Archivi categoria: Guerra fredda

§CONSIGLI DI LETTURA: LA PORTA

La porta di Magda Szabò (Autore), Bruno Ventavoli (Traduttore), 2014, Einaudi, Torino, ( Prima ed: Az ajtó, 1987)

È una crepa nel presente che cresce come un vortice, attirando moti d’aria e d’attenzione, perché non si può smettere di leggere. I personaggi sono introdotti con indizi che a mo’ di esca, attraggono e seducono, evocando una irresistibile curiosità.

Gli eventi e i luoghi sono sorgenti di misteri che veicolano la narrazione. Anche rimanendo tali, li sentiamo scandire il ritmo delle vicende.

La descrizione dei personaggi si accompagna ai loro atti e alla osservazione partecipante dell’autrice che è una dei partecipanti. Si è nel dubbio se la scrittrice stia rievocando la sua biografia, o se sia una inventata. In ogni caso, le protagoniste si sdoppiano nell’offrire un diario degli eventi. I quali a loro volta viaggiano in un binario esterno cronologico e uno interiore che curva e si torce nelle storie di vita accadute di ognuno.

Nonostante i rimandi e le spirali, non si hanno sensazioni di pesantezza nel voler definire un ordine logiche di cause che scateneranno nuovi sommovimenti. Anzi, il lettore è invitato a supporli amplificando una ricca offerta di climax nella narrativa.

È una magnifica prova di scrittura per Magda Szabò, non a caso ritenuta una delle scrittrici ungheresi più autorevoli del ‘900. Dovette subire decennali e multiple forme di censure, resistendo comunque, attraverso un’incessante opera di libera divulgazione, tesa a scandagliare i processi più profondi dell’animo umano, correlati a precise e tragiche vicende storiche.

La storia delle protagoniste è anche uno specchio della storia del popolo ungherese, con rimandi continui tra gli anni e i secoli. L’inconscio di una bimba è quella di un popolo, e ogni ciclo famigliare costituisce una individuazione del corso di crescita dell’Ungheria.

4-6  “[…]. I miei sogni sono assolutamente uguali, tessuti di visioni ricorrenti. Sogno sempre la stessa cosa, sono in piedi, in fondo alle nostre scale, nell’androne, mi trovo sul lato interno del portone con il telaio d’acciaio, il vetro infrangibile rinforzato di tessuto metallico, e cerco di aprirlo. Fuori, in strada, si è fermata un’ambulanza, attraverso il vetro intravedo le silhouette iridescenti degli infermieri, hanno volti gonfi, innaturalmente grandi, contornati da un alone come la luna. La chiave gira nella serratura, ma i miei sforzi sono vani, non riesco ad aprire il portone, eppure so che devo far entrare gli infermieri altrimenti arriveranno troppo tardi dal mio malato. La serratura è bloccata, la porta non si muove, come se fosse saldata al telaio d’acciaio. Grido, invoco aiuto, ma nessuno degli inquilini che abitano sui tre piani della casa mi ascolta, non possono farlo perché – me ne rendo conto – boccheggio a vuoto come un pesce, e quando capisco che non solo non riesco ad aprire il portone ai soccorritori, ma sono anche diventata muta, il terrore del sogno raggiunge il culmine. A questo punto vengo risvegliata dalle mie stesse urla, accendo la luce, provo a dominare il senso di soffocamento che mi assale sempre dopo il sogno, intorno ci sono i mobili conosciuti della nostra stanza da letto, sopra il letto l’iconostasi di famiglia, i miei avi parricidi che indossano i dolman con gli alamari secondo la moda del barocco ungherese o del biedermeier, vedono tutto, capiscono tutto, sono gli unici testimoni delle mie notti, sanno quante volte sono corsa ad aprire la porta agli infermieri, all’ambulanza, quante volte ho provato a immaginare, mentre udivo filtrare dal portone aperto il passo felpato di un gatto, o lo stormire delle fronde, invece dei noti rumori diurni delle strade ora ammutolite, che cosa succederebbe se un giorno lottassi invano e la chiave non girasse nella serratura. I ritratti sanno tutto, in special modo ciò che mi sforzo di dimenticare, che ormai non è più sogno […]”

Una governante e la padrona in perenne conflitto che ricercano comunque attraverso gli anni un universo coerente circa gli eventi subiti e immaginati, perché questi non cadono mai nel participio passato. Rimangono lì, modificando lo spazio, indirizzando i comportamenti, coltivando le superfici perennemente seminate di nuovi simboli.

L’ossessiva descrizione degli ambienti e delle persone fin nei minimi particolari, potrebbe instillare un pigro e sonnolento giudizio circa la dilatazione temporale delle storie. Quasi uno stato di indugio autocompiaciuto. In realtà ogni offerta degli scenari provoca uno slittamento semantico che ricompone un nuovo quadro di significato. S’aprono ulteriori direzioni che avvertono nuovi accadimenti in relazione con quelli accaduti.

La doppia riflessione su una narrazione che è già una strada di analisi, trasla ciò che è compiuto accostandolo a ciò che in quel momento è considerato l’attimo presente. Il passato si espande nel presente, ma non dilegua, perché lascia aperta una porta al lettore, illudendolo che sia il censore che finalmente risolve il dissidio, ma che in realtà diviene il vettore di una nuova strada possibile: cioè il futuro.

Gli oggetti, i luoghi apparentemente banali e i dialoghi di raccordo, d’improvviso evocano le guerre mondiali, quelle dell’ottocento, le dominazioni subite e inflitte ai confinanti. Le prime forme statuali emergono d’improvviso, come mattoni nello spazio in cui i protagonisti si muovono. Ogni famiglia è una comunità, e questa è un popolo. La città è la nazione ungherese e questa è parte dei popoli che in essa la attraversarono e che ancora lì sono presenti, tra i cimiteri, le nascite, le guerre, e le stagioni.

La governante è la padrona instaurano un dialogo ininterrotto, scambiandosi a volte il ruolo della coscienza che disvela, e quello dell’errante cieco, sordo e muto. Eroiche e malate entrambe. Ignare comunque di portare l’eredità di questa storia personale e collettiva, anzi di esserne loro stesse un simbolo che via via si accosta a tutti gli altri di questo percorso accidentato tra le porte, le serrature, e i muri: ostacoli prima, illusioni dopo, ed enigmi sempre.

33-34  “[…] Al momento del mio risveglio non la vidi in casa, né in strada quando partii per l’ospedale, ma il marciapiede scopato e sgombro di neve davanti al portone rivelava la presenza del suo lavoro. «Evidentemente Emerenc sta facendo il giro delle altre case», spiegai a me stessa mentre il taxi mi portava a destinazione; non ero piú angosciata, avevo il cuore leggero, sentivo che in ospedale mi aspettavano solo buone notizie, ed effettivamente fu cosí. Rimasi fuori fino all’ora di pranzo, rincasai affamata, sicura che lei fosse là seduta nell’appartamento e aspettasse il mio ritorno, ma mi sbagliavo. Mi trovai nella situazione, cui non ci si riesce mai ad abituare, di chi torna a casa e non trova nessuno curioso di sapere che notizie porta, liete o funeste che siano – l’uomo di Neandertal probabilmente imparò a piangere quando capí per la prima volta di essere completamente solo accanto al corpo del bisonte trascinato nella caverna, di non aver nessuno con cui condividere le avventure della caccia, nessuno cui mostrare il trofeo o le ferite subite. L’appartamento mi aspettava vuoto, la cercai dappertutto, chiamai il suo nome ad alta voce, semplicemente non volevo […]”

133  “[…] Emerenc, se mai credeva in qualcosa, credeva nel tempo: il Tempo, nella sua personale mitologia, era un mugnaio che macinava senza sosta nel suo mulino eterno e dosava la tramoggia degli eventi a seconda del sacco che le persone gli posavano davanti. Nella fede di Emerenc nessuno restava a mani vuote, nemmeno i morti, non capiva come, ma era convinta che il mugnaio macinasse anche il loro grano e riempisse i loro sacchi, solo che alla fine erano altri a caricarsi la farina in spalla e a portarla via per cucinare il pane […]”

Il tempo, la scrittura, il ritmo, e la porta: il grande ostacolo che in realtà è tale in base alle domande che il singolo si pone. Una sfida stimolante per il lettore, perché in questo romanzo è direttamente chiamato in causa, assieme alla sua intera biografia itinerante.

§CONSIGLI DI LETTURA: LA VOCE DEL PADRONE

La Voce del Padrone, di Stanislaw Lem (Autore),
Vera Verdiani (Traduttore), 2022, Mondadori, Milan
o

[La sfida: ecco il tuo specchio personale: guardati…. fino in fondo. ]

Il singolo e l’umanità che si spogliano innanzi allo specchio. Lo scrittore e il protagonista si presentano all’inizio in un gioco di riflessi fino a coincidere in una forma che ripropone il passato, vero per il primo, inventato per l’altro. Nel futuro, ricostruendolo, comprendono l’intimità più nascosta della loro natura. Capaci entrambi, immorale il primo, severo il secondo, incline a seguire le sirene della vanità e dell’orgoglio.

Pregevoli le prime pagine nell’offrire temi storici incastonati a questioni moderne, nel porre una loro analisi impietosa, cruda, ma onesta riferita a come il singolo cresca e si relazioni con la collettività e quindi ancora, per analogia, tra l’individuo e la sua rappresentazione immaginaria sociale. Il conflitto permane attraverso l’ipocrisia e il compromesso laido: le catene rivoltanti, ma efficaci per tenere in gabbia la crudeltà e la volontà di sopraffazione nel ritenere il mondo un oggetto nelle proprie mani.

Eppure il mondo risponde con un segnale che arriva dalle profondità dell’universo, costituito da un raggio neutrinico portante agglomerati di frequenze, ampiezze e fasi non casuali. Con fissi cicli di ripetizioni settimanali.

Il libro è stato scritto nel 1968 in piena guerra fredda e si descrive la ripetizione di un “Centro Manhattan” di scienziati che usano le tecnologie nucleari per decifrare e comprendere cosa sia questo flusso, da dove viene ed eventualmente intuire chi e cosa sia il mittente, e se comunica qualcosa: il relativo messaggio.

Il protagonista, un grande matematico, con riluttanza accetta la chiamata. E qui inizia un percorso biennale nel tentativo di capire qualcosa in merito. L’attività è dissimulata rispetto al pubblico ed entro questo centro tantissimi gruppi di scienziati sono posti di in condizione di lavorare uno in modo indipendente dall’altro. Il protagonista descrive le meschinità, le aspirazioni e le bassezze dei suoi colleghi, tra i quali anche lui ci si mette come grande saggio e conoscitore della (propria) meschinità.

E in più si passa ai politici e ai ministri di governo, che assieme ai militari, sono preoccupati di eventuali minacce extraterrestri, dalla possibilità di dover gestire la conoscenza di altre società intelligenti e forse più evolute da parte dell’opinione pubblica e ancor di più di dover dire che l’intelligenza umana e forse la stessa specie umana, siano un prodotto di qualche altra forma di vita.

È un libro formidabile perché attraverso i tentativi di decifrazione la narrazione, in una forma di monologo interiore retrospettivo, tramutato in forma di diario, che si traveste come in un gioco degli specchi in un diario intimo, analizza in modo epistemologico gli approcci scientifici nell’accostarsi questo mistero.

Attraverso le attività dei singoli scienziati, dai biologi, dai fisici, dai matematici, dagli ingegneri, dai chimici, vengono sviscerate (sì proprio nel senso di scarnificare) senza indulgenza i pregiudizi, gli stereotipi di fondo, gli assunti infondati, i precetti di fede nell’intendere la propria attività di ricerca, il senso del mondo, e le domande che riducono il flusso neutrinico secondo la propria visione limitata della realtà.

Il flusso neutrinico è un solo messaggio? Oppure è una struttura che ha all’interno gli stessi comandi per creare qualcosa di inedito? Sono più messaggi? È rivolta a noi o è di passaggio? È un brandello di qualcosa di più complesso? E poi non potrebbero essere caratteristiche della fisica a noi sconosciute? E ancora esisterebbero veramente esseri viventi come mittente? E chi lo ha detto che sia emanato da qualcosa che noi definiamo intelligente?

Queste sono le prime domande che via via nei capitoli assumono un senso filosofico, in cui si argomenta circa la limitatezza dell’essere umano, dei nostri modi di ragionare, sul senso del nostro mondo, e della nostra esigenza di demarcare l’inconoscibile. E in più il gran dilemma su ciò che è il mistero e di come noi si possa esserne parte.

Il terrore e l’orrore, la speranza e la gioia, il senso dell’angoscia e del timore.

È un romanzo che non ha una trama lineare. Non va letto in modo rilassato. È un libro che sfida il lettore e lo invita a guardarsi di fronte allo specchio, dicendo che la prima immagine che vedi è la prima bugia che ti sei creato.

La prima pagina è una porta in cui vi è un segnale che indica una via per conoscere noi stessi, senza sconti. Sono argomenti che ci sfidano e interrogano il lettore, il quale se accetta la fatica del rispondere all’invito, sicuramente avrà più punti di vista in regalo per poter parlare di sé e del futuro.

§CONSIGLI DI LETTURA: IL RISOLUTORE

Pier Paolo Giannubilo. Il risolutore. Una vita estrema, 2019, RIZZOLI LIBRI

La lettura di quest’opera entra direttamente nelle viscere di noi stessi, nel nostro inconscio collettivo, nel nostro recente passato.

Il libro offre uno specchio dell’Italia di ieri sera e di oggi sul terrorismo, sulle stragi, sulla guerra fredda e su quelle calde dei nostri giorni. I protagonisti e gli avvenimenti sono accaduti, tutti, nessuno escluso. Qualche nome è cambiato per evidenti ragioni, dovute al tema che è riferito alla memoria di un sottosuolo. L’Italia delle stragi e dei servizi segreti operativi anche all’estero.

Una intervista biografica trasformata in un romanzo, dove nello svolgersi della narrazione l’autore e il protagonista si compenetrano nei loro recessi emotivi e ancestrali, passibili di divenire un lato della nostra memoria collettiva inconscia. Se ci si inoltra nella lettura, il distacco emotivo è impossibile. Gli eventi arrivano dentro le viscere del lettore.

Pag. 265 “[…] Io mi sono buttato in quest’impresa con motivazioni da vendere, ma lui perché lo sta facendo? Perché lanciarsi senza paracadute in un coming out così azzardato, che metterà a repentaglio tutti i suoi rapporti personali? La sua versione è che ha deciso di rompere il silenzio per due ragioni. Primo, per riconciliarsi attraverso un atto di verità con se stesso, col prossimo e col Dio d’amore sulle cui tracce si è rimesso da anni – la penitenza pubblica di un cristiano delle origini, tanto più efficace quanto più pubblica. Secondo, per contribuire a «fare un po’ di luce su alcune questioni della nostra storia recente che a molti, per troppo tempo, ha fatto comodo occultare». […]”

Pag. 267 “[…] La verità è che non sono mai uscito da me stesso scrivendo di lui – neanche per un momento. […]”

Il punto di vista è focalizzato dentro i corpi raccontati, sognati e vissuti dal protagonista. Lo scrittore è parte integrante del libro come protagonista e disponendo il ritmo della narrazione anche attraverso alcune sue concomitanti vicende biografiche. La vicenda si caratterizza anche per un contrappunto tra il passato che è vivo nel dialogare concretamente con il presente attraverso il malessere che corre tra gli occhi del protagonista e dello scrittore.

Il protagonista usa lo scrittore per raccontare le sue storie in un’ottica di rivisitazione del passato, quasi per trasformarlo in un testamento, per rimodulare le scelte accadute. Vi è il tentativo di immaginare diversi schemi temporali, in cui innestare giustificazioni del proprio operato. Vi è l’intento di fotografare nuovamente l’accaduto con diverse cromature, in modo che si possa lenire il dolore, per la lacerazione infinita del presente, dove la persona, le convinzioni passate e attuali, il proprio operare, le immagini di sé, rappresentano uno scarto contraddittorio. Con la consapevolezza, che se lo scarto opprime e dilania, la cura mostra l’errore e l’orrore della propria vita, cioè di ciò che si testimonia di sé: un integrale atto di accusa.

– 

Un libro tragico nel suo fine, perché, anche se lo scrittore riuscisse a offrire un resoconto farmacologico, l’esito della cura toglierebbe la nevrosi, il cruccio, la lama che taglia ogni bugia, tesa a occultare la colpa e l’integrale responsabilità di se stessi per una sconfitta subita e voluta, che sfiorisce la speranza di una vita migliore. Da una vita connotata da iperattività, che si contraddistingue in una fuga tracciata in un percorso circolare, dove si tenta di occupare ogni luogo di proprie opere e parole per occultare la catena potenzialmente infinita delle azioni oscure e innominabili, alla fine si dipinge la propria sconfitta. La sopravvivenza nel presente celebra la negazione di tutto ciò che si è sempre voluto.

Dall’altra parte lo scrittore, usa anche lui il protagonista e il suo vivere in modo terapeutico. È scisso da un rimando continuo del suo tempo, e dalla negazione delle persone, degli auspici e delle possibilità di relazione con le parti del mondo, tenute per intime. Una ex, una donna amata, la madre, la sorella che si vuole aiutare e che rimane sola, le aspirazioni di scrittore, la doppia immagine che è nel pubblico lavoro e nelle proprie credenziali rispetto alla comunità di riferimento, e alle sospensioni ondivaghe della percezione di sé nel tempo. Una adolescenza non finita, e non pienamente compresa, una prospettiva di azione negli stadi successivi dell’età adulta, nel senso integrale di inadeguatezza di ciò che si è facendo, nel pensare e nello scrivere rispetto a ciò che si prova nell’immedesimarsi nella propria carne. La propria carne del corpo che è inadeguata per un trapianto verso la madre, l’unico possibile contatto salvifico. Dall’incapacità di relazionarsi con la madre, nel momento che ella dimorò nelle case del ghiaccio, prima di uscire verso la strada senza riflesso. Nell’ammirare esternamente la sorella, in confronto alla sua incapacità emotiva, espressiva, operativa rispetto al dolore.  

E ora sentendosi monco, ecco che incontra un universo dell’altro che è di Piero e Alessandro Manzoni l’erede, nell’arte, nella scrittura di poesie su se stesso e sull’Italia nei suoi conflitti in ombra, ma sempre presenti. Lo scrittore, di rimando, assieme al protagonista, attraverso l’orrore e all’apparentemente assurdo, dialogano testimoniando di ciò che fu di loro stessi, delle loro speranze sfiorite, nel racconto d’invenzione di quei petali di giorni, tentando di offrire un polline reale verso il futuro.

I due parlanti stipulano un’intesa sapendo che il prezzo da pagare è la consapevolezza che porta l’ansia, il pericolo, e l’avvertimento di una caducità del proprio vivere in una progressiva sporgenza verso il bilico di un burrone. Il racconto è l’unico segno visibile dal cielo, scritto in un’isola arsa di Sole, di parole, e di persone, che offre la testimonianza di un altro vivere per rigenerare l’immagine di un nuovo futuro.

E qui è l’arte che canta nel ricordo e nell’esposizione, la loro volontà di scontare la propria pena, che è tutta il loro vivere. L’unica energia rimasta per seminare un’altra, disperata stavolta, possibilità d’esistenza.