad ogni ingiustizia e ad ogni male sociale e che di conseguenza si debba ricorrere più intensivamente alla punizione ed alla repressione, origina un diritto penale non volutamente frammentario, ma duramente sanzionatorio.

Insomma, si fatica ancora nel mondo penalistico a riconoscere che l’ipertrofia legislativa, soprattutto quella dettata da emotività più che da razionalità, non è una deprecabile deviazione dalla retta via, ma una condizione strutturale della legislazione contemporanea.

Lo stesso processo rischia così di legittimare provvedimenti di natura amministrativa ed ispirati all’opportunità politica. Esorbitando nel suo potere, il giudice rischia di divenire così non colui che colma delle lacune, ma il giudice moralizzatore e giustiziere, il vero protagonista di una politica criminale soltanto declamata in modi strumentali dal legislatore ma in realtà propria e dotata di una forte funzione di prevenzione generale.

Il dilemma ritorna alla relazione tra i principi entro i quali il diritto si forma e i contesti della giustificazione nei quali le pratiche della giurisprudenza devono tener conto.

La dimensione giustificativa, relativa tanto alla giustificazione delle regole quanto a quella dei fatti, implica il fatto di parlare di casi concreti, di applicazione normativa nella prassi giuridica e di giustificare le ragioni addotte a sostegno della correttezza della soluzione individuata. Il giudice deve fornire le ragioni che hanno orientato il modo con cui la sua decisione compone gli interessi in gioco ed i valori in competizione.

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Il ragionamento giuridico presenta caratteristiche specifiche, che lo differenziano da altri tipi di ragionamento. Vale a contraddistinguerlo, anzitutto, la sua funzione pratico-normativa, il fatto che muovendo da premesse normative esso ricavi conclusioni normative. In secondo luogo, sarebbe auspicabile un suo uso all’interno di un contesto istituzionale da soggetti pubblici tenuti a giustificare le loro decisioni.

La teoria del ragionamento giuridico indaga le condizioni alle quali la conclusione di un ragionamento giuridico possa dirsi giustificata, e dunque razionalmente accettabile. Occorre ancor di più una funzione di controllo e di garanzia circa il rispetto di principi fondamentali dello Stato costituzionale di diritto, dal principio di legalità a quello di uguaglianza di fronte alla legge, per non dire di quello di separazione dei poteri.

Vi è nelle scelte del giudice un aspetto di discrezionalità ineliminabile, rispetto al quale la necessità di argomentare e di fornire ragioni rappresenta un antidoto ed un elemento di verifica. Molto meglio – anche ai fini di controllo dei modi di esercizio di tale discrezionalità – è che tali scelte non restino occultate all’interno delle pieghe del ragionamento e vengano anzi esplicitate, evidenziandone i presupposti e dando ragione delle regole di inferenza impiegate. Il controllo è momento essenziale del procedimento interpretativo e ad esso funzionalmente connesso.

In una tendenza storica che prevede un diritto crescentemente incerto, il giudice non deve essere lasciato solo. La decisione ed il relativo consenso rappresentano entrambi aspetti fondamentali della giustizia.

§CONSIGLI DI LETTURA: ANTONIN SCALIA

Antonin Scalia di Giuseppe Portonera, 2022,
Istituto Bruno Leoni Libri, Torino

L’operato del giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti Antonin Scalia (1933-2016) fornisce un’occasione per comprendere lo spirito più profondo circa l’intima struttura su cui poggia la nazione degli Stati Uniti.

Logica e argomento versus fede e opinione. Scalia afferma che il soggetto, l’individuo, l’attore, colui che impersona un ruolo, un giudice, è sì fondamentale, ma non è il fondamento della validità del giudizio, e non è l’origine esclusiva di ciò che è vero, tradotto nella pratica di ciò che è bene e opportuno fare.

In vita fu un cattolico osservante e un conservatore, ma ciò non fu determinante nei suoi orientamenti, scritti e sentenze che contribuì a stilare e ad approvare in più di trenta anni di attività in qualità di giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti.

“[…] [Al] contrario di presidenti, ministri, senatori e deputati, i giudici federali non svolgono (o non dovrebbero svolgere) un’attività politica, dovendo invece discernere accuratamente e applicare onestamente le scelte politiche fissate, dai rappresentanti del popolo, nelle leggi, tranne quando queste ultime sono in conflitto con il testo della Costituzione, le tradizioni che fanno da sfondo a quest’ultimo o i precedenti vincolanti della Corte suprema. Proprio come non c’è un modo cattolico di cucinare un hamburger, così non c’è un modo cattolico di interpretare un testo, analizzare una tradizione storica, o stabilire il significato e la legittimità di precedenti decisioni giudiziarie – eccetto, naturalmente, fare queste cose onestamente e perfettamente[4] […]”

La fiducia in una giurisprudenza dell’intenzione originaria riflette una profonda adesione all’idea di democrazia. La Costituzione rappresenta il consenso che il popolo ha espresso nei confronti delle istituzioni e dei poteri del governo. La Costituzione è la volontà fondamentale del popolo: ecco perché è la legge fondamentale.

Scalia ha perfezionato e sviluppato all’interno delle prassi proprie della giurisprudenza, il senso «politico» dell’originalismo e del testualismo.

L’originalismo oltre a essere un metodo interpretativo è una teoria sulla genesi dell’obbligazione politica, fondata su due assiomi:

primo: in un sistema democratico imperniato sulla separazione dei poteri, l’autorità di legiferare spetta ai rappresentanti investiti della legittimazione popolare;

secondo: gli individui osservano le regole perché ne riconoscono la legittimità, e ne riconoscono la legittimità perché hanno avuto parte, diretta o indiretta, nella loro formazione.

I giudici devono quindi applicare lealmente le leggi, lasciando che sia l’elettorato a premere per una loro modifica là dove esse dovessero risultare inadeguate. Si tratta, in altre parole, di mantenere viva la ripartizione di poteri e responsabilità tra elettori, eletti e magistrati, senza accedere a un modello che potrebbe invece definirsi «collaborativo», ossia uno in cui, semplificando, l’istituzione giudiziaria sia parte attiva della promozione del cambiamento sociale.

Questa impostazione è stata considerata nell’ultimo trentennio del secolo scorso una pratica ad alto tasso di conservatorismo, considerando però che nei parametri moderni degli ultimi anni andrebbe distinto il conservatorismo politico-partitico dal conservatorismo proprio delle attitudini giudiziali.

In un discorso tenuto all’Università Gregoriana di Roma nel 1996, Scalia affermò che il ricorso alla tradizione del diritto naturale è incompatibile con un sistema democratico, giacché autorizzerebbe i giudici a imporre alla maggioranza della popolazione ciò che questa potrebbe non volere. Venti anni dopo, proprio qualche giorno prima di morire ribadì ancora il concetto: “[…] Non ci si può sottrarre al dettato della legge. Questo condurrà a un mondo perfetto? Certo che no: alcune leggi sono stupide, e alcune sono malvagie; ciò, però, condurrà a un mondo migliore di quello in cui i giudici sono liberi di applicare la loro idea di diritto naturale ed equità. Il primato del diritto sarà sempre secondo al primato dell’amore, ma dobbiamo lasciare quest’ultimo per il prossimo mondo […]”

È opportuno chiarire che l’originalismo/testualismo, come lo stesso Scalia ha sempre riconosciuto, non è in verità una sua invenzione. L’idea che il significato delle parole della legge sia fissato al momento dell’adozione della legge stessa, e che quest’ultima possa essere modificata solo per via legislativa, era dominante nel primo abbondante secolo di giurisprudenza statunitense.

A partire dalla New Deal Revolution, però, l’originalismo/testualismo perse importanza, per poi apparentemente tramontare del tutto durante gli anni sessanta per un’idea di una giurisprudenza propositiva verso una legislazione avente un orientamento teso ad una ridefinizione positiva dei diritti civili e sociali e nelle relazioni istituzionali tra gli Stati e gli organismi federali.

Scalia, invece, ridette vita nuova a ciò che fu obliato nelle pratiche giuridiche e negli studi dottrinali. Durante i suoi trent’anni alla Corte suprema, infatti, soltanto lui e Thomas (due giudici su nove) impiegavano coerentemente la metodologia testualista e originalista. Oggi, dopo poco più di cinque anni dalla sua morte, è l’orientamento prevalente nella Corte (cinque su nove).

In questo libro sono trattati gli sviluppi, le critiche e la messa a punto dell’impostazione testualista e originalista e si rimanda alla lettura del testo, che è redatto da copiosi contributi ben sintetizzati.

Quello però che potrebbe interessare un lettore italiano, che vive in una Repubblica orleanista e non basato sul Common Law (orale) del Commonwealth e di quello scritto che è proprio degli USA, è il rapporto che potrebbe avere l’approccio di Scalia nella comparazione con l’approccio che noi abbiamo con il diritto.

Luigi Mengoni ritiene che l’approccio di Scalia sia distante dalle posizioni del normativismo puro che riduce l’interpretazione ad una attività che coglie significati normativi già compiutamente precostituiti e immutabili, ritenuto non sostenibile, perché il giudice partecipa comunque al processo di formazione del diritto, attraverso un atto di decisione che individui, fra i vari possibili, il significato normativo applicabile al caso in questione. D’altro canto, il vincolo letterale delimita il senso del testo. In altri termini “[…] l’interpretazione resta subordinata alla legge, in quanto circoscritta dal vincolo di congruenza con le parole del testo e con la razionalità complessiva in cui la decisione deve integrarsi […]”

Dalla valutazione del giurista Mengoni si potrebbe ritenere che tutto ciò sia il vero intendere di Scalia che è quindi inscrivibile nella cultura giuridica italiana.

Un altro giurista Nicolò Zanon, invece, argomenta che Scalia abbia portato una procedura di trasparenza: “[…]  «mentre negli Stati Uniti il dibattito sulle teorie dell’interpretazione pare assai vivace, […] ed è quindi sintomo di un pluralismo assai ricco», nella dottrina italiana manca «altrettanta vivacità di pensiero» e pare, anzi, che in essa si diano un po’ per scontate tante cose. Un atteggiamento vagamente «neocostituzionalista», un’adesione tendenzialmente acritica a teorie interpretative per «valori», senza alcuna consapevolezza di quel che le teorie dei valori sono e implicano, l’esaltazione di ogni scelta giurisprudenziale, la quale deve, ovviamente, ampliare l’area dei diritti dell’individuo («più diritti per tutti»), la conseguente adesione, spesso acritica, a tutto ciò che la giurisprudenza decide, meglio se in contrapposizione a ciò che il legislatore voleva. Con scarsa consapevolezza delle implicazioni politico-costituzionali di quel che si sostiene. Ed è possibile che questa scarsa vivacità finisca per riflettersi anche sulla giurisprudenza costituzionale, che non viene stimolata o criticata su questi terreni, e perciò non vi si impegna[65] […]”

Vi è, quindi, nel dibattito attuale un dissidio tra una visione «maggioritarista» di Scalia che intende il giudice impotente, rispetto all’operato delle maggioranze che hanno il compito di definire soluzioni nuove a problemi non coperti dalla legge, a quella che ritiene la funzione giudiziaria necessariamente impegnata a interpretare e rendere concrete le aspirazioni di rinnovamento sociale, attraverso l’organo giudiziale.

I due poli suddetti se presi alla lettera avrebbero la conseguenza o di creare una struttura giudiziale che diventerebbe o un puro meccanismo di trasmissione di parole di ordine politico, o un ceto detentore del vero interpretare i processi sociali per coordinarli, con il rischio di generare una struttura a dir poco dittatoriale.

All’interno di questi dibattiti, più che mai attuali, in particolar modo relativi all’aborto, all’eutanasia, alla nozione di nucleo famigliare, ai nuovi spazi di azione tra l’individuo e l’ambiente e tra l’individuo e le strutture amministrative locali e nazionali, le impostazioni metodologiche e le indicazioni operative di Antonin Scalia si caratterizzano per un approccio prevalentemente pragmatico con la concezione del carattere «limitato» delle Costituzioni, così da riscoprire la maggiore flessibilità dello strumento della legge ordinaria.

La ricchezza degli argomenti definiti da Scalia, si esprime nel sollecitare nuovi modi nel porsi domande circa le relazioni tra la giustizia, la democrazia e la mutevole ridefinizione del bilanciamento tra i poteri.

§CONSIGLI DI LETTURA: LA VOCE DEL PADRONE

La Voce del Padrone, di Stanislaw Lem (Autore),
Vera Verdiani (Traduttore), 2022, Mondadori, Milan
o

[La sfida: ecco il tuo specchio personale: guardati…. fino in fondo. ]

Il singolo e l’umanità che si spogliano innanzi allo specchio. Lo scrittore e il protagonista si presentano all’inizio in un gioco di riflessi fino a coincidere in una forma che ripropone il passato, vero per il primo, inventato per l’altro. Nel futuro, ricostruendolo, comprendono l’intimità più nascosta della loro natura. Capaci entrambi, immorale il primo, severo il secondo, incline a seguire le sirene della vanità e dell’orgoglio.

Pregevoli le prime pagine nell’offrire temi storici incastonati a questioni moderne, nel porre una loro analisi impietosa, cruda, ma onesta riferita a come il singolo cresca e si relazioni con la collettività e quindi ancora, per analogia, tra l’individuo e la sua rappresentazione immaginaria sociale. Il conflitto permane attraverso l’ipocrisia e il compromesso laido: le catene rivoltanti, ma efficaci per tenere in gabbia la crudeltà e la volontà di sopraffazione nel ritenere il mondo un oggetto nelle proprie mani.

Eppure il mondo risponde con un segnale che arriva dalle profondità dell’universo, costituito da un raggio neutrinico portante agglomerati di frequenze, ampiezze e fasi non casuali. Con fissi cicli di ripetizioni settimanali.

Il libro è stato scritto nel 1968 in piena guerra fredda e si descrive la ripetizione di un “Centro Manhattan” di scienziati che usano le tecnologie nucleari per decifrare e comprendere cosa sia questo flusso, da dove viene ed eventualmente intuire chi e cosa sia il mittente, e se comunica qualcosa: il relativo messaggio.

Il protagonista, un grande matematico, con riluttanza accetta la chiamata. E qui inizia un percorso biennale nel tentativo di capire qualcosa in merito. L’attività è dissimulata rispetto al pubblico ed entro questo centro tantissimi gruppi di scienziati sono posti di in condizione di lavorare uno in modo indipendente dall’altro. Il protagonista descrive le meschinità, le aspirazioni e le bassezze dei suoi colleghi, tra i quali anche lui ci si mette come grande saggio e conoscitore della (propria) meschinità.

E in più si passa ai politici e ai ministri di governo, che assieme ai militari, sono preoccupati di eventuali minacce extraterrestri, dalla possibilità di dover gestire la conoscenza di altre società intelligenti e forse più evolute da parte dell’opinione pubblica e ancor di più di dover dire che l’intelligenza umana e forse la stessa specie umana, siano un prodotto di qualche altra forma di vita.

È un libro formidabile perché attraverso i tentativi di decifrazione la narrazione, in una forma di monologo interiore retrospettivo, tramutato in forma di diario, che si traveste come in un gioco degli specchi in un diario intimo, analizza in modo epistemologico gli approcci scientifici nell’accostarsi questo mistero.

Attraverso le attività dei singoli scienziati, dai biologi, dai fisici, dai matematici, dagli ingegneri, dai chimici, vengono sviscerate (sì proprio nel senso di scarnificare) senza indulgenza i pregiudizi, gli stereotipi di fondo, gli assunti infondati, i precetti di fede nell’intendere la propria attività di ricerca, il senso del mondo, e le domande che riducono il flusso neutrinico secondo la propria visione limitata della realtà.

Il flusso neutrinico è un solo messaggio? Oppure è una struttura che ha all’interno gli stessi comandi per creare qualcosa di inedito? Sono più messaggi? È rivolta a noi o è di passaggio? È un brandello di qualcosa di più complesso? E poi non potrebbero essere caratteristiche della fisica a noi sconosciute? E ancora esisterebbero veramente esseri viventi come mittente? E chi lo ha detto che sia emanato da qualcosa che noi definiamo intelligente?

Queste sono le prime domande che via via nei capitoli assumono un senso filosofico, in cui si argomenta circa la limitatezza dell’essere umano, dei nostri modi di ragionare, sul senso del nostro mondo, e della nostra esigenza di demarcare l’inconoscibile. E in più il gran dilemma su ciò che è il mistero e di come noi si possa esserne parte.

Il terrore e l’orrore, la speranza e la gioia, il senso dell’angoscia e del timore.

È un romanzo che non ha una trama lineare. Non va letto in modo rilassato. È un libro che sfida il lettore e lo invita a guardarsi di fronte allo specchio, dicendo che la prima immagine che vedi è la prima bugia che ti sei creato.

La prima pagina è una porta in cui vi è un segnale che indica una via per conoscere noi stessi, senza sconti. Sono argomenti che ci sfidano e interrogano il lettore, il quale se accetta la fatica del rispondere all’invito, sicuramente avrà più punti di vista in regalo per poter parlare di sé e del futuro.

§CONSIGLI DI LETTURA: LA CERTOSA DI PARMA

La Certosa di Parma / Stendhal
traduzione di Ferdinando Martini – Milano-Verona : A. Mondadori , 1930,
– (Biblioteca romantica / diretta da G. A. Borgese ;
1)

Tanto è stato scritto riguardo a tale capolavoro che divenne un classico, per impostare le trame, tra intrighi dei potenti (nobili, proprietari terrieri, banchieri, clero) e nuovi attori che dalle guerre napoleoniche apparvero come soggetti autonomi nei racconti e nei romanzi: il popolo, gli intellettuali d’assalto. E ancor di più, la messa in questione tra la lingua, il popolo, il regno, il territorio, la libertà e l’autonomia giuridica.

La guerra non fu più solo intesa come una espansione territoriale e imperiale, perché si volle rendere visibile una nuova equazione geografica tra lo Stato e il regno, il ducato e il principato, con il popolo che è ora caratterizzato da una omogeneità culturale e linguistica. Ciò fu inteso come una proiezione, non la realtà di fatto di quel tempo.

Stendhal (ovvero Marie-Henri Beyle) partecipò alle guerre rivoluzionarie e poi napoleoniche. Attraversò anche il territorio italico, e qui soggiornò nei diversi regni conquistati. Conobbe gli italiani, ma non quelli che noi riteniamo tali oggi. No: gli italiani che erano dell’Impero Austriaco, del Regno Sabaudo, del Granducato di Toscana, dei Regni Pontifici, dei vari ducati di Parma e di Modena, e così via.

I potenti si sentivano sì italiani, ma come un’unione (e non un’unità) culturale che derivava da una radice storica per i vari dialetti in una lingua che si formò dal latino. Noi oggi riteniamo scontata a livello formale (non sostanziale perché molti stereotipi li abbiamo anche oggi e li consideriamo reali e viventi tra di noi) l’unità linguistica e giuridica dei soggetti nel territorio, tra l’individuo e le istituzioni, le norme e la cultura, all’interno di un territorio ben delimitato che ha una prassi del diritto pubblico. Oggi vi è la legislazione formale che associa a un territorio omogeneo quella unità di analisi detta “popolo”.

È un tema più che mai attuale, specialmente per noi, qui in Italia, abituati a un paese lungo, costeggiato dal mare, che si sente tale perché omogeneo, credendo quindi che altrove sia così.

I parmensi si vedevano magari più vicini al Granducato di Toscana che al regno Sabaudo, più vicini all’imperatore D’Austria che allo Stato Pontificio. E tutti guardavano molto male il Regno delle Due Sicilie, che poi fu anche Regno di Napoli, ove al suo interno vi erano amministrazioni territoriali diverse, come quelle tra le isole, le capitanate, e i grandi centri metropolitani.

Stendhal ne fu un testimone diretto, infatti parla molto di noi, comparando il modo di agire dei popoli italici sia a livello “alto” sia a quello “popolare”.

È un romanzo moderno, e non è un caso che altri scrittori come Alexander Dumas ne abbiano attinto per ricavare spunti relativamente alla prigionia, alle questioni relative alle guerre intestine in Italia, e alla figura della donna. Le protagoniste femminili, dalle duchesse alle cameriere, agiscono in piena autonomia cognitiva e di azione nel rapportarsi ai corrispettivi maschili. Le donne ragionano in modo sottile sulle tecniche di comunicazione e di interpretazione circa gli eventi e i processi mentali dei maschi. Ciò è una novità rispetto ai romanzi del settecento, dove vi sono donne eroiche, abili, perfide, intelligenti, capaci, ma queste dipendevano in primo luogo dall’emotività e dal vizio. Si praticava un approccio laico della visione religiosa secondo la quale, una donna capace è una strega che è serva del demonio.

Nel romanzo le donne eticamente sono sullo stesso piano, sia le figure negative sia quelle commendevoli rispetto agli uomini. Certo vi è l’amore romantico che tenta di sublimare i contrasti e Stendhal che seguiva il suo pubblico, veicola la trama secondo questa logica, anche in modo affrettato, rispetto alla complessità delle descrizioni e degli eventi narrati nella prima parte del romanzo. Ciò dipende anche dalla necessità di ricavi monetari per la distribuzione dei romanzi, pubblicati a puntate nelle riviste settimanali o mensili. Ecco perché ogni tanto si rilevano ripetizioni e riassunti degli eventi. O talvolta vi siano stacchi netti da una scena all’altra. E forse per motivi contrattuali, o personali, Stendhal ebbe fretta di finire.

Occorre considerare che lui tra la vita militare e di corte, partecipò a vicende dure, rocambolesche, con alti e bassi, vivendo da nomade. Per quanto riguarda la descrizione delle battaglie e delle rivolte, siamo nel periodo dopo Waterloo: quello che va dalla restaurazione fino ai moti del 1830. Il libro è ambientato in un periodo di apparente ritorno alla tradizione, ma si vede come i nobili oramai avessero il terrore del “popolo” che appariva sempre più una espressione di interessi diversi e articolati. Il periodo di “pace” in realtà fu una pentola a pressione di conflitti che emersero momentaneamente a livello locale.

Stendhal era innamorato degli italici e del loro modo di agire. Vi sono, infatti, richiami alle loro modalità di comunicazione e di relazione. Nel romanzo vi sono ripetute comparazioni rispetto ai popoli nordici. La lettura di quest’opera è anche un’occasione per rilevare come ragionassero e si vedessero gli italici lombardi sotto l’Austria, i nobili dei vari ducati, l’aristocrazia e il popolo sabaudo.

La bellezza delle sue opere risalta anche nel modo in cui esprime i sentimenti e le riflessioni interiori dei personaggi, in un modo delicato conducendo per mano il lettore, mostrando infatti la causa delle loro azioni successive. La narrazione, a parte gli stacchi, derivati dalle puntate sulle riviste, segue un filo logico lineare all’interno di più storie parallele. E su questo è un autore superlativo. Una forza della natura, data anche la sua vasta produzione letteraria.

Rispetto ai nostri giorni si rileva un pudore nel mostrare scene scabrose di sesso, di violenza e di guerra. E ricordiamo che lui la guerra la fece per davvero. Non è un caso che alcune descrizioni dei campi di battaglia siano dirette, sintetiche, scarne, ma efficaci, appropriate, ed evocate con poche parole. Eppure non calca la mano. In certi casi, relativamente alla malattia, alle ferite, al sangue e allo sporco, il suo timbro è veloce, da apparire tenue ed ovattato. Ciò dipende in primo luogo dalla sua sensibilità. Era una persona curiosa, che voleva apprendere, leggere e migliorarsi. Man mano negli anni divenne sempre più sofisticato: sapeva vivere nel quotidiano e a corte. Anzi era addirittura severo con alcuni ambienti nobili e letterari per la superficialità.

L’uomo sacrificava lo scrittore per non apparire eccessivamente “volgare”. In generale, però, la sensibilità del tempo era molto più vicina alla malattia e alla guerra che offendono il corpo rispetto ai contemporanei. Non vi erano riflessioni riguardo la relazione tra il conflitto e la carneficina. Noi, e oggi diremmo fortunatamente, siamo molto più sensibili al dolore e alla presenza del cadavere, del caduto in guerra putrescente, all’amputazione e alla menomazione.

La morte non era configurata come un elemento astratto, ma si individuava nel fato che portava le malattie, e nello scontro tra ladri, malfattori e militari. Però Stendhal ci informa di un primo slittamento semantico: le guerre napoleoniche causarono vere e proprie stragi di massa che, per quei tempi, corrispondevano a devastazioni continue e generalizzate, e non più a scontri individuati in luoghi precisi. La razzia e l’attacco ai civili non fu più una conseguenza della disfatta e dell’occupazione, ma una tecnica complementare all’azione della battaglia. Gli eserciti si specializzarono distaccandosi sempre più dai civili, i quali divennero un obiettivo tattico.

La “Certosa di Parma” fu una miniera di spunti per i grandi romanzi dei decenni successivi in ordine alle guerre, alle avventure di corte tra gli amori e gli intrighi e alle nuove determinazioni delle politiche e delle relazioni internazionali.

Più di tutto, però, perché Stendhal scrive in un modo meraviglioso: mai un predicato o un aggettivo fuori posto, mai descrizioni ridondanti, a parte i raccordi delle puntate editoriali. Si respira aria di letteratura montana: aria fresca e corposa che riempie i polmoni.

§CONSIGLI DI LETTURA: BRIGATE RUSSE. LA GUERRA OCCULTA DEL CREMLINO TRA TROLL E HACKER

Brigate Russe. La guerra occulta del Cremlino tra troll
e hacker di Marta Ottaviani, Ledizioni, Milano,  2022

Questo libro è necessario sia letto, perché è un esempio pratico dell’esercizio dell’onestà intellettuale applicata al codice deontologico di un giornalista, di colui e di colei che democraticamente offre spicchi dell’oceano diveniente del reale, in notizie e fatti tendenzialmente coerenti e ben argomentati, all’interno di uno spirito che rispetta il pubblico in una agorà democratica,

È stato concepito e realizzato dopo anni di studio e di ricerca e pubblicato appena prima della tragedia in corso, dovuta all’invasione dell’esercito russo nel territorio ucraino.

L’autrice Marta Federica Ottaviani si interroga sul suo lavoro, e da questa analisi impietosa offre uno squarcio sul processo di creazione della notizia e del dato, che è il luogo dove identifichiamo le nostre convinzioni e giudizi sul mondo.

La responsabilità attiene a un criterio di testimonianza del proprio lavoro, che è tale perché dignitoso nell’offrire il tempo che scorre, incarnato in eventi, sul quale accostiamo le nostre parole per ricostruire continuamente la nostra biografia.

L’elemento contingente è riferito alla strategia di guerra intrapresa da anni dall’attuale regime russo nel produrre notizie false, giudizi che descrivono il mondo in assetti artefatti, minare e orientare il consenso delle popolazioni estere all’interno delle proprie controversie partitiche, relative alla redistribuzione economica e alla politica estera.

In questo libro si respira aria trasparente e non offuscata da linguaggi sotterranei: mostrare a nudo il proprio operato nello scopo di porsi al servizio del pubblico, e non a considerarlo un oggetto di manipolazione, fino a usarlo indirettamente uno come strumento di guerra.

Non è solo una questione di Menzogne (o volgarmente fake-news). Il giornalista che reperisce le informazioni per produrre le notizie e il pubblico correlato, è sottoposto alla questione delle fonti, che a differenza del passato, non ha il rischio della penuria, quanto una sovrabbondanza illimitata, dove però sotto sotto vi è una ripetizione e un rimando continua da una all’altra. Il giornalista, se ha un’agenda ricca, come scrive Marta Federica Ottaviani, è una buona cosa. Oggi il giornalista ha a disposizione più documenti, gestiti da enti diversi (in teoria), più soggetti giuridici e persone con le quali richiedere le storie, i fatti, i documenti, i testi (cartacei, audiovisivi, digitali) in un’ottica comparativa. La loro massa, però, non è sufficiente a porre un giudizio di verosimiglianza rispetto a ciò che si pubblica.

I soggetti possono produrre notizie false, ridotte, censurate, disposte in modo artefatto. I mezzi di comunicazione di massa, ora, con i nuovi assetti tecnologici, oltre a moltiplicare la quantità sterminata delle note che informano un fatto, producono linguaggi e codici che viaggiano su forme di comunicazione inedite.

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Un altro aspetto, non distaccato, ma concomitante e integrato ai nuovi istituti atti alla produzione del fatto, dell’informazione, e del dato, riguarda la relazione tra essi, che non è più solo di semplice logica “vero-falso”, o di una catena binaria di causa ed effetto. Le dimensioni aumentano, e si incrociano, sicché il fatto sottende strutture informative evidenti e nascoste. La notizia non è più solo veicolo di comunicazione, ma sostanza. È la stessa struttura concreta del mondo dei giudizi che lotta all’interno di valori orientati verso fini e intenti emergenti in modo acefalo, o indotti dai cosiddetti “Stati Profondi” in competizione tra loro, sia all’interno di un organismo statale propriamente detto sia contro altri stati nel senso classico con il quale li intendiamo.

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Attraverso i mestieri di reporter, di ricercatore e di investigatore, Marta Ottaviani offre lenti di ingrandimento e codici di decifrazione di questo oceano in mutamento nell’indefinita moltiplicazione nei suoi effetti. Di più: con le cosiddette “intelligenze artificiali” (locuzione oramai metaforica che indica in questo caso la rete delle strategie manipolative) si hanno applicazioni sconosciute nella loro configurazione e nei loro effetti, da parte dell’opinione pubblica. E anche dal singolo che le realizza. Tutto ciò fa parte delle istituzioni immaginarie del senso che le società da sempre lasciano trasparire. Il punto però è che ora l’immagine è forzata a intesa come <realtà>. Il senso del mondo, dei buoni e dei cattivi, del tempo e della memoria, dura e ha valore solo all’interno di quella notizia, e rimane lì da solo, per lasciare il passo al successivo.

Ogni contingenza, essendo artefatta come totalità, permane esclusivamente per mezzo della violenza portata dal linguaggio assertivo che nasconde volutamente le sue premesse. Non si hanno soluzioni di continuità. Solo strappi di memorie e di giudizi, che vengono sparati come pallottole: è una guerra. È una guerra che dura da anni e che continua.

8-9 “[…] Il testo consta di quattro parti. La prima aiuta a collocare il fenomeno dal punto di vista storico e geopolitico. La seconda è dedicata alla cyberwar degli hacker, inclusi tutti i tentativi fatti per destabilizzare alcuni Paesi, soprattutto gli Stati Uniti. La terza è dedicata ai troll e a come vengono utilizzati i social per manipolare l’opinione pubblica e mettere in difficoltà gli avversari. La quarta, infine, è dedicata alla propaganda di Stato, più o meno esplicita. Un soft power che però, inteso nell’accezione russa, mira a far ritagliare spazi di manovra sempre più alti. Perché, mentre leggevo il materiale da cui è nato questo libro, una cosa l’ho capita subito: la Russia ha un modo di chiamare e interpretare i fenomeni tutto suo, spesso in netto contrasto con quello dell’Occidente. Per questo, il testo è diviso in quattro parti. L’obiettivo è descrivere l’approccio di Mosca alla Guerra del Terzo Millennio nel modo più esaustivo possibile. Si tratta, però, di un sistema di vasi comunicanti, che nella sua azione va avanti in contemporanea […]”

Il libro è dotato di precisa e puntuale bibliografia. Offre l’occasione per interrogarci su noi stessi, sulle sfide che stiamo affrontando ora e per quelle del prossimo futuro. Solo negli ultimi due anni siamo stati manipolati e bombardati da false notizie relative al Covid, ai vaccini, alle cause della pandemia, o all’offerta di teorie “complottiste” che hanno poi in fondo la caratteristica di deresponsabilizzarci e semplificare la realtà, individuandola sempre in un comitato notturno di figuri che ci vuole annichilire. Certamente esistono i nemici o attori che sono direttamente in conflitto contro di noi a livello economico, politico e strategico. Quello che bisogna avere in mente però, è che non è detto che questa guerra sia a capo di un pazzo, o di un mister x nascosto, che voglia annullarci: vi sono più attori, più cause, e i fini non sono univoci e immediati. Inoltre noi stessi possiamo essere uno strumento che paradossalmente va potenziato ed eterodiretto. Il rischio è quello trascorrere una vita a parlare per bocca di altri, inchiodati a pensieri e visioni del mondo monche, deficitarie, pericolose per noi stessi e gli altri.

§consigli di lettura: CAVOUR IL GRANDE TESSITORE DELL’UNITA D’ITALIA





© 1984 by Denis Mack Smith © 1984 Gruppo Editoriale Fabbri, Bompiani, Sonzogno, Etas S.p.A.

© 1996/2010 RCS Libri S.p.A., Milano eISBN 978-88-58-76113-7 Prima edizione digitale 2013 Titolo originale: CAVOUR Traduzione di GIOVANNI ROSSI In copertina: Camillo Benso di Cavour in un ritratto di Hayez.

Il libro promette di svelare integralmente la personalità di Camillo Benso Conte di Cavour, ma forse è lui che sta svelando il nostro lato oscuro dello specchio.

Denis Mack Smith mostra quanto sia giovane l’Italia, ma noi italiani, nel leggerlo, avvertiamo di essere molto più antichi e infinitamente più complessi delle rappresentazioni offerte dall’opinione comune.

È un libro che ha avuto un enorme successo, quando fu pubblicato nel 1984. La storiografia da allora è andata avanti, perché mostra la limitatezza dei processi storici del periodo attorno alla figura di Camillo Benso Conte di Cavour. Lo stile è scorrevole. Non è un mero resoconto, perché sembra quasi un romanzo biografico, benché sia corredato da fonti autorevoli. Lettere, diari e i documenti degli archivi di Stato. La narrazione è basata sulle fonti dirette fornite dai protagonisti del tempo e dagli studi successivi dopo la morte di Cavour, passando per la rilettura del periodo fascista a quello successivo alla seconda guerra mondiale. Anche se alcuni archivi furono negati alla consultazione, i riferimenti incrociati permisero a Denis Mack Smith di percorrere le vicende pubbliche e private di Cavour assieme alle tendenze di lungo periodo che ancora oggi subiamo qui in Italia: dalle relazioni costituzionali e amministrative conflittuali tra gli organismi nazionali e quelli locali; dalle differenze linguistiche, economiche, sociali delle popolazioni italiche, dovute alle dominazioni dei differenti imperi e regni esteri, da vincoli economici come la mancanza di materie prime. Nonostante che nella minoranza esigua della popolazione ci fosse una comunanza storica e culturale verso un passato che il processo risorgimentale stava ricostruendo e ancor di più usando come mito dopo le guerre di indipendenza, la penisola italica era peculiare agli occhi altrui per la disorganizzazione e la parcellizzazione delle esigenze e delle rivendicazioni, e per un analfabetismo endemico, se rapportato alle nazioni del nord, e per una povertà spaventosa, da rasentare condizioni di servitù quasi medievali.

La vita di Camillo Benso conte di Cavour è una sonda che svela tratti di noi italici ancor oggi attuali. La sua vita nel corso degli anni, per le cariche assunte, era totalmente pubblica in sintonia con il suo presente, al centro dei conflitti europei. Fu una figura complessa e ambivalente, per l’eterogeneità delle valutazioni espresse dai regnanti, dai diplomatici e dai politici italiani ed esteri. Si avverte una sensazione di incompiutezza nelle descrizioni. Lo sconcerto deriva dalla condizione che indirettamente anche noi lettori siamo implicati in quei giudizi espressi.

Nel testo mancano riferimenti bibliografici diretti: solo nelle ultime pagine sono spiegate le modalità di reperimento. Da un punto di vista rigorosamente storico, ciò farebbe storcere il naso a lettori attenti, ma lo stesso autore spiega che in altri suoi libri vi sono note più puntuali associate ai documenti originali del periodo. Il libro è composto da più piani di lettura: una biografia quasi romanzata che permette di avere una visione panoramica di tutti gli altri attori; una stesura di valutazioni delle luci e delle ombre del risorgimento in rapporto alle vicissitudini di Cavour, che però non sono meramente psicologiche o morali, perché afferiscono a documenti storici pubblicamente consultabili. Infine, vi è una continua riflessione sul modo di leggere gli eventi, gli uomini e le donne di quel periodo, sia dal punto di vista del lettore sia dalle possibilità ulteriori per la ricerca storica, sia per l’agone politico odierno.

Introduzione  “[…] Queste vittorie furono conquistate contro avversità di ogni specie, e sono tanto più stupefacenti, in quanto il Piemonte di Cavour era uno Stato piccolo, dotato di scarsi mezzi. Non solo egli superò le difficoltà frappostegli dall’opposizione interna piemontese, ma tutti gli altri Stati italiani, malgrado ristrette minoranze fossero talvolta disposte ad aiutarlo, avversarono vigorosamente la sua opera. Uno dei risultati fu che il Risorgimento, lungi dal risolversi totalmente in una lotta contro l’oppressione straniera, fu anche una serie di guerre civili, le quali fatalmente lasciarono aperte ferite che non sarebbe stato facile sanare. Cavour ottenne grandi successi nel raccogliere adesioni al nuovo Regno, ma talune divisioni interne si rivelarono irriducibili: non soltanto la divisione tra conservatori e radicali in politica, ma quelle tra Chiesa e Stato, tra proprietari terrieri ricchi e contadini poveri, tra le più prospere regioni settentrionali e la miseria del sud. Tirate le somme, l’unificazione italiana fu un grande successo. Ma alcuni fallimenti collaterali lungo il cammino sono un elemento essenziale del quadro, e pongono in rilievo in tutta la sua pienezza il trionfo finale. Talvolta Cavour parve trovarsi sull’orlo del fallimento totale; talaltra compì quelli che per sua stessa ammissione erano errori di giudizio, ed impiegò metodi che sapeva sarebbero stati considerati disonorevoli; qualche volta, quando le circostanze sembravano congiurare contro di lui, parve in balìa degli eventi. L’abilità di Cavour si può valutare, giustamente, tracciando non soltanto i successi ma anche le difficoltà, le incertezze, gli sbagli, nonché ciò che lui stesso chiamò «la parte meno bella dell’opera». Ma la capacità di porre rimedio agli errori e di sfruttare a proprio vantaggio condizioni avverse era un ingrediente essenziale della sua suprema arte di statista. Nessun uomo politico del secolo – sicuramente non Bismarck – seppe realizzare tanto muovendo da così poco. Fu sventura gravissima ch’egli non vivesse abbastanza a lungo per poter applicare la sua abilità e la sua intelligenza ai problemi iniziali del Regno alla cui creazione aveva contribuito in misura tanto rilevante. […]”