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§CONSIGLI DI LETTURA: ADRIANO OLIVETTI. UN ITALIANO DEL NOVECENTO

Adriano Olivetti, un italiano del Novecento,
2022, Di Paolo Bricco, Rizzoli, Milano

È più di una biografia. È una narrazione che gli italiani ancora oggi risentono circa la loro autorappresentazione, ereditata dai primi sessanta anni del secolo scorso. Adriano Olivetti è stato il figlio di Camillo, altro grande imprenditore a cavallo del ‘900. Uno studente di meccanica e di legge, pervaso da una vorace aspirazione a coniugare lo sviluppo tecnologico all’interno dell’imprenditoria in vista in un’etica tesa al miglioramento morale e materiale del popolo.

Contribuì a definire quei tratti tipici con i quali noi inconsciamente talvolta, con fastidio frequentemente e con orgoglio timidamente ci contraddistinguiamo: una versatile capacità camaleontica di aderire alle ideologie, di inventare storie di sé e di riformulare il passato come se dovessimo cambiarci i vestiti, sia per una volontà tesa a un perenne rinnovamento salvifico e sia per una furbizia stracciona e impotente, quasi disperata. Lasciando poi trasparire in modo quasi inspiegabile tratti di eroica genialità e di sacrificio.

4-5 “[…] Inaugurando nel 1955 la fabbrica di Pozzuoli, Olivetti presenta così gli obiettivi della sua impresa: “La nostra Società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate fra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto” […]”

Non fu uno studente particolarmente brillante e neanche dotato di uno spirito pratico e agile, secondo le indicazioni del padre. Fu goffo, solitario, taciturno, non particolarmente atletico, ma dotato di uno sguardo sognante oltre il presente, contraddistinto da una inesauribile capacità immaginativa.

Aiutò Turati a fuggire durante la presa del potere del fascismo. Fu poi organico al regime e, in posizione di monopolista, trattò per rendere sempre più efficace la sua posizione aziendale in vista di una espansione produttiva e di sviluppo tecnologico privilegiato, venendo a patti con i potenti, fino a chiedere di interloquire con lo stesso Mussolini. Fu socialista segnalato dagli stessi prefetti fascisti, per poi rivendicare e anzi proporre uno stato etico ancora più pervasivo nei meccanismi dei processi economici, finanziari e produttivi.

Ciò fu ed è motivo di dibattito, perché potrebbe indurre una facile omologazione dell’uomo all’ideologia nefasta che fu, tale da risultare quasi il nemico più acerrimo della libera impresa, nonostante che mantenne, nel secondo ventennio, con grande riprovazione dei gerarchi, uno sguardo attento e positivo agli sviluppi tecnologici e imprenditoriali degli Stati Uniti. Insomma delle liberal democrazie.

Fu quasi uno dei più fedeli al regime e nello stesso tempo osteggiò in modo radicale le leggi razziali, anzi salvò tantissimi italiani di fede ebraica, sia assumendoli con altro nome nelle loro aziende, anche in modo posticcio, e organizzando poi, con la resistenza la fuga di molti, e tentando poi nel 1943 di scardinare la Repubblica di Salò con l’appoggio degli Usa e dell’Inghilterra per creare un regime democratico. Appoggiò quel nucleo di resistenti che formò il Partito D’Azione. Fu vicino agli ambienti del partito Repubblicano. Fondò il Movimento di comunità e partecipò alle elezioni nazionali, dopo qualche timido successo a livello locale, nei pressi di Ivrea, subendo una sconfitta nel 1959 che contribuì a fiaccarlo ulteriormente pochi mesi prima della sua morte nel 1960.

Ci si potrebbe chiedere se negli anni avesse avuto un filo conduttore di pensiero e di scopo. Non possiamo dirlo con certezza, ma questo libro, frutto di dieci lunghi anni di studio tra gli archivi di tutta Italia e non solo, oltre alla comparazione delle dichiarazioni di chi gli fu vicino, ricostruisce alcune linee di continuità a livello retrospettivo di tendenza storica, e non propriamente psicologica, per una persona piena di dubbi, pragmatica, e risoluta, razionale a volte, avventata in altre. Cinica e determinata nel perseguire gli scopi d’azienda, suicida e donchisciottesca nel perseguire suoi personali modelli di nuove relazioni sociali. Duro talvolta, ed estremamente generoso in altre.

Certamente subì l’influsso dell’idea dello stato che si fa padre, istitutore, controllore, gestore delle interazioni sociali e della moralità individuale, conduttore verso uno sviluppo delle comunità e delle genti italiche. Anzi elaborò e cercò di tradurre la visione risorgimentale di lungo periodo, nazionale dei primi anni colonialisti, fascista poi, di una sottomissione del singolo per il bene della collettività e poi della nazione. Posizione che invertì subito dopo l’8 settembre 1943, con una ulteriore conversione interiore, per definire una forma di personalismo cristiano che cercasse di coniugare la libertà con l’uguaglianza, la disparità sociale con la solidarietà e la redistribuzione che partisse dalle politiche e dai movimenti dal basso, prima di tutto culturali.

Se si cercasse di delineare una linea coerente secondo gli schemi attuali, si avrebbero le vertigini per queste giravolte tortuose. Il punto però è che indirettamente, consapevolmente a tratti, emerse sempre di più nei decenni un minimo comun denominatore: l’azienda e i lavoratori. Da essi e per essi elaborò una nuova forma di aggregazione comunitaria e quindi di interazione sociale.

Nell’impresa tutto deve ricadere. Il mondo del lavoro, a partire dalla fabbrica, determina ed espande le mense, le biblioteche, i musei e i centri culturali, gli asili nido per tutelare la maternità, la sanità complementare per i lavoratori, per i loro parenti e come una macchia d’olio via via per tutti. E quindi anche l’edilizia che deve essere redistribuita per i quadri, gli amministrativi, gli operai. Tutti, nessuno escluso, avrebbero dovuto godere esteticamente delle offerte culturali, di apprendimento e di una socializzazione aperta, libera e progressiva.

Insomma non è lo stato, il nuovo diritto, il partito fascista, il sindacato, le idee socialiste, le azioni di resistenza, gli approcci liberali che devono configurare i sudditi, i cittadini, i poveri, i ricchi, gli operai e gli intellettuali, passando anche nella rideterminazione dei luoghi di lavoro. No, ed è questo il fulcro, almeno io ritengo lo sia, della visione sotterranea di Adriano Olivetti: è l’azienda, il luogo della fabbrica, la comunità dei lavoratori, che assorbe tutto il resto. La società emana dai luoghi di lavoro. In essi si realizza la morale nell’attività di lavoro e culturale per una etica in cui la persona sia il perno.

Adriano Olivetti agisce in modo spregiudicato attraverso le ideologie, le forme di diritto, le nuove forme statuali che si susseguono prima e dopo la seconda guerra mondiale e la guerra fredda, perché le ritiene onde e scosse telluriche intorno agli arcipelaghi che sono appunto le reti di impresa, collocate tra la città e la campagna.

86-88 “[…] Le tre radici, dunque: la cultura liberal-risorgimentale, il progetto marxiano e l’appartenenza all’ebraismo. Nelle storie individuali e nelle vicende delle comunità e dei gruppi politici e culturali italiani, spesso la prima e la seconda radice si avviluppano con la terza, l’appartenenza all’ebraismo. E non importa se quest’ultima si manifesta in una intensa e palese identità religiosa o se si esprime in una mimetizzazione e in una diluizione della sua tradizione nella secolarizzata società italiana ed europea. È questo il contesto storico articolato e multiforme in cui il demone della politica appunto abita – inizia ad abitare – in Adriano. Il quale vive le contraddizioni degli uomini e si trova a operare nelle pieghe della Storia, che ora lo fanno stare come su un panno rosso e ora lo stringono al collo come una corda di canapa, ora ne fanno un protagonista ammutolito dall’eccitazione delle cose e ora lo trasformano in un ingranaggio reso silenzioso e grigio dal procedere della quotidianità

120-122 “[…] L’economia pubblica e la pubblica amministrazione, il governo e i ministeri. Il partito unico. Tutti questi elementi compongono la realtà. Il rapporto con loro diventa essenziale e vitale, necessario e naturale. La normalità è fatta di legami organici e non episodici con i corpi dello Stato e con il Partito nazionale fascista. Adriano è un imprenditore. La Olivetti è una società italiana. Opera su un mercato a bassa concorrenzialità e a elevato controllo da parte della politica e della pubblica amministrazione. Sono poche le altre imprese che producono macchine per scrivere e macchine da calcolo. La Olivetti, per svilupparsi e per prosperare, deve misurarsi con i regolatori e i controllori di una realtà economica e sociale che, negli anni Trenta, si trovano nelle stanze della politica, negli uffici della pubblica amministrazione e nelle sezioni del Partito nazionale fascista. Il 27 ottobre 1933 (con una lettera in cui alla data è aggiunto il numero romano XI, undicesimo anno dell’era fascista) Adriano scrive una lettera al ministero delle Corporazioni. La richiesta è quella di inserire il settore delle macchine per scrivere fra i comparti per i quali è necessaria l’autorizzazione del governo, forma grossolana e potente di controllo dell’attività industriale privata: «Con riferimento al R. Decreto 15 maggio 1933, n. 590, il quale assoggetta all’autorizzazione governativa i nuovi impianti e l’ampliamento di quelli esistenti per un determinato gruppo di industrie, esponiamo i motivi per i quali riteniamo necessario che l’industria delle macchine per scrivere venga compresa nell’elenco»10. Adriano gioca duro. Ha interesse a limitare sia la concorrenza interna sia quella estera. Sulla concorrenza interna, dice con una ambiguità abbastanza esplicita sulla presunta irrazionalità e, in ogni caso, sul presunto non interesse nazionale che nuovi investitori italiani entrino in un mercato in crisi: «Qualunque quota del risparmio nazionale indirizzata nell’industria delle macchine per scrivere non potrebbe che risolversi in uno spreco del capitale nuovo ovvero nell’indebolimento o nell’annientamento delle vecchie industrie del ramo che da sole hanno sopportato tutti i pericoli e gli oneri dell’inizio e dell’affermarsi di un’industria nuova per il nostro paese»11. C’è, poi, il rischio che altri gruppi stranieri entrino in Italia: «Ci risulta che importanti fabbriche nord-americane impressionate dalla quasi totale perdita del mercato italiano, dovuta alla nostra affermazione, stanno studiando la possibilità di costruire fabbriche di montaggio e costruzione parziale in Italia»12. Adriano, nel rivolgere la sua richiesta di inserimento del settore fra quelli a maggiore controllo autorizzativo pubblico, scopre la carta più pesante: «Nella nostra organizzazione lavorano oltre 1100 fra operai e impiegati. Se la minaccia di una nuova concorrenza interna alimentata anche da capitale e appoggio di nostri concorrenti interni avesse un inizio di esecuzione, noi dovremmo immediatamente e drasticamente ridurre non solo le ore di lavoro, ma anche il numero dei nostri dipendenti»13. Che sia una minaccia reale o solo tattica, l’Adriano portatore dell’insegnamento paterno, secondo cui la disoccupazione involontaria sarebbe stata la peggiore condizione umana per la classe operaia, in questo caso sonnecchia. E, al di là di questo, la Olivetti che ormai opera in condizione di semimonopolio si rapporta con il governo da monopolista. La Olivetti godrebbe di una posizione di forza da una misura che restringesse la possibilità per tutti di fare nuovi investimenti. Ne avrebbe un vantaggio strutturale. E Adriano ottiene questa misura. […]”

“[…] 152-155 Adriano ha un atteggiamento di adesione neutrale o di consenso passivo alla dimensione politica del fascismo. È un imprenditore. Fa gli interessi della sua azienda. Gioca su più tavoli con la pubblica amministrazione. Opera in un’economia in cui il protezionismo è la vera ragione prima di ogni estremizzazione autarchica e in cui la concorrenza è ridotta al minimo dall’influenza della politica e dai corpi dello Stato, da cui Adriano, per la sua azienda, riesce a ottenere molto […]”            

209-210  “[…] Dopo l’apertura, nel 1937, dell’asilo per i figli dei dipendenti con meno di cinque anni, nel 1940 è stata costruita la nuova struttura riservata ai bimbi con meno di tre anni. Alla Olivetti si può essere una mamma che lavora. Nel giugno del 1941, quando viene ampliato l’asilo nido progettato da Figini e Pollini in stile razionalista e con citazioni di Le Corbusier, viene riorganizzato tutto il servizio per l’infanzia e per la maternità offerto dall’impresa. In Italia il trattamento previsto dalla Cassa mutua e dall’Istituto nazionale di previdenza è minimo: stai a casa ricevendo l’equivalente del salario di due mesi, uno prima del parto e uno dopo. Al trentunesimo giorno di vita di tuo figlio, devi tornare in fabbrica o in ufficio. Alla Olivetti, nel 1941, viene emanato un regolamento – l’ALO, Assistenza lavoratrici Olivetti – secondo il quale le lavoratrici sono esonerate dal lavoro da 75 giorni prima del parto fino al settimo mese compiuto dal loro piccolo o dalla loro piccola e continuano a ricevere, grazie a un sussidio aziendale, il medesimo ammontare del salario: un trattamento così favorevole alla lavoratrice è un’eccezione nell’economia e nella società internazionali, non soltanto del Novecento. Peraltro, tutto questo accade sempre e comunque: non importa che tu sia sposata o che tu sia ragazza madre. È così. La membrana che separa la Olivetti dal mondo è fatta anche di quella particolare materia che è l’accudimento dei bambini da parte delle loro mamme. Intorno alla mamma e al bambino si crea un mondo. Si stabiliscono premi di natalità aziendali così da «alleggerire l’onere della famiglia in un momento particolarmente delicato»79. Sono previsti contributi straordinari, in caso di famiglie con particolari difficoltà economiche o con particolari condizioni di salute. A sette mesi, quando la mamma torna nello stabilimento o in ufficio, il piccolo viene accolto nell’asilo nido. All’asilo nido si trova una camera per l’allattamento, così la mamma può allontanarsi per il tempo necessario dall’ufficio o dalla linea produttiva e dare il suo latte al piccolino o alla piccolina che ne abbia ancora bisogno. A tre anni, i bimbi vengono accolti all’asilo e, poi, a quattro anni – e fino ai sei – alla scuola materna aziendale. Al compimento dei sei anni – fin dal 1938 – possono andare alla colonia montana di Champoluc, che rimarrà attiva per decenni, e al mare a Loano, servizio che invece smetterà di funzionare nel 1941. A differenza delle altre imprese italiane, i dipendenti che lo desiderino possono accompagnare i figli in colonia. La membrana che separa la Olivetti di Adriano dal resto del mondo definendone l’anomalia è formata da un ultimo, prezioso, strato: nell’asilo nido aziendale, che ha un numero limitato di posti, fra il figlio dell’operaio e il figlio dell’impiegato viene data la precedenza al figlio dell’operaio […]”

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È incerto, fra tante sponde. Deve andare a Milano, aprire le sedi a Barcellona, in Francia, Inghilterra, Svizzera, ma il fulcro è però quasi paesano: Ivrea. Tende a dimenticare e rimuovere il passato socialista del padre, il fascismo, le sue discussioni con gli alti gerarchi e con lo stesso Benito Mussolini sul corporativismo e sulla concezione di una nuova azienda. Propose confusamente il modello di una nuova economia ai servizi segreti inglesi e USA, a causa del quale fu messo da parte come agente principale di un eventuale colpo di stato ai tempi dell’8 settembre 1943. Sembra comportarsi come un reggitore di una Signoria dei secoli andati.  

262-63 “[…] La crisi della democrazia liberale, il Biennio rosso, l’ascesa violenta del fascismo, la ribellione delle minoranze, il consenso di massa, l’adesione, la via fascista alla modernità, la partecipazione agli organismi dei corpi intermedi, il lavoro intellettuale sul corporativismo, i rapporti con la ristretta cerchia di Mussolini, la crescita della Olivetti in un regime di oligopolio, i legami con la pubblica amministrazione e la politica fasciste. Tutto cancellato, dimenticato, rimosso, destinato all’oblio. A poche settimane dal rientro a Ivrea, nel suo primo discorso ai dipendenti – in una occasione, dunque, fondante – Adriano costruisce il suo nocciolo duro di riflessione per la contemporaneità e per il futuro su una crisi che è di civiltà, sociale e politica: «Allora, amici, vorrete domandarmi: dove va la fabbrica in questo mondo? Cosa è la fabbrica nel mondo di domani? Come possiamo contribuire con il nostro sforzo e con il nostro lavoro a costruire quel mondo migliore che anni terribili di desolazione, di tormenti, di disastri, di distruzione, di massacri, chiedono all’intelletto e al cuore di tutti, affinché giorni così tristi né i nostri figli né i figli dei nostri figli e molte generazioni ancora non potranno dimenticare né potranno, una seconda volta, affrontare?» […]”

E si arriva alla fine del suo percorso.

486 […] Le cose, dunque, non vanno bene. Adriano, dopo il fallimento alle elezioni politiche nazionali del 1958, si trova a operare in una condizione di negoziato continuo con gli altri famigliari e gli altri soci. Conosce il legame fra finanza d’impresa (al servizio, appunto, dell’impresa) e finanza straordinaria (al servizio, anche, degli azionisti). In questa nota si legge che questi 8 miliardi corrispondono «a più di due volte le emissioni di nuove azioni di tre miliardi», un fattore di persistente tensione con gli azionisti della Olivetti, abituati da dieci anni a portare fuori capitali sotto forma di dividendi e ad autoassegnarsi aumenti di capitale non a pagamento, vedendo crescere la loro ricchezza individuale senza pagare alcun dazio. In un contesto simile la questione della Fondazione, che di necessità interromperebbe l’assorbimento di dividendi da parte degli Olivetti dalla Olivetti, diventa astratta e irrealistica e il tema del Consiglio di gestione appare significativo, ma minimo. L’intero edificio non regge più. Non funziona il meccanismo nel rapporto fra impresa e azionisti, che sono abituati ad avere tanti, tanti dividendi. Non funziona il rapporto fra Adriano e gli altri famigliari. Non funziona, paradossalmente, nemmeno il rapporto fra Adriano imprenditore e Adriano politico perché, come in una dissociazione, il secondo è stato «spogliato» delle sue finanze personali dal primo […]”

E appena pochi mesi dopo la sua morte:

509-512  “[…] Il 10 febbraio 1961, il Comitato centrale del Movimento di Comunità si scioglierà. Tutto questo succede sei anni dopo il discorso di Adriano ai lavoratori di Pozzuoli: «Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica? La nostra Società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate fra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto». Ma è tutto il mondo di Adriano a perdere consistenza, a sfibrarsi e a sfilacciarsi nella realtà e, allo stesso tempo, a impiantarsi, a crescere e ad assumere vita nell’immaginazione degli altri. Con la scomparsa di Adriano, è come se all’improvviso le radici nascoste dell’albero della crisi prendessero vita e si manifestassero nella Storia ed è come se, simultaneamente, una nuova dimensione civile e affettiva venisse costruita prima di tutto sulla sua assenza. La stessa Olivetti, segnata dai conflitti famigliari e dalla mancanza di un leader carismatico seppur discusso come Adriano, sarà scossa da uno sbandamento strategico e si ritroverà in una fragilità finanziaria di cui c’erano già segni evidenti fra il 1958 e il 1960. Pochi anni dopo rischierà di diventare di proprietà delle banche svizzere, che avranno in pegno le azioni degli indebitatissimi Olivetti: per evitarlo, il ripianamento dei debiti personali di questi ultimi e la ricapitalizzazione della società verranno realizzati dal gruppo di intervento coordinato da Mediobanca e composto da Fiat, IMI, Pirelli e La Centrale. La Olivetti, però, perderà la sua autonomia, diventando un’impresa industriale senza un imprenditore. La riduzione dell’autonomia sarà duplice: la Olivetti, diventata acefala, dovrà rinunciare alla grande elettronica, ceduta alla General Electric, e si troverà in una sorta di camera iperbarica finanziaria, con una specializzazione produttiva concentrata sulla meccanica e sulla piccola elettronica e una dipendenza completa dal sistema bancario italiano. Succederà tutto questo, nel 1964, esattamente cinquant’anni dopo la prima volta di Adriano in uno stabilimento: «Nel lontano agosto 1914, avevo allora tredici anni, mio padre mi mandò a lavorare in fabbrica. Imparai così ben presto a conoscere e odiare il lavoro in serie: una tortura per lo spirito che stava imprigionato per delle ore che non finivano mai, nel nero e nel buio di una vecchia officina. Per molti anni non rimisi piede nella fabbrica, ben deciso che nella vita non avrei atteso all’industria paterna»56. Succederà tutto questo pochi anni dopo che Adriano ha vissuto il suo ultimo giorno. Un ultimo giorno in cui ha mangiato cacciagione e ha bevuto champagne, ha festeggiato la quotazione in Borsa della Olivetti con i suoi famigliari e i suoi dirigenti industriali, si è occupato di libri e di editoria, ha aumentato lo stipendio ai redattori di una rivista, è salito su un treno diretto in Svizzera per discutere con i banchieri e per andare ad amare […]”

§CONSIGLI DI LETTURA: IL VIAGGIO DELLA ST. JEMIS

Il viaggio della St. Jemis di Isolde Fulke
(Autore), Salvatore Mulliri (Illustratore),
2021, Forevera Books

Questo viaggio è un’occasione per riformulare le concezioni di possibilità del proprio futuro interiore e di quello che si è concepito in gioventù, in rapporto al lettore adulto, e al divenire di quello che è inteso dai lettori più imberbi. È un’opportunità di confronto per intendere emotivamente il mutamento estetico scaturito dal sentire di come si è cresciuti. Giovani e adulti, assieme, nel comprendere le proprie relazioni all’interno di un orizzonte temporale più ampio e meno conosciuto.

Per il lettore giovane, se ha fretta nello scorrere le pagine, il libro offre l’opportunità di immaginarsi all’interno del gruppo dei pari, nel misurarsi relativamente alle abilità, alle capacità, alla reciprocità di eventuali sentimenti più profondi, alla possibilità di aggregazione, alla ridefinizione di nuove identità sociali, e al riconoscimento di una crescita di sé in vista di un’ottica di miglioramento.

Niente di nuovo: i miti e le storie da sempre collocano un prima e un dopo che si deve ripetere, affinché entrino sempre nuovi coorti generazionali, in modo che le precedenti passino nello stadio più adulto, fino alla trascendenza.

È un libro urticante per gli adulti e per chi ha già avuto esperienze di lettura fantascientifiche in gioventù e in età successive, perché potrebbe essere ritenuto una ennesima rivisitazione di schemi narrativi già incontrati e lontani ora dal proprio senso estetico, tale da inibire una immedesimazione verso i protagonisti.

Se ci si fermasse in una valutazione immediata, il lettore incorrerebbe in formule pigre nel ritenere che le vicende siano semplici nei rapporti di causa ed effetto e quasi prevedibili nell’intendere i comportamenti futuri degli attori in gioco. Il rigetto superficiale dell’opera rischia di occultare, qualcosa di inedito che, se compiutamente inteso, offre una dimensione inedita per interrogarsi su di sé.

È irritante nelle prime pagine perché nella chiarezza degli intenti, induce a cadere nell’amaca riposante dei luoghi comuni verso il sempiterno funerale dei romanzi di fantascienza, il suo cadere verso il fantasy, l’appiattimento stilistico e narrativo in una prosa sincopata tipica (sempre tipica nei decenni! E Decenni e secoli) dei “giovani”. Oltre all’uso di termini gergali, misti a quelli scientifici, nella funzione di simboli di appartenenza.

Eppure il fastidio continua, e costringe a rimuginare quasi offesi. Arrivando al picco delle proprie ubbie, ecco che se si presta ascolto al senso malmostoso, il cruccio in verità è anche dovuto al giovane del passato, dietro alle nostre spalle che continuamente ci interroga e ci domanda su ciò che siamo ora nell’aver adempiuto o meno alle promesse e alle aspirazioni che si sono formulate nella propria intimità.  

Esistono sì le forme paterne e materne nel romanzo, ma sono definite in quanto mancanti dai ragazzi, perché gli adulti con difficoltà riescono ad assumere tali oneri. Eppure, ed è qui il dilemma, forse sono proprio i piccoli e gli adolescenti che sollecitano gli adulti a divenire tali in modo più pieno.

Lo stile grafico è minimale, diretto, veloce, e immediatamente consultabile.

Talvolta accade, comunque, che un romanzo si inoltri in esiti forse non previsti dagli stessi autori, con attribuzioni di senso estranee agli scopi della stessa scrittura.

L’invito è accattivante, con l’autrice ( o forse autore, o più autori ) che si firma con uno pseudonimo da telefilm che induce a proprie inclinazioni e atteggiamenti verso il mondo, più che per il proprio vissuto pubblico, quindi in una postura ammiccante verso l’adolescente che non ha ancora una gamma di ruoli definiti.

Lo stile di scrittura ricalca quello delle parlate dirette e semplificate negli aggettivi e nei modi temporali declinati verso la comunicazione giovanile. E questo è in realtà oggi già un tranello, perché anche gli adulti parlano così. Forse il punto debole di questo romanzo è nell’intercalare dell’autore quando nelle premesse degli eventi topici, utilizza un linguaggio con vistosi errori di coniugazione verbale e partitiva, e con una ridotta ed elementare della varietà verbali. Talvolta sembra che sia stato scritto a più mani e sottoposto, in seguito, a poche e frettolose procedure di revisione.

E anche qui se si crede che sia un limite specifico, si incorre in una valutazione indebita. Si potrebbe obiettare che i processi di revisione siano oggi alquanto indulgenti e sbrigativi per molte delle opere pubblicate. I testi, poi, masticati magari anche da motori inferenziali per la produzione di periodi preconfezionati, se non copiati con piccole modifiche da strutture tipiche di narrazione, lasciano un senso di insipida assenza di memoria. 

Eppure questo specifico romanzo esprime qualcosa di inedito che sta emergendo, oggi, qui, in questa Italia di lettori divisa in adulti che hanno un’esperienza robusta per quanto riguarda l’approccio vivo alla lettura, e per quell’altra fascia di fanciulli, ragazze, adolescenti che legge tipicamente romanzi seriali di fantasy, di avventura, d’amore.

Vi sono molte imprecisioni chimiche, meccaniche e fisiche nelle descrizioni tecnologiche delle astronavi e delle stazioni spaziali, ma questa pecca è comune alla stragrande maggioranza dei romanzi di fantascienza passati, anche in relazione alle conoscenze e alle tecnologie dell’epoca. Solo quella quota minoritaria della fantascienza “hard” ne è di poco immune. Però, è qui la ricchezza della letteratura fantascientifica, perché, in un dato periodo storico, ci informa di ciò che è tipicamente tenuto come assodato, e di ciò che è immaginato e reputato per verosimile, in forma mitica e valoriale.

Le epoche storiche sono contraddistinte anche dalla quota del conoscibile e dell’autorevole con riferimento al mondo, allo spazio, all’impiego dei mezzi per disporre della materia, dell’energia e alla fine del potere. Ciò induce anche a comprendere il senso estetico dei lettori del tempo in ordine alle loro preferenze e suggestioni riguardo a ciò che di artistico è apprezzato in rapporto al conosciuto e ai mondi e alle tecnologie concepite. Sì, la fantascienza attinge comunque alle logiche del mito, che è antico quanto la genesi delle comunità umana, e anche al senso del praticabile nel presente, all’obiettivo del possibile per definire il futuro, e alla costruzione dei valori per ciò che è da venire.

Il fascino risiede appunto nella creativa produzione di nuove possibilità di esistenza, che induceva alla lettura ieri come oggi.

Il romanzo non insiste molto nei particolari meccanici dei manufatti, ma propone in un modo colloquiale ed efficace, l’insieme delle nozioni astronomiche relative alle orbite, come quelle di Lagrange, agli orizzonti dei buchi neri, alla deformazione della materia per opera delle forze di gravità. Vi sono richiami e scene in cui vigono disposizioni vettoriali diverse per opera delle inversioni delle forze di gravità, delle orbite eccentriche ed ellittiche. Vi è la descrizione della spinta gravitazionale che permette alle astronavi di cambiare le rotte. Vi sono indicate le nuove strategie per viaggiare nello spazio, come le vele solari, già in uso oggi per alcuni satelliti. La legge di Stokes per i fluidi. Apparenti paradossi tra la grandezza fisica della gravità e le curvature della materia.

Sono tutti argomenti ben sperimentabili. E non è un caso che le astronavi e le stazioni spaziali orbitanti siano descritte tenendo conto delle nozioni suddette. Le stesse navicelle richiamano i progetti odierni in fase di sperimentazione e di sviluppo dei nuovi vettori di lancio.

La caratteristica commendevole risalta nel modo quasi colloquiale ed accogliente di tali nozioni. Dovrebbe essere tenuto a mente di chi professa il mestiere di docente di fisica e di matematica. Ciò non è utile solo per i giovani, ma anche per gli adulti, perché, sì, ed è qui l’irritazione, i più ignoranti sono i lettori antichi.

È resa disponibile un’occasione per riaggiornare le lenti con cui si sperimenta il mondo, per ampliare l’orizzonte linguistico che è dei giovani e anche il nostro. Anche gli adulti leggono poco, anche i maturi prendono testi scritti e intermediali e li spostano tra diversi supporti tecnologici. Ben pochi hanno il lusso del tempo e la disciplina di interpretare i testi intermediali e gestirli in modo approfondito e ripetuto avendo a memoria le versioni e le proprie esperienze anche estetiche ottenute.

Si è tutti nella stessa condizione. La lettura di questo romanzo costituisce un viaggio in modo che ognuno possa essere presente nel proprio tempo e renderlo disponibile ai compagni di viaggio.

I protagonisti permangono: anche il cattivo deve trasformarsi. È l’etica del bimbo delle favole, perché tali caratteri ritornano per una nuova avventura.

Malignamente, si potrebbe sospettare che sia il solito espediente per generare una serie di libri a tema, per futuri introiti. Su tale fenomeno per il quale la fantascienza sembra schiacciata nello stile Fantasy che è trasformato in livelli sempre crescenti di videogiochi è una possibilità. Non è detto che sia uno scadimento.

Quello che occorre capire e se ciò sia valevole per un arricchimento alla lettura, utile per ampliare l’immaginazione, promettente nel formulare nuove risposte rispetto alle promesse che i giovani dichiarano al proprio animo e a quei giovani che gli adulti sono stati.

Questo romanzo è una sfida per tutti.

§CONSIGLI DI LETTURA: IL RICONOSCIMENTO DELLE COMPETENZE DEGLI IMMIGRATI ADULTI SUBSAHARIANI

Brigida Angeloni
IL RICONOSCIMENTO DELLE COMPETENZE DEGLI IMMIGRATI ADULTI SUBSAHARIANI
Adult Education and Lifelong Learning, Roma TrE-PRESS, 2022

Questo rapporto prospetta una politica di formazione per gli adulti immigrati più incisiva, e indirettamente anche per noi italiani. Occorre una strategia politica con maggiori piani di azione che il mondo della formazione può offrire. Vi è una analisi a livello locale e mondiale dei flussi di migrazione e delle esigenze di formazione per gli adulti, considerando le tendenze di lungo periodo che stanno avvenendo in Italia.

Sarebbe auspicabile concepire l’immigrato un compagno di viaggio per conseguire una piena cittadinanza democratica, avente una tendenziale e una maggiore disponibilità ad accogliere le nostre esigenze di formazione cognitive e di apprendimento civico.

L’educazione degli adulti non è volta esclusivamente al recupero o alla compensazione di mancanze pregresse, quanto anche all’adeguamento delle esigenze lavorative e personali. È un investimento teso a sviluppare una serie di competenze condivise, riconosciute a livello istituzionale.

 Nella vita degli individui adulti le opportunità di apprendimento sono più ampie di quelle esplicitamente intenzionali, e si presentano nella vita quotidiana attraverso le esperienze, gli incontri, le relazioni, e la partecipazione alla vita sociale e politica, e alle attività professionali. A livello di ricerca e normativo è necessario un quadro teorico che approfondisca la dimensione adulta, le forme e i modi apprendere e le strategie correlate.

Il World Migration Report 2020, dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM, 2019), è la principale fonte per conoscere dati e tendenze sulla mobilità umana a livello globale (Italia compresa). Nel 2019 il numero di migranti internazionali è cresciuto, attestandosi a circa 272 milioni, pari al 3,5% della popolazione mondiale.

Di tutte le persone che si spostano a livello globale (272 mln), i migranti per motivi di lavoro sono stimati in un numero pari a 164 milioni. Secondo il Global Trend Report (UNHCR, 2020) la popolazione di migranti forzati, in- vece, ammonta a 79,5 milioni di persone, di cui 45,7 milioni di sfollati interni, 26 milioni di rifugiati (la Siria rimane al primo posto con 6,6 milioni seguita dal Venezuela con 3,7 milioni), e 4,2 milioni di richiedenti asilo.

La grande maggioranza delle persone (circa 200 milioni) migra per motivi legati soprattutto al lavoro, alla famiglia e allo studio. Esiste però una crescente quota di persone costrette a lasciare le loro case e i loro paesi per motivi gravi, come conflitti, persecuzioni e disastri. Si tratta degli sfollati e dei rifugiati che, pur costituendo una percentuale relativamente contenuta di tutti gli immigrati (29%) (UNHCR, 2020).

22 “[…] I dati EUROSTAT (2018) riferiti ai 28 paesi dell’UE rilevano, nel 2018, circa 3,2 milioni di primi permessi di soggiorno rilasciati nell’Unione europea a cittadini di paesi terzi. Le ragioni familiari hanno rappresentato quasi il 28%, i motivi di lavoro il 27%, i motivi di studio il 20%, mentre altri motivi, compresa la protezione internazionale, hanno rappresentato il 24%. Con riferimento alla cittadinanza di chi ha ricevuto più permessi nell’UE nel 2018, i cittadini ucraini sono quelli che hanno beneficiato di permessi di soggiorno principalmente per motivi di lavoro (65% di tutti i primi permessi di soggiorno rilasciati agli ucraini nel 2018), quelli cinesi per l’istruzione (67%), mentre i cittadini marocchini (61%) hanno beneficiato prevalentemente di permessi di soggiorno per motivi familiari (Forti, 2020, p.14) […]”

In Italia principalmente gli immigrati, anche se sovra qualificati, sono impiegati in attività a bassa produttività pesanti, pericolose, precarie, poco pagate.

In Italia la sovra qualificazione riguarda il 77% dei nati fuori dall’UE e istruiti all’estero e il 25% dei nati fuori dall’UE e istruiti nel nostro paese. In questo caso la difficoltà del riconoscimento dei titoli di studio conseguiti all’estero è un aspetto che non facilita i processi di integrazione lavorativa. I più istruiti si sentono maggiormente discriminati, rispetto a quelli meno qualificati, che, paradossalmente, percepiscono un miglioramento del loro status lavorativo precedente.

Nel campo dell’educazione degli adulti si possono individuare due campi di ricerca rispetto al tema dell’educazione destinata agli immigrati: l’educazione alla cittadinanza e l’educazione per gli immigrati. In termini generali, l’educazione alla cittadinanza ha come obiettivo di preparare gli individui a diventare cittadini di una determinata comunità politica.

I bisogni formativi degli immigrati riguardano:

• l’apprendimento della lingua del paese di accoglienza ad un livello che possa permettere al soggetto di interagire con le istituzioni pubbliche, i soggetti privati e le reti informali;

• la conoscenza della cultura del paese di accoglienza;

• gli elementi base dell’organizzazione dello stato, del sistema scolastico e sanitario;

• il bisogno di informazione sui diritti e sulla loro accessibilità;

• l’alfabetizzazione per i soggetti che non hanno potuto esserlo nei paesi di nascita o provenienza;

• l’acquisizione dei titoli di studio di base, quali il diploma conclusivo del primo ciclo di istruzione e/o secondaria superiore.

A questi si aggiungono altri bisogni, concernenti l’istruzione e la formazione:

• il bisogno del riconoscimento dei propri titoli di studio e qualifiche professionali già possedute;

• il bisogno di accedere a corsi di istruzione e formazione professionale che tengano conto delle caratteristiche della popolazione immigrata, in termini di apprendimenti pregressi, di disponibilità di tempo e di raggiungimento delle sedi formative, nonché in una logica di coerenza con il progetto migratorio del singolo.

Con la normativa attuale in Italia, che è descritta in modo analitico nel rapporto, vi sono tantissime possibilità di raccordo tra gli enti preposti alla formazione degli adulti e agli enti locali per stipulare percorsi ad hoc, diversificati per settore di impiego.

La disponibilità di orari e giorni differenziati per le lezioni assume dunque un’importanza decisiva, assieme alle condizioni di isolamento dei migranti, la precarietà nel lavoro e nell’abitazione, i tempi lunghi di regolarizzazione, i difficili percorsi di inclusione a tutti i livelli.

Occorre un approccio qualitativo e biografico che punti anche al riconoscimento e alla ricollocazione delle competenze del soggetto, attraverso la ricostruzione degli apprendimenti realizzati dal soggetto nel corso della sua vita sociale e professionale.

Nella cultura africana, l’importanza dell’età anagrafica o biologica nella definizione dell’età adulta è relativa, poiché esiste una gerarchia delle età. Vi è l’assunto che l’anziano ha avuto più tempo per accumulare conoscenza ed esperienza; pertanto, in queste società l’anziano detiene tutto il potere. Ogni membro della comunità è consapevole del proprio status e del ruolo che deve svolgere. Questi sono determinati dal numero di funzioni che aumentano con l’età (attraverso il matrimonio, il parto, il lavoro). La prima pratica pedagogica di passaggio sono riti iniziatici.

Un adulto è colui che è produttivo, che contribuisce al sostentamento della famiglia e della comunità, come pure colui che è in possesso di alcuni tratti psicologici, come il concetto di sé che permette agli individui di esprimersi in un modo che li rappresenti. Pertanto, un soggetto che dal punto di vista anagrafico è giovane, anche un bambino, ma che dimostri di avere una percezione di sé in grado di assumere delle responsabilità, può assumere lo status di adulto. Altre caratteristiche che sono associate allo status adulto in Africa sono la fiducia, la pazienza, la resistenza, la perseveranza, il coraggio e la stabilità emotiva. Queste qualità permettono alle persone di contribuire alla sicurezza pubblica, di arbitrare una disputa, di motivare i membri più giovani della comunità e di promuovere fiducia, rispetto, assistenza reciproca, pace e ordine, rappresentando un modello da imitare per i più giovani.

Non esiste un momento in cui l’individuo termina il processo di educazione. Lo status sociale dell’adulto, quindi, è una nozione relativa.

Le tre componenti del sapere (tecnico, mitico e retorico) si acquisiscono durante gli anni, fase per fase, attraverso il susseguirsi delle iniziazioni, legate al contesto.

La portabilità delle competenze, secondo la Dichiarazione dell’ILO (ILO, 2007) è una combinazione tra:

• la possibilità di utilizzare le competenze professionali in diverse attività lavorative;

• la certificazione e il riconoscimento delle competenze nel mercato del lavoro nazionale ed internazionale.

Attenzione: questi orientamenti sono congruenti anche con la maggior parte della popolazione adulta in Italia, che, in rapporto ai paesi tecnologicamente avanzati è in una fase di analfabetismo di ritorno, con la dispersione di abilità, deficienza di conoscenza, degradazione delle competenze.

Una strategia è quella di poter dare voce a tutti, anche a noi italiani, riguardo le esigenze di cittadinanza e di formazione. La narrazione autobiografica utilizzata nei percorsi di bilancio delle competenze porta in luce aspetti delle competenze trasversali ed emotive, atte a pianificare un nuovo percorso di apprendimento.

Ecco perché il riconoscimento delle competenze in ambito interculturale è un obiettivo strategico. Vi sono sicuramente effetti positivi anche per il mondo dell’impresa, che può conoscere i lavoratori e le loro caratteristiche, aprendo un ulteriore dialogo con il sistema di istruzione e formazione e i servizi per l’impiego attraverso un linguaggio comune.

Occorre inoltre conciliare l’esigenza di lavorare con i tempi dello studio, perché molti cittadini immigrati lavorano senza un contratto di lavoro regolare, il che non gli permette di accedere a permessi di studio o a giornate di ferie retribuite, ma soprattutto li sottopone ad orari di lavoro che superano largamente i limiti consentiti dalla legge. Le condizioni lavorative precarie e irregolari, la scarsa disponibilità di risorse economiche portano queste persone a vivere in situazioni di disagio abitativo, con un sistema di trasporti inefficiente.

Per quanto riguarda coloro i quali si trovano ospiti nei centri di accoglienza, la durata sempre più breve del progetto di accoglienza va a discapito della possibilità di considerare un progetto di inclusione educativa che vada oltre il conseguimento del livello base della lingua italiana. Per quanto riguarda le persone che arrivano con un bagaglio di competenze di medio alto livello, si verifica il trasferimento verso altri paesi europei dove si presentano migliori possibilità di inclusione per i cittadini immigrati.

La ricostruzione della propria biografia e l’emersione delle proprie esigenze, per definire un piano condiviso di una formazione itinerante, costituiscono le risorse per tutti gli adulti nativi e immigrati qui in Italia, oggi.

§CONSIGLI DI LETTURA: IL POPOLO DELL’AUTUNNO

Il popolo dell’autunno di Ray Bradbury (Autore), Remo Alessi (Traduttore), Oscar Mondadori, Milano, 2013 (Prima edizione: Something Wicked This Way Comes, 1962)

Si piange e si ride, si immagina e si ricorda in questo scritto, perché la sua firma è la meraviglia del mondo e del cuore d’ognuno.

Questo romanzo, è l’ideale prosecuzione del precedente “L’estate incantata” del 1957 (per un’analisi premere QUI). Vi è la stessa città, e questa ruota attorno ai punti di vista di ragazzi quasi adolescenti. Ray Bradbury ha una capacità superlativa di rendere vivi i processi fisici ordinari, e i grandi agglomerati antropici e naturali. Non in un senso allegorico o metaforico, ma in modo diretto. Non è un caso che a tratti la prosa assume toni lirici, quasi di versi in prosa, quando descrive gli ordinari processi metereologici ad esempio. Le albe, e i raggi del Sole, che oltre a illuminare sono dotati di una fisicità tale da dipingere le foglie, sostenere i minuti e smuovere le ombre e i toni che si adagiano, corrono, si inabissano e riemergono dalla terra.

Una formica non è solo un insetto che si muove, cieca del suo destino. No: è un corpo senziente che vive in uno spazio vivo, mutante, dotato di fini nascosti ed obiettivi determinati. Gli insetti, come le foglie, i sassi, le anse dei fiumi, i grovigli dei rovi, i rami degli alberi, parlano tra loro, si muovono e si modificano. Pensano, dormono, riflettono, cantano: usano il vento come mezzo di comunicazione, e usano l’aria e il suono come frecce e faretre.

La narrazione è continuamente tesa a svelare che ogni ente classificabile come “oggetto inanimato” sia in realtà un soggetto dotato di nume, che respira aria, luce, suono, e comunica in piani che oltrepassano i sistemi di riferimento umani instillati nei cinque sensi.

Il linguaggio è mitico. Di prima impressione potrebbe rivestire uno stile favolistico, nello svolgersi degli eventi, il lettore quasi sedotto dal tono fantastico e immaginifico, che lo tranquillizza riportando in luce il suo passato ancestrale di sogno e incanto. Da una lettura più profonda, però, si ricava che il romanzo è tutto il contrario di una favola. Il luogo, il tempo, la coerenza disposta tra le gesta dei protagonisti sono intesi realmente. In modo verosimile.

Il mito qui, non è quello nostro che, in negativo, dilegua rispetto a una descrizione razionale e veritiera degli accadimenti, attraverso la suddivisione tra i principi, le cause, i momenti topici. La poetica ha la pretesa di offrire uno sguardo prospettico e multidimensionale del mondo, e in assonanza con l’universo interiore, che è personale per quanto riguarda le responsabilità delle proprie azioni e della legittimità dei propri scopi, ma che è comune a tutti gli esseri viventi.

Le stagioni scandiscono il ritmo degli avvenimenti, e offrono una idea di un prima e un dopo, ma queste sono destinate a ritornare, e quindi a permettere una partecipazione all’unisono dei giovani e degli adulti, dei figli e dei padri, delle madri e di chi nascerà, dei vecchi e della loro compagna finale: la sorella nera. Ognun di loro cresce, passa da uno stadio all’altro e insieme rispetto al momento di crisi, che vi è sempre, perché ogni stagione ha un limite del prima e del dopo, caratterizza il proprio vivere.

È un autunno che è destino di ogni vivente: dall’uomo, agli animali, alle piante, alle rocce, si interroga, si dispera, ha il timore della propria finitezza e la speranza di comprendere il proprio stare nel tempo che scorre e in ciò che permane mutando.

E quindi ritornano, e son presenti, gli intenti volti a un vivere pieno, e quindi al desiderio d’amare e di gloria, assieme ai corrispettivi volti della decadenza, della malattia, fino alla vecchiaia e alla morte. All’interno della dialettica tra il bene e il male, tra il voler cedere all’arroganza e all’ignoranza, vi è il rischio di voler ignorare i propri limiti e di confondere la propria volontà con ciò che si presume siano gli scopi e gli obiettivi del vivere di ognuno.

Ray Bradbury è abile a definire un equilibrio quasi trasparente tra un approccio arcaico e rituale, a quello di un romanzo di formazione, con un trattato di etica che ha il contrappasso nella pena, e nella personale e conseguente redenzione. Le vicende hanno uno stile d’avventura, ben delineato da uno stile di avventura, che assume caratteristiche quasi etologiche.

Vi sono luoghi retorici che invitano il lettore a colorare gli ambienti con i propri ricordi. Ci si sente pittori nel comporre la narrazione mitica del testo, con la singola vita irripetibile di noi che scorriamo gli eventi di questi due ragazzi, dei loro genitori, dell’intera città, e di ciò che sta ai confini e che entrando, muta gli equilibri ed evoca le paure e gli orrori e ciò che è voluto tenere nascosto dagli stessi cittadini.

Il libro richiama le atmosfere degli scritti dell’ottocento e del primo novecento degli Stati Uniti: il circo è il luogo della scoperta, della magia, e della tentazione. Ne sappiamo qualcosa con il nostro Pinocchio. Vi è un senso della colpa puritana, e una voglia di avventura che dai picari spagnoli, ai guasconi francesi, ai nuovi adolescenti di inizio novecento, che offrono una sedia dove noi, accasandoci, ritroviamo gli stadi precedenti del nostro vivere.

Vi è un tentativo di riavvicinamento tra un padre e un figlio, e una voglia irresistibile di dire sì alla vita, e quindi di riconoscere i propri limiti, per determinare le possibilità di migliorare la propria esistenza. Si ride delle proprie sconfitte, incapacità, e fallimenti. La risata che salva, quella che fa riconoscere il cuore di chi sta vicino. L’autocritica salace previene l’assalto della menzogna e della terra di autunno che disperde i colori dell’estate, e che non vuole mutare per i nuovi impegni dell’inverno che sono faticosi e freddi, ma necessari per custodire un nuovo universo ancora da venire.

Non ho voluto dire nulla sulla trama: è un libro di avventura che va letto senza sapere nulla in anticipo. Si gusta ogni avvenimento, perché chiede il coinvolgimento di tutti noi. E ci fa pensare, commuovere e ridere. Già la sapete: è la storia del v(n)ostro vivere.

§CONSIGLI DI LETTURA: L’ESTATE INCANTATA

L’estate incantata di Ray Bradbury, 2019,
(Prima ed. 1957) Collana: Moderni,
Mondadori Milano

L’incanto nella visione di un bambino in una veste animistica. Ogni cosa acquista una vita propria. Il Sole nelle case, nelle mura, le luci. Le stelle che spariscono con un soffio del bimbo per offrire lo spazio per il ciclico tragitto del carro del sole. Le strade che si illuminano come occhi di drago. Arriva l’estate. Lui, Douglas, sveglia tutti. Le luci del mattino delle case si aprono come grappoli nell’orizzonte e nel converso i lampioni nella città si spengono come candele su una torta nera. Voler essere nudo tra gli alberi, portando sulla pelle il freddo del congelatore e il caldo della nonna che arrostisce i polli.

Metafora, sinestesia, allegoria. Per un bimbo tutto è un simbolo che si scopre per ogni oggetto: la magia che porta nuove parole dalle fiabe e dai racconti. Ogni elemento della realtà è uno scrigno di invenzioni.

La città viva che pulsa rigogliosa nelle nuove e crescenti ramificazioni estive per ragazzi che giocano tra il possibile e il reale, tentando di realizzare l’immaginazione negli eventi del mondo.

Gli adulti sono ancora bambini e non lo sanno: ecco perché falliscono. Non riconoscono di esser già quello che di cui vanno perseguendo, ma Douglas e i suoi compagni invece riescono a scorgere il tesoro. La macchina della felicità di Spaulding fallisce miseramente, ma alla fine si accorge che questa è fornita dall’amore della moglie. Il vecchio colonnello Freleeigh cerca di mantenersi in vita riportando il passato nel presente, capendo però alla fine di esser lui stesso la congiunzione temporale, utile e benefica per i più giovani.

La quasi centenaria Loomis che offre nuove vite e altri mondi già accaduti al giornalista Forrester, che la segue abbeverandosi alle sue considerazioni, fino a quelle più preziose.

“[…] In un pomeriggio di primo settembre William Forrester attraversò il giardino di Helen Loomis e la trovò intenta a scrivere. Lei mise da parte la penna e l’inchiostro. «Le stavo scrivendo una lettera» confessò. «Be’, dato che sono qui può risparmiarsi la fatica.» «No, si tratta di una lettera speciale. Guardi.» Gli mostrò la busta azzurra, che chiuse e premette. «Se la ricordi. Quando il postino gliela recapiterà, lei saprà che sono morta.» «Che discorsi sono questi?» «Si sieda e mi stia a sentire.» […]

 «Ma lei non può predire la sua morte» disse Bill. «Per cinquant’anni ho guardato la pendola in salone, William; dopo averla caricata so indovinare al secondo quando si fermerà, e nel mio caso è lo stesso. I vecchi le sanno, queste cose: sentono la macchina che rallenta e gli ultimi pesi che calano sul piatto. Oh, per favore, non mi guardi a quel modo… per favore.» «Non ci posso fare niente» disse lui. «Abbiamo passato insieme dei bei momenti, vero? Le nostre chiacchierate quotidiane erano qualcosa di speciale. C’è una frase abusata in proposito: “l’incontro di due spiriti”.» Helen rigirò fra le mani la busta azzurra. «Ho sempre saputo che la qualità dell’amore viene dallo spirito, anche se il corpo a volte si rifiuta di ammetterlo. Il corpo vive per conto suo, vive per cibarsi e aspettare la notte. È essenzialmente notturno. La mente invece, William, è nata nel sole, e passa gran parte della vita sveglia e all’erta. Si può trovare un equilibrio tra il corpo, pietosa ed egoista creatura della notte, e l’intelletto, fatto per una vita solare e attiva? Non lo so. Ma so che quando la sua mente e la mia si sono incontrate, i nostri pomeriggi in giardino si sono trasformati in qualcosa di unico. C’è ancora molto da dire, ma rimanderemo alla prossima occasione.» […]”

Douglas gioca, si interroga, sperimenta, vede le nascite e gli abbandoni. Da dodicenne qual è sente nel suo intimo l’idea del mutamento e il senso della morte. Prova la disperazione del rifiuto di tutto, inizialmente perché non vuole dipendere da nessuno, dato che tutti prima o poi lo abbandoneranno o moriranno, e le cose come le scarpe da tennis e i giocattoli si romperanno.

“[…] Quindi…! Inalò due profonde boccate d’aria e le espirò lentamente, fra i denti stretti. QUINDI. L’ultima parte la scrisse in tutte maiuscole. QUINDI SE I TRAM, LE MACCHINE, GLI AMICI E I CONOSCENTI POSSONO ANDARSENE PER UN POCO O PER SEMPRE, ARRUGGINIRE O CADERE A PEZZI; SE LA GENTE PUÒ ESSERE ASSASSINATA, SE PERFINO LA BISNONNA, CHE AVREI GIURATO CAMPASSE IN ETERNO, PUÒ MORIRE… SE TUTTO QUESTO È VERO… ALLORA IO, DOUGLAS SPAULDING, A MIA VOLTA UN GIORNO… DOVRÒ… Ma le lucciole, come spente dai suoi lugubri pensieri, non facevano più luce. In ogni caso non posso scrivere più, pensò Douglas. E non lo farò. Finirò un’altra volta, non stanotte. Dette un’occhiata a Tom, che dormiva appoggiato sul gomito, la guancia nel palmo della mano. Gli bastò dargli una spintarella perché Tom crollasse nel letto, silenziosamente. Douglas prese il grande boccale con le lucciole e lo agitò: come vitalizzate dal suo tocco, le bestiole splendettero di nuovo. Douglas guardò l’ultima pagina, che aspettava le sue conclusioni. Invece di scrivere parole andò alla finestra, alzò la zanzariera e liberò le lucciole, che si sparsero di qua e di là nella notte senza vento. Si affidarono alle ali e volarono via. Douglas le guardò scomparire. Se ne andavano come i pallidi frammenti dell’ultimo crepuscolo di un mondo morente. Se ne andavano come gli ultimi brandelli di calda speranza dal palmo della sua mano.

[…]”

Ma l’intimità della sua irresistibile capacità a stupirsi e a notare che anche l’estate prendeva congedo, lo lasciò di nuovo ammirato per i primi doni dell’autunno che lanciava messaggi di arrivo. E anche qui, sentì nel suo intimo l’incanto di questi doni, che, non avendo ancora nomi, la sua meraviglia li portavano in una presenza piena di vita, e con uno slancio poetico tra i suoni e le luci, nuove sinestesie apparvero.

Quest’opera è un formidabile canto dei corsi del vivere, sempre diverso, mutevole, caduco, ma tenace, tra il dolore e il sorriso, nella conoscenza del dolore e nell’abbraccio al tesoro del proprio animo: l’inimitabile patimento del vivere.

§CONSIGLI DI LETTURA: I PICCOLI MAESTRI

I piccoli maestri di Luigi Meneghello, 2013,
prima ed. 1964, Rizzoli, Milano

Tanti lati nascosti ha quest’opera. Racconta i luoghi e gli eventi, immersi in un processo storico in cui l’incanto della natura antropizzata unisce l’antico e il mito. L’autore è anche il protagonista che incarna il mito di Ulisse, ma verso se stesso. Il suo “io” è Itaca. Tutto converge nel suo monologo.

I fantasmi, coloro che sono rimasero adolescenti a metà, li riporta in vita affinché il loro destino sia compiuto in un appuntamento della memoria. Ognun di loro inizia il viaggio per ricongiungersi nella voce di Luigi Meneghello.

L’autore rinnova quelle gesta, scrivendo da adulto, le parole e gli atti della gioventù. Si fa da parte, in modo che i morti riassumano un articolo determinativo. La cornice ha lo scheletro della resistenza dei partigiani tra l’armistizio del giorno 8 settembre 1943 e la fine della seconda guerra mondiale e la cornice dei racconti dei comunisti, dei cattolici, dei libertari, secondo gli inni degli anni cinquanta, degli anni sessanta, e negli anni di “piombo”.

Vi è l’intento di ricollocare la biografia e la cronaca in un quadro depurato dalle retoriche derivate dalla guerra fredda. Ed ecco, quindi, che il mito assume una posa lirica, in cui il protagonista, parla con le montagne e con le valli del Veneto, nella speranza di colloquiare con gli dei, con la natura e con il tempo dei cicli e dei riti. Tutti coloro che furono maestri a metà, perché morti, o fermati dal loro percorso originario di scopi e di speranze, verso di lui si approssimano e si abbeverano alla fonte del suo scritto.

La versione di quest’opera è degli anni settanta, dieci anni dopo la prima pubblicazione. E inizia nel momento in cui lui, ventiduenne, assieme ad altri amici universitari, lascia tutto e va nelle montagne per assumere il ruolo di partigiano.

È una formazione in itinere. Ognuno di loro aveva una razionalità limitata riguardo alla guerra, alle tecniche di resistenza, e alle modalità di organizzare azioni contro i tedeschi e contro i fascisti della Repubblica Sociale. Lo stile all’inizio è quasi simile, all’inizio, a un resoconto di cronaca. È preciso nei dettagli dei luoghi, nella descrizione puntuale dei paesaggi e dei personaggi, fino alla singola piega o strappo di un vestito. Eppure, ed è qui l’effetto caleidoscopico, è anche un romanzo di formazione, perché narra una crescita che parte da una istanza morale: darsi una dignità per sé e per le proprie comunità, dopo il disonore fascista, la vergogna della disfatta, la guerra civile, e l’abbraccio fraterno al sanguinario tedesco.

È delineato un approccio antitetico alle mitopoiesi partigiane e a quelle dei fascisti “buoni” che si scontrarono, si ritrovarono in quel periodo, tra i lutti, le vendette, gli orrori, e le lacerazioni presenti fino ad oggi. I libri e la retorica diaristica e politica negli anni cinquanta e sessanta ponevano sì uno scontro duro, e di rivendicazione, ma ammettendo, nonostante tutto, il valore di chi resisteva e anche di quei pochi, pochissimi che mantennero l’umanità stando dalla parte “sbagliata”, siano stati essi compagni confusi o fascisti.

Luigi Meneghello narra le sue vicende e di quelle dei partigiani di area comunista, liberale, cattolica, o semplicemente di comunità e locale, in una progressiva acquisizione di strategie e tecniche di guerra, di maggiore consapevolezza ideologica, e di un maggiore affinamento delle proprie valutazioni morali, MA non attraverso il mito dell’eroe partigiano, del grande guerriero, della gioventù gloriosa.

Gli eventi topici sono contraddistinti da dubbi, errori ed atteggiamenti goffi quasi comici, all’interno degli epiloghi tragici in cui i suoi compagni morivano così, quasi per sbaglio o incuria.

Tutte quelle persone furono piene di dubbi, di limiti, di pregiudizi, analfabete quasi, neanche tanto intelligenti, piagate dalle malattie, e con disabilità varie. Eppure resistettero nel rifugiarsi nelle montagne, negli attentati, nel sopportare la fame e il freddo, nel morire malamente e nell’attuare una lotta clandestina in pianura, dentro le città. Nel litigare tra comunisti, socialisti, comunisti antisovietici, liberali, repubblicani, realisti, cattolici proto ecumenici, e quelli ortodossi, e contro la grande maggioranza amorfa, suddivisa nelle preoccupazioni quotidiane e in un fascismo di convenienza, pronta ad aderire al potente di turno.

La narrazione assume toni comici, nonostante il racconto si snodi tra tragedie e toni lirici e commoventi, nel recepire il senso ancestrale delle comunità in rapporto al paesaggio natio. E qui vi è un nostro errore prospettico di lettori. Luigi Meneghello non voleva risultare comico mentre scriveva, perché siamo noi oggi, ad avvertire lo scarto delle retoriche del valore, degli eroi, e di come queste siano piccole, semplici, tronfie rispetto all’oceano degli eventi che accaddero. Un popolo debole, corrotto dalle proprie bugie, che si trova ad affrontare una realtà che consapevolmente contribuì ad evocare.

Eppure, nonostante le avventure maldestre e picaresche, Luigi Meneghello è indulgente verso il giovane che fu e verso tutti gli altri, gran parte uccisi e rimasti giovani lì, per sempre. È un padre che si avvicina e li abbraccia, perché, nonostante tutto, in modo irriflesso, inconscio, rozzo ebbero una caratura etica, tesa all’estremo sacrificio per di mantenere una postura dignitosa nella tensione verso la libertà con le mani aperte, callose, ma pulite.

§CONSIGLI DI LETTURA: IL GIUOCO DELLE PERLE DI VETRO

Il giuoco delle perle di vetro di Hermann Hesse,
1990 (Prima pubblicazione: 1943),
Mondadori, Segrate, Collana: I Meridiani,
Traduttore: Ervino Pocar

Il giuoco delle perle di vetro” è una sinestesia tra le scienze e le arti, da una frase di Confucio, si passa ad una fuga, che si tramuta, bicefala, in un dipinto e in una poesia.

Il protagonista, Knecht, all’inizio del suo interrogarsi su sé e sul mondo, compie l’errore di voler saggiare il METODO ESATTO di questa sinestesia universale che è il giuoco delle perle di vetro. Intende manifestare la struttura, lui, singolo dell’universale che è il tutto, compiendo una grave contraddizione.

Castalia e il giuoco delle perle di vetro. L’apparente inutilità che ricerca, nel gesto estetico, di collocarsi entro la propria limitatezza, nella cognizione che tale semplicità non possa escludere la grande manifestazione del sensibile e del corpo. Vi è una ripresa poetica della dualità tra le idee e il mondo neoplatonico, stilizzato dai tedeschi del 1700-800.

Castalia un ritorno all’adolescenza. Alle promesse inevase.

Questo romanzo non è un compimento di un’opera e del lavoro correlato. È una individuazione provvisoria del percorso di crescita che Hermann Hesse tentò di praticare nel corso del suo vivere intellettuale e artistico.

L’arte è anche pedagogia. Lo scrittore nel parlare del mondo, del vivere e del bello, quindi delle arti, può dichiarare la sua funzione nell’accompagnare il cammino del pubblico verso il godimento e la riflessione estetica, la quale, se veramente vissuta, comporterebbe una migliore consapevolezza etica di sé nel mondo.

Non è un caso che nei romanzi giovanili, oltre a narrare dei turbamenti della nuova soggettività del secolo 900 che comparve con sua dignità autonoma, l’adolescenza dispiega le sue ricerche nelle arti come la pittura e la musica. La crescita dell’artista non è solo quella eroica e magica dell’illuminato, ma anche di quella dell’infante che si fa adulto. Il buon cammino estetico è parte necessaria e integrante dello sviluppo del giovane e dei popoli. La pedagogia è impossibile che non sia dotata dell’educazione e della pratica nel gusto e nella produzione artistica.

La maggiore consapevolezza nel conoscere i turbamenti derivati dalla propria limitatezza rispetto al sapere, al destino e al vivere e al morire, è concomitante all’incapacità di sottrarsi a tale giogo, perché è il nucleo del senso di sé. E del tempo in cui si vive.

Il romanzo di formazione dell’ottocento, nell’opera di Hesse si trasforma nella stenografia del vivere di ogni essere vivente. L’adulto è il risultato momentaneo e in divenire di questo libro che giunge a gradi infinitamente estesi nell’esprimere l’arte, il gioco e il pensiero. Tale cammino, pone se stessi come il problema da distendere nel tempo nel comunicare ciò che è oltre sé.

E proprio perché Hermann Hesse visse prima, tra e dopo le due guerre mondiali, tentò di reagire a suo modo, contribuendo tenacemente, nonostante le depressioni, le limitazioni fisiche e l’inesorabile vecchiezza, ad esprimere una assonanza tra il giovane che rimane nel buio e non vuole riconoscere la menzogna che, tuttavia, preavverte, e gli stati e i capi che, nel percorrere esclusivamente un cammino teso ad acquisire sempre più potenza, entrambe le parti sembrano non comprendere che in realtà dilaniano se stesse. Tutti rimangono nella piatta visione della sopraffazione, senza fine, senza avanzamento in una stasi di morte, cecità, dolore. Permane l’impossibilità a mantener fede al proprio destino di proseguire un cammino nel mondo e nel tempo, fino al proprio ed inevitabile compimento.

L’elemento più dilaniante per Hermann Hesse, fu che le stesse arti erano usate e generate per alimentare pratiche inedite dell’orrore. Il giuoco delle perle di vetro è un percorso di formazione che riprende lo spirito della pedagogia generato dai millenni, tramandato per analogia a partire dalle forme della filosofia greca, abbracciando le filosofie orientali, e innestandole nello spirito scientifico moderno, per creare un orizzonte più ampio rispetto alla visione della guerra contemporanea e quindi a quella artistica ad essa correlata.

Il giuoco delle perle di vetro non è descritto in modo preciso, e non può che essere così, perché il titolo già racchiude gli indizi. È un libro aperto di formazione dei protagonisti, del lettore e della loro trasfigurazione, che, attraverso il rispettivo congedo, lascia nuovi spazi di possibilità di esistenza per gli altri che stanno sopraggiungendo. È un giuoco infinito, senza uno scopo e un premio accertato, perché ha l’orizzonte stesso di senso come regola, e di vetro, perché è consapevole della propria limitatezza e quindi della sua indefinita possibilità di manifestazione, per il singolo lettore, per il giocatore del presente e per tutti quelli che forse verranno. Perché il giuoco è questo mio e tuo vivere.

§CONSIGLI DI LETTURA: I TRE MOSCHETTIERI

TRATTO DA: I tre moschettieri / di Alessandro Dumas ; versione di Angiolo Orvieto. – Napoli : G. Rondinella, 1853. 4 v. ; 16 cm.; vol. 1 216 p., vol 2 216 p., vol 3 180 p., vol. 4 211 p.

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“I tre moschettieri” (Les trois mousquetaires) è un romanzo d’appendice scritto dal francese Alexandre Dumas con la collaborazione di Auguste Maquet nel 1844 e pubblicato originariamente a puntate sul giornale Le Siècle. È uno dei romanzi più famosi e tradotti della letteratura francese che ha dato inizio ad una trilogia: Vent’anni dopo (1845) e Il visconte di Bragelonne (1850).

I tre moschettieri del titolo sono Athos, Porthos e Aramis, a cui poi si aggiunge il protagonista del romanzo, D’Artagnan.

I “Tre Moschettieri” in questa traduzione del 1853 a cura di Angiolo Orvieto offre un’occasione per comprendere lo spirito dei contemporanei a sognare e a vivere le gesta di questi intrepidi nei primi decenni del 1600 in Francia presso la corte di Re Luigi XIII assieme al cardinale Richelieu.

Il testo nela traduzione in italiano è un ottimo indicatore nel rilevare i termini in lingua italiana “alta” in uso nella prima metà dell’ottocento, quando ancora l’unità d’Italia era in divenire. Vi è una doppia lettura riferita allo stile di Alexander Dumas e a quella del romanzo moderno italiano che proprio in quei decenni Alessandro Manzoni stava tessendo.

La traduzione non è una semplice trascrizione, ma è una vera e propria interpretazione stilistica e produttiva di nuovi stili in prosa nella lingua italiana.

Alexander Dumas scriveva i romanzi a puntate per pubblicarli via via nelle riviste di uscita bisettimanale o mensile. Vi sono ridondanze e richiami tra i capitoli e addirittura tra un romanzo e l’altro. Le riviste costavano poco ed erano facili da stampare e diffondere. Erano grandi faldoni di carta grezza piegati in quattro parti circa, da ritagliare e ricomporre mediante le pagine numerate. Era un lavoro lungo, ma piacevole: si pregustava l’arrivo per posta o la compera nell’edicola, se si abitava nelle grandi città vicino alle tipografie. E si aveva l’idea al tatto e all’odore della consistenza dell’episodio o del racconto. Lo si percepiva nelle proprie braccia, prima ancora degli occhi.

Come nel “Conte di Montecristo”, o nel romanzo “La Sanfelice”, Alexander Dumas è abilissimo a incasellare gli eventi e i personaggi storici con quelli di fantasia, e riesce a presentare scenograficamente gli ambienti e i modi di fare dell’epoca. Le digressioni accompagnano il lettore nello spiegare il modo di agire dei protagonisti, i loro pensieri e i modi di concepire il mondo. E il bello è che noi riusciamo anche a comprendere il modo di sentire e di vivere dei contemporanei dello stesso autore.

Alexander Dumas, massone e repubblicano, filo garibaldino, era abilissimo nel ridicolizzare indirettamente i re, i cardinali, i nobili in tutte le loro piccolezze. Paterno del mostrare le debolezze dei protagonisti con simpatia e talvolta con severità. Aveva una memoria prodigiosa che rendeva leggera la descrizione degli eventi storici passati, i nomi degli strumenti della vita quotidiana e l’organizzazione sociale. Il lettore si sente a suo agio nell’essere guidato nel contesto degli avvenimenti.

I “Tre moschettieri” è un romanzo che è utile leggere oggi perché, oltre a essere un capolavoro e una figura topica del nostro immaginario, prospetta una nuova fonte cui attingere esempi per la nostra capacità di immedesimazione, emulazione, e creatività, in particolare del nostro futuro. I tre moschettieri e D’Artagnan anche  provenendo da classi sociali e storie radicalmente diverse, diventano amici. Vivono assieme, non formano solo un gruppo, ma una vera e propria comunità di apprendimento, e ciò è valido anche per i loro lacchè. Crescono assieme dichiarando le proprie debolezze, cooperando lealmente e a viso aperto.

Nonostante che alcuni di loro fossero già più che adulti per l’epoca, mantengono una disponibilità ad apprendere, giocare, progettare, agire con risolutezza, in modo giovanile, cioè fresco, creativo e innovativo. La lealtà, la comunanza, l’affidamento, costituiscono la spinta per migliorare dal punto di vista morale, relazionale (ed anche economico), nonostante i vizi e le debolezze.

È importante leggere questo romanzo, perché, a differenza dei lettori contemporanei ad Alexander Dumas e ai tempi dei nostri padri, qui in Italia siamo ora un popolo con pochi giovani e con figli unici. La capacità di cooperare e di giocare assieme, accettare gli errori e le ignoranze altrui, per farle proprie nel condividere un comune percorso di apprendimento, non è più scontata. Fratelli e sorelle si alimentano l’un l’altro di creatività, di idee, e di progetti per il futuro, anche improbabili e fantastici e di lì verso il gruppo dei pari.

Oggi non vi sono tanti fratelli e sorelle, e i gruppi dei pari sono asfittici. La chiusura di sé rende povero e pigro il proprio bagaglio emotivo.

I “Tre moschettieri” sono un giardino nel quale è possibile entrare sorridendo nel mirare la bellezza e la mutevolezza dei colori, oltre ai profumi, intensi alcuni e leggeri altri. E da questi rivedere il nostro corpo nel fantasticare nuove immagini di ciò che potremmo essere, che è appunto la spinta naturale di chi è giovane mentre cammina verso il suo futuro.

§CONSIGLI DI LETTURA: Le avventure di Tom Sawyer

Mark Twain

Le avventure di Tom Sawyer

Titolo originale dell’opera:The Adventures of Tom Sawyer

Traduzione di Bruno Oddera

© 1987 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione e-book Reader ottobre 2000 http://www.mondadori.com/libri

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Come ritornare a giocare con se stessi. Mark Twain narra le vicende di personaggi che racchiudono tratti caratteriali e comportamenti dei compagni e degli adulti della sua infanzia. Non è però un romanzo autobiografico, perché le vicende mostrano situazioni tipiche per giovani della seconda metà dell’ottocento, nelle terre di mezzo degli Stati Uniti, pochi anni dopo la guerra di secessione.

Il tempo che scandisce la narrazione è scandito dai luoghi e dagli appuntamenti di crescita dei giovani, che proprio in quei decenni, per la prima volta nella storia, iniziavano ad assumere quello stadio della vita, prima sconosciuto, che va dalla fase prepuberale alla fine dell’adolescenza. La vita inizia ad allungarsi, e così anche il tempo della scuola che diviene generalizzato.

In modo sottile, Mark Twain mostra le disparità della schiavitù con gli occhi giocosi di un bambino, che, nel contravvenire alle consuetudini gioca e addirittura mangia assieme con adulti e ragazzi di colore. Nei vari capitoli, quasi timida, appare la parola “schiavo”. L’ingiustizia, il razzismo e le differenze sociali emergono attraverso la morale dei bimbi. È un simpatico inganno che l’autore gioca al lettore nel farlo divertire: pone temi duri e conflittuali degli Stati Uniti, attraverso le comiche conseguenze per tutto il villaggio, causate dalle marachelle dalle piccole pesti disubbidienti.

È un romanzo di formazione dove più che il singolo maestro o precettore guida il percorso, è lo stesso villaggio e i luoghi circostanti, come il fiume, il bosco, la casa stregata, la caverna, l’isola. Gli stessi adulti, predicatori e giudici, risultano ridicoli nell’adempiere ai loro ruoli, e spauriti come i ragazzi nell’affrontare le sorprendenti vicende che via via si manifestano nel corso della storia.

Gli adulti sono ridicoli e prevedibili quanto i ragazzi, con la differenza che questi ultimi cercano di esserlo, nell’imitare le stesse autorità famigliari e cittadine.

È un libro universale perché le ragazze e i ragazzi crescono nel comprendere la relatività dei comandi assoluti impartiti dai contraddittori e bugiardi adulti, e dalla complessità della realtà che può risultare accogliente, invitante, e mortalmente pericolosa nello stesso istante.

Tom Sawyer assieme a Huckleberry Finn svolgono la funzione di mediatori tra il luogo natio che promette ogni giorno di essere il luogo sicuro e ciò che è al di là, talvolta duro e respingente, ma necessario per la sopravvivenza di tutti.

La scansione degli eventi è data dalle capacità di apprendimento e di rielaborazione da parte dei ragazzi nel risolvere i problemi dovuti a mancanze oggettive materiali e a desideri transitori, che hanno lo scopo di una soddisfazione momentanea come quella di mangiare un dolce, rubare una zolletta di zucchero, fino a provare se al di là della collina vi siano tesori nascosti sotto gli alberi.

I ragazzi tentano continuamente di porre spiegazioni all’imprevedibilità, riformulando le storie, le spiegazioni degli adulti, piegandole ai loro interessi. Sono irresistibili nelle loro coerenti deduzioni che si basano però su assunti infondati, e analogie presupposte, che mostrano nozioni incerte e oscure.

Però, fino a qui, sembrerebbe un romanzo che esterna la sola goffa ingenuità del giovane che procede a tentoni per l’inesperienza dei fatti del mondo. Non è solo questo, perché Mark Twain, mostra indirettamente come i ragazzi, anche quelli discoli, ribelli, scansafatiche, malandrini, ragionano secondo le logiche e i dettami e gli ESEMPI, portati dagli adulti. L’assurdo dei loro ragionamenti esprime nel modo più coerente, l’insieme delle ipocrite omissioni delle zie, delle madri, dei maestri e dei predicatori.

Le disastrose conseguenze che portano le piccole pesti, sono così esagerate, perché tutti questi ragazzi sono sinceri nel mostrare l’avidità, l’invidia, la gelosia, la brama, l’aggressività, tutte però transitorie e sminuite l’attimo dopo, perché sublimate nel gioco, nella costante volontà di ricreare loro stessi il mondo degli adulti. Insomma: i ragazzi sono sinceri e proprio per questo, nessuno di loro mostra l’ipocrisia.

La sincera disposizione a mostrare le reali intenzioni dei loro atti, mostra le falle etiche delle convenzioni sociali.

L’irresistibile fascino di questo romanzo, però non può essere ridotto a una edificante riconoscenza verso i giovani che, loro malgrado, e quindi in piena sincerità, tengono viva la torcia che illumina lo specchio interiore degli adulti. Mark Twain scrivendo il libro, ritorna su se stesso. Prende alla lettera la spinta dei giovani protagonisti a conoscere, attraverso il gioco e lo compie seriamente.

E non può che essere così, perché il bimbo quando gioca, è serissimo: ricostruisce un mondo dentro di sé e amplia lo spettro delle possibilità nel divenire adulto. L’immaginazione rispetto al luogo offerto dagli adulti, e la fantasia come motore di realizzazione di nuovi mondi, e quindi nuova vita, costituiscono la testimonianza del patrimonio di una comunità che si perpetua rinnovandosi nel corso della vita dei singoli.

Non vi è bisogno di assumere un tono che ammonisce ed esorta a comportamenti più commendevoli, perché il gioco del bimbo che diventa uomo, è connotato da regole morali, che impongono la coerenza, la spinta ad apprendere e la sincerità nell’esprimere gli intendimenti. Tutto questo vale per ogni bimba e bimbo che giocano assieme in tutto il mondo, di tutte le razze e lingue.

L’universalità di questo libro è offerta dallo stesso autore che, ritornando su stesso, presta ascolto, a colui che da sempre lavora nel mantenere il suo senso del tempo e ordine del mondo: il bimbo che è stato.

Attraverso l’ironia, lo scherno, l’entusiasmo goffo dei bimbi, il romanzo invita il lettore a ritornare su stesso, e riportarlo fuori, nella sincerità dei propri intenti e lasciando libera la voglia di conoscere, senza il timore che la propria maschera di adulta risulti ridicola o in fallo.

 Tom Sawyer ci chiama fuori da casa, per venire a giocare con lui, perché vi è tanto da fare: nascondere tesori, cioè la propria immaginazione; salvare vite umane, ovvero innaffiare la sete di conoscenza, ad esempio trasformando quattro assi di legno galleggianti in veliero che viaggia alitato da vento e dai secondi di ciò che si è stati.

§CONSIGLI DI LETTURA: FACCIO MUSICA

Ezio Bosso Faccio musica Scritti e pensieri sparsi. A cura di Alessia Capelletti Prefazione di Quirino Principe.

Che bel dono che ci hai fatto con il tuo vivere Ezio Bosso..

Che regalo è questo libro nel camminare tra note e timbri di vita, tra suoni del cuore e melodie di concetti, trascritti in una biografia itinerante ancora in corso per noi lettori, e compagni di strada.

Il colloquio di Ezio Bosso, suddiviso in argomenti editoriali, individua un flusso continuo dell’impegno ad agire, praticando musica tra valori e pratiche di vita, dove il proprio vivere è anche uno strumento che riverbera il tratto comune di ogni vivente che esperisce la bellezza.

Poiché il mutamento delle onde sonore distillate nei secondi che scandiscono il ritmo del proprio passare nel tempo, cantano del panorama delle emozioni che passano dallo sgomento, al timore, e allo stupore, l’orizzonte è ordinato da un impegno etico, in cui si dichiara la testimonianza del proprio impegno a dire di sì al vivere che è bello, e che di tutti è l’essenza e quindi impossibile da afferrare e a ridurre come oggetto. La comunanza con ogni altro vivente incarna la pratica di questa testimonianza: vivere nella bellezza che è buona e saggia, provando la propria limitatezza infinita, nell’impossibilità a fermarsi in una opinione o in punto di vista che si crede perno del mondo e degli altri.

Nella consapevole sincerità di non poter negare ciò che nel bello noi si sia destinati per ogni desiderio più recondito anche se oltraggiato da pulsioni malevole, l’agire comune si individua singolarmente nel fare e nel patire della musica, come messaggio universale di vita, che è buona e infinitamente meravigliosa, anche all’interno del nostro ciclo limitato di vita in cui noi stessi ci facciamo risonanza di questa eterna melodia.

Comune è a tutti, ma per qualcuno, l’impegno è così coerente e limpido da poter essere accreditato come esempio vivente cui noi si possa trarre agio e sicurezza, nell’accostarci in questa ala protettiva. Le parole del libro invitano ad aprire le nostre possibilità di esistenza, che da sempre attendono la nostra attenzione, ma che, richiedono impegno e sincerità, che è appunto il vivere incarnato da Enzo Bosso.

Il suo vivere attraverso il suo corpo è l’indicazione di una strada percorribile dal lettore: una possibilità di vita.

Pag. 18 “[…] Oggi ho capito che un vero Maestro non è chi ti dice cosa fare, ma chi capisce chi sei e ti indica il tuo cammino […]”

Perché con la musica si nasce e si rinasce: si fa, e si fa noi stessi.

Pag. 24 “[…] La musica trascende e ci fa trascendere. Dai nostri difetti come dalle nostre difficoltà. È stata una vera rinascita, sì l’ho vissuta come una rinascita, ma con la memoria di una vita passata o tante vite passate. […]”

Tante vite passate che si riverberano nei limiti e negli impedimenti che si hanno nel vivere musicando, come le esigenze economiche, i progressivi impedimenti fisici che obbligano a ritornare indietro, per rendere presente l’attimo iniziale di studio. Proprio ciò che era considerato un limite dai più, cioè la tendenza a non fermarsi a musicare con un solo strumento, ma ad agire attraverso e intorno le orchestre, componendo all’interno di ogni sezione, e dirigendo attraverso il pianoforte, nelle infermità, divenne una risorsa atta a percorre nuove strade di vita e quindi sonore.

Tale unicità coinvolge il suono integrandolo tra fiato, percussione, arco, e tasto: il timbro di un uomo suona ogni singolo strumento, pensandolo come un’intera orchestra.

Pgg. 37-8 “[…] Noi siamo ciò che amiamo, noi siamo il risultato dell’amore, perciò quando componiamo, quando creiamo partiamo da ciò che amiamo. Ed è inutile e, a parer mio, anche un po’ stupido, pensare di essere il futuro, ma la vera responsabilità di un compositore è di essere il ponte che collega il presente col futuro. Poi io preferisco dire: scrivere musica. E non comporre musica, mi sento uno scrittore di musica. […]”

Essendo l’amore è una tendenza infinita, il movimento del musicare è un divenire del miglioramento di sé che si nutre anche dell’ascolto, e ciò, come in un solfeggio dall’alto in basso, riverbera tale mutamento nel proprio compagno orchestrale e nel pubblico, che sente allargare il suo spazio estetico.

Pag. 42 “[…]  Alla fine, se il disco è una foto, io non voglio una mia foto perfetta, ma voglio una foto di cui il pubblico, l’ascoltatore possa magicamente sentirsi parte di quella foto, protagonista di quella foto, possa sentirsi dentro quella foto. […]”

Perché il pubblico, l’esecutore, il compositore, tutti, entrano in ogni nota che è il teatro in cui la scena del vivere di ognuno trascende in un atto di comunanza che dichiara la responsabilità della bellezza in dono per incarnarla. Tutti diventano belli nel partecipare di ogni nota che è il timbro della bellezza, attraverso il suono.

Proprio perché ognun di noi è strumento che conferisce il senso al suono, nel linguaggio delle note, per ogni singolo accadimento, vi è l’infinito miglioramento nel renderci consapevoli di essere da sempre in una comunità musicante.

Pag. 76 “[…] perché alla fine di tutto una musica per essere davvero libera entra nella pancia, passa per il cuore e fa muovere la testa. E quando queste tre cose si muovono insieme diventiamo noi stessi davvero liberi. […]

Pag. 100 “[…]  Per questo io parlo di musica libera piuttosto che di musica classica. Ti costringe a essere ponte fra passato e futuro, a liberarti da te stesso. La nostra è una società che ha bisogno di definire e non ti permette di essere te stesso. […]

Fare la musica assieme.

Pgg. 116-17 “[…] La tv è la tv e io voglio uno studio televisivo, voglio i lustrini, le luci colorate, perché la vera scommessa non è portare il teatro, l’auditorium così com’è in tv, quello lo fa Rai5 e tocca sempre le solite corde già suonate, ma fare della musica di Beethoven un soggetto della tv per ciò che è la tv popolare, quella che entra nelle case e diventa il focolare attorno a cui vive la famiglia italiana. Quella che c’è anche quando non l’ascolti, quando non l’hai accesa tu, ma tu sei lì e magari ti fermi e la guardi. Tu pensi a un documentario, perché è più facile e scontato, ma io no, io voglio Beethoven protagonista della tv nazionalpopolare e ciò nonostante fatto bene, benissimo, fatto al massimo delle nostre forze, per tutti. […]”

Più volte è scritto che aveva una fragilità di cristallo imperniata su una determinazione di ferro a proseguire con disciplina e dignità da e verso il suo operato.

Fu un diamante duro, inscalfibile, ma con la possibilità di crepare internamente per suoni rancorosi, contraddistinti da una aggressività gratuita.

L’intento di rendere la piazza, un teatro concertante tra il pubblico, gli interpreti e i compositori mostra indirettamente la condizione dell’accesso al pubblico, a ognuno di noi, nel partecipare attivamente al suono che è il timbro musicale di una comunità. E non è un caso che Ezio Bosso nelle diverse interviste del libro ritiene che la visione politica della musica come mero intrattenimento sia la condanna a morte di essa.

Gli attacchi che ebbe Ezio Bosso furono così duri, irragionevoli perché, al di là dei suoi intenti pedagogici e musicali, egli attuò una pratica politica a tutto campo di partecipazione democratica che mostra la possibilità di ognuno di incarnare pienamente la propria cittadinanza alla bellezza.

Ezio Bosso prima di suonare ci fa entrare nella sua dimora sonora. È colui che apre la porta, e indica il luogo dove ognuno possa stare a suo agio: “fa entrare la gente” nella musica, sia lo spettatore sia l’esecutore. Tutti assieme in un convivio in cui le note ricevono timbro e frequenza in base alle esigenze dei singoli. Qui si connota l’incontro musicale partecipato che trascende l’armonia interiore delle aspettative ludiche, estetiche e corporee dei partecipanti.

La dimora trasmuta in una piazza che trascende il luogo in cui avviene l’incontro per investire in differita nella linea del tempo, altri ospiti che ricevono ulteriori appigli per incontrare l’avventura inesausta di quella voce che rende simile il dissimile: la musica come origine dei linguaggi.

Ci si potrebbe domandare cosa volesse dimostrare Ezio Bosso con il suo approccio fisico, totale, nel fare musica:

pag. 247  “[…] Non ho niente da dimostrare. Per me bisogna ritornare allo scambio. Nello statuto che abbiamo fatto, nella casa che vorrei, tutti partecipano perché di fatto tutti partecipano e completano il fenomeno della musica. Lo completano attraverso che cosa? Attraverso la cosa più profonda che esiste: il silenzio condiviso. Come dico spesso in alcuni miei concerti: «Prendetevi la responsabilità del silenzio del vostro vicino. Non del vostro», un po’ petrolinianamente. Però sei tu responsabile, sei tu che devi spiegargli cosa succede a stare in silenzio, a non guardare il telefono, a spegnere il telefono. […]”

Il testo descrive la sua musica itinerante nella quale si evidenzia l’etica che predispone l’offerta di sé, fino a simulare la propria scomparsa, ma, che in realtà, nell’atto sonoro, ritorna tutto se stesso, pieno con la traccia di tutti, assisi lì e qui in un convivio continuo. La relazione è attorno e oltre la comunicazione inter mediatica del clic e della condivisione, nell’attimo che nega di essere una successione di un atto in un discorso sordo.

Ezio Bosso, invece, non usa complementi di specificazione od oggetto. No. Si lancia dentro l’atto musicante e se si è musicisti e pubblico in quel momento, è impossibile non seguirlo, e quindi dimenticare tutti noi stessi, nel seguire la corrente di questo tempo che trascende il singolo giudizio. Tutti perennemente inadeguati per la spinta irresistibile a questo bello primordiale, e mai compiuto.

Che bel dono che ci hai fatto con il tuo vivere Ezio Bosso..