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CONSIGLI DI LETTURA: L’INVENZIONE DELLA SOLITUDINE

“L’invenzione della solitudine (The Invention of Solitude) 1982, Ed. Italiano 1997, Einaudi, Torino, di Paul Auster (Autore), Massimo Bocchiola (Traduttore)

Cosa si potrebbe dire di Paul Auster? Il ritmo della narrazione è intimamente correlato con l’evento, tradotto nel fatto narrato. Lo stile è parte integrante del messaggio, e, nello scorrere del testo si apre come una gondola che culla il lettore navigando nelle acque della scrittura.

Sembra così naturale il modo in cui narra. Rievoca riflettendo nell’uso di stili diversi e cambiando con una eccellente appropriatezza il timbro degli aggettivi, li aggroviglia con partitivi aggettivali e predicativi in una spirale senza fine. Eppure ciò si integra in una cadenza piana, traslata in una esposizione lineare delle linee del racconto che, in modo armonico, espone lo sviluppo della trama.

La soffice e leggera scansione degli eventi, nasconde il pensiero a più dimensioni parallele di Paul Auster, mentre scrive. Non è dato sapere se avesse già in mente una disposizione così complessa e ben integrata. Il punto è che o se all’inizio, o durante la scrittura, o nelle successive revisioni, alla fine, emerge questo fiume lento di parole che è in realtà una individuazione di diversi piani tematici, innestati su una varietà impressionante di stili di scrittura. Il monologo apre una doppia finzione di un dialogo tra lo scrittore e i personaggi assenti. Dai tempi passati, a quelli rievocati, che giocano con l’interpretazione della loro relazione in un participio passato che allontana lo scrittore nel momento in cui rievoca.

I verbi e i modi sembrano orbite di un sistema solare, dove la stella pulsa una ciclica riflessione a una domanda.

Il libro è composto in due racconti. Si parte dell’esperienza luttuosa della morte del padre, con la quale si inizia un percorso inverso di memoria per riportarlo in vita rispetto al figlio, che già lo vedeva assente da anni. La seconda parte è dedicata a suo figlio, e qui vi sono giochi di specchi rispetto alla precedente sezione.

Il protagonista è lo stesso scrittore che declina in una serie di rimandi a più opere che viaggiano parallele a un tratto, incidenti in un altro, coincidenti fino ad essere completamente divergenti, mantenendo ognuna la gamma degli espedienti letterari classici di narrazione.

Quest’opera forse può essere anche intesa come un diario di memorie che fabbrica un romanzo per creare una vita di relazione tra il padre e il figlio, mai accaduta, e una riformulazione di domande fondamentali che rappresentano il vivere stesso dell’autore, attraverso la sua individuazione di scrittore.

Questo romanzo rende di più nella lettura in lingua, in particolare dell’anglo americano del nord est, che si immerge in una variazione armonica da un tono alto, elegiaco, a quello colloquiale, aneddotico e popolare. Il tono umoristico nella lingua italiana è più attenuato nei mottetti di spirito, nei giochi di parole, nei riferimenti alle ricette culinarie, ai personaggi televisivi, e più in generale alla cultura pop rievocata in lampi di frasi. Questi ultimi, però, nella cultura profonda degli USA, hanno significati che rimandano a luoghi retorici e a stereotipi sui caratteri delle persone, sui modi di dire, sulle frasi fatte, sul patrimonio di senso comune.

33-34 “[…] Quando ho iniziato credevo che tutto sarebbe sgorgato spontaneamente, come l’effetto di una trance. Tanta era l’urgenza di scrivere che pensavo che la storia si sarebbe fatta da sé. Ma fin qui le parole sono uscite cosí lentamente: anche nelle giornate piú produttive non sono mai riuscito a scrivere piú di una pagina o due. Come fossi malato, inchiodato da un’incapacità della mente a concentrarsi su quello che sto facendo. Piú volte ho visto i miei pensieri volare via dal lavoro che ho di fronte. Non fa in tempo a venirmi un’idea che questa ne evoca un’altra, e poi un’altra, finché i dettagli non si accumulano cosí fitti che mi sento soffocare. Mai prima d’ora avevo percepito tanto chiaramente lo spazio che divide pensiero e scrittura. Negli ultimi giorni, in realtà, ho avuto la sensazione che la storia che sto tentando di scrivere sia come incompatibile con il linguaggio, e che il suo grado di resistenza a esso dia la misura esatta di come sono vicino a dire qualcosa di importante. Poi, quando arriverà il momento di dire l’unica cosa importante (sempre ammesso che esista), non ci riuscirò. C’è stata una ferita, e scopro adesso quanto fosse profonda. Invece di guarirmi come pensavo, l’atto di scrivere l’ha tenuta aperta. Ne ho sentito anche il dolore, concentrato nella mia mano destra, al punto che ogni volta che prendevo la penna e la premevo sul foglio la sentivo straziata, dilaniata. Invece di compiere la sepoltura di mio padre queste parole l’hanno tenuto in vita, forse adesso piú che mai. Non solo lo vedo com’era, ma com’è ancora, come sarà, e tutti i giorni è qui a invadere i miei pensieri penetrandovi furtivo, senza preavviso; disteso nella bara sotto terra, col corpo ancora intatto, le unghie e i capelli che continuano a crescere. Ho l’impressione che, se voglio capire qualcosa, dovrò entrare in quell’icona di tenebra, penetrando l’oscurità assoluta della terra. […]”

7-12 “[…] Ancor prima di fare i bagagli e partire per le tre ore d’auto che ci separavano dal New Jersey, sapevo che avrei dovuto scrivere di lui. Non avevo un progetto, né una precisa idea di che cosa questo volesse dire. Non ricordo nemmeno di averlo stabilito. Semplicemente era lí, come una certezza, un comandamento che cominciò a imporre la sua legge nel momento in cui appresi la notizia. Pensai: mio padre non c’è piú. Se non faccio in fretta, tutta la sua vita scomparirà con lui. Riflettendoci adesso, anche da una distanza breve come tre settimane, quella reazione mi pare molto strana. Da sempre ero convinto che la morte mi avrebbe stordito, paralizzato di dolore; ma adesso che era accaduto, non versai una lacrima, non mi sentii come se il mondo attorno a me fosse crollato. Chissà come, mi scoprii preparato ad accettare la sua morte, per inaspettata che fosse. A turbarmi era un altro pensiero, staccato dalla morte di mio padre e dalla reazione che mi suscitava: il constatare che non aveva lasciato tracce. Non aveva moglie, né una famiglia che dipendesse da lui, nessuna vita sarebbe stata modificata dalla sua assenza. Forse per un attimo avrebbe spaventato un gruppetto di amici, scossi non meno dall’idea dei capricci della morte che dalla perdita subita; ma sarebbe stato solo un breve cordoglio, poi piú nulla. Come se non fosse mai vissuto. Era assente già prima di morire, e le persone piú vicine a lui avevano imparato da un pezzo ad accettarne l’assenza, considerandola il tratto piú essenziale del suo essere. Adesso che se n’era andato, non sarebbe stato difficile per il mondo assimilarne la scomparsa definitiva: la natura della sua vita – una specie di morte anticipata – aveva preparato il mondo circostante alla sua morte, e se e quando lo avessero ricordato, sarebbe stato una memoria vaga, niente piú che vaga. Digiuno di passioni per le cose, le persone o le idee, incapace o avverso a svelarsi in qualsiasi circostanza, era riuscito a mantenersi staccato dalla vita evitando di tuffarsi nel vivo delle cose. Mangiava, andava al lavoro, aveva amici, giocava a tennis, eppure non era presente. Era un uomo invisibile nel senso piú profondo e piú concreto: invisibile agli altri, e molto probabilmente anche a se stesso. Se da vivo continuavo a sondarlo cercando in lui il padre che non c’era, sento ancora il bisogno di cercarlo da morto. La sua morte non ha cambiato nulla. L’unica differenza è che mi manca il tempo. È vissuto da solo quindici anni. Caparbio, opaco, come immune dal mondo. Piú che un uomo che occupa uno spazio, sembrava un blocco di spazio impenetrabile in forma di uomo. Il mondo lo colpiva di rimbalzo, gli sbatteva contro, a volte aderiva a lui, ma non lo attraversava mai […]”

53-55 “[…]  Per tutta la vita sogno di diventare milionario, di essere l’uomo piú ricco del mondo. Non desiderava tanto il denaro in sé, ma ciò che esso rappresentava: non solo il successo agli occhi del mondo, ma uno strumento per rendersi intoccabile. Possedere denaro non significa soltanto la possibilità di comprare le cose, ma anche la certezza che il bisogno universale non ti toccherà mai. Denaro come protezione, dunque, non come voluttà. La povertà sofferta da bambino, e la conseguente vulnerabilità ai capricci del mondo, gli resero la ricchezza sinonimo di immunità dal male, dalle sofferenze, dall’essere vittima. Non cercava tanto di comprarsi la felicità quanto l’assenza di infelicità, e i soldi divennero la panacea, l’oggettivazione dei suoi desideri piú profondi e inesprimibili. Non ambiva a spenderli, ma a possederli, alla certezza di poter contare su di loro. Insomma, il denaro non era un elisir, ma un antidoto: la bottiglietta che ti porti in tasca avventurandoti nella giungla… nel caso ti mordesse un serpente velenoso […]”

Dal secondo racconto lui, lo scrittore che è padre anch’esso appena separato dalla moglie, cerca però un contatto con suo figlio e lo richiama nella sua biografia adolescenziale.Rimane affascinato dalla scoperta che Anne Frank è nata lo stesso giorno di suo figlio. Il dodici giugno. Sotto il segno dei Gemelli. Un’immagine gemellare: un mondo dove tutto è duplice, e ogni cosa si ripete sempre due volte. La memoria: lo spazio in cui le cose accadono per la seconda volta.

E da qui si esplicita la solitudine come spinta a utilizzare il potere della memoria e il suo ruolo nel plasmare la nostra identità.

Il secondo racconto è suddiviso in paragrafi numerati ove ogni volta si ricomincia a porre lo schema del richiamo del ricordo. Talvolta è autobiografico, altrove è inventato, ed entrambi gli inizi sono riproposti in modo ciclico con persone e tempi diversi. La memoria è lo sfondo di un oceano che, in base alle nostre attuali presenze, lascia riaffiorare frammenti temporali.

L’uso di analogie e assonanze tra nomi di figli, luoghi e personaggi serve a creare un’atmosfera onirica e a sottolineare la fluidità della memoria. I confini tra la realtà e l’immaginazione si sfumano, e il lettore è invitato a immergersi nel flusso di coscienza del narratore.

L’archeologia della memoria ha anche la funzione di connettersi con le persone amate e con quelle fissate in rapporti interrotti.

Vi è un paragrafo in cui Auster sempre nel secondo racconto, analizza dal francese “x, persona, me stesso, vuole dire”. Questa locuzione composta non è banale. Egli scrive che sotto sotto “intende dire”. Cioè questa è la sua intenzione di dire, dove questo dire ancora deve uscire fuori, ovvero entrare nel linguaggio che si manifesta nel dire orale, nella scrittura, nella rilettura. Questo “dire” non è una semplice asserzione, un sasso gettato lì, intero, intonso, immutato. È una selezione di altri detti, di memorie, di situazioni, di tutti i se stessi del passato, dimenticati e di poco ora riaffiorati. Sono tracce indirette che hanno costruito le prime esperienze del bimbo con il padre. Le esperienze primigenie sono a noi oscure, perché sono servite a creare le strutture del ricordo. Ciò implica che noi siamo individuazioni limitati nel “dire”.

Non è un caso che alla fine del racconto si propone la lettera di Nadežda Jakovlevna Mandel’štam che scrive al suo amato Osip Ėmil’evič Mandel’štam imprigionato nel gulag sovietico, non sapendo se sia vivo o no. Da un ricordo rievocato Ella immagina che Osip stia pensando a Lei e che stiano insieme in questa memoria del futuro inventata. La meraviglia fu che Osip scrisse veramente una lettera analoga dal gulag prima di morire.  

Il linguaggio è uno strumento potente, ma non è in grado di esprimere tutto. Ci sono cose che non possiamo dire perché non le conosciamo o perché non abbiamo le parole per farlo. Il “dire” che non può essere detto rimane nell’ombra, come una parte di noi stessi che non può essere completamente espressa. La consapevolezza della nostra finitezza ci spinge a vivere con maggiore intensità, rendendo giustizia al tempo che abbiamo a disposizione. La lettera su indicata è un esempio di come la memoria possa creare un ponte tra il passato, il presente e il futuro.

La “solitudine” è posta come una condizione necessariamente legata alla creazione artistica, e in particolar modo all’atto della scrittura, che non è intesa univocamente nell’isolamento, ma in una meditazione che tenta di ricongiungere ciò che è separato, all’interno di una nuova prospettiva che tenta di allargare la vita, un attimo prima della fine, attraverso la produzione e la fruizione artistica. Il centro della narrazione, infatti, non è un evento accaduto e raccontato, ma l’atto stesso del racconto e della parola. In questa oscillazione vi è uno spostamento continuo della voce narrativa, che si tramuta in quella del racconto stesso che visita i personaggi.

Qui si mostra anche il paradosso insito nella condizione della solitudine dello scrittore che, sebbene sia fisicamente solo in una stanza, è accompagnato dai fantasmi della letteratura e della scrittura degli altri. La “solitudine si mette a parlare”, ed è attraversata da citazioni esplicitate o semplicemente incorporate nel testo, che rimandano alla tradizione della letteratura e della cultura universale, da Pinocchio alle Mille e una notte, dalle riflessioni sulla mnemotecnica ai Pensieri di Pascal, dalle poesie di Holderlin fino alle riflessioni di Freud sul perturbante.

La scrittura si ripiega e parla di se stessa, del suo infinito cominciare a dire l’evento che non può più tornare ad essere, ma è continuamente. Non resta che dire questa impossibilità, e l’unico modo in cui ciò è possibile, è quello della scomparsa di un io narrante che si fonde con la pluralità e l’instabilità di una voce neutra, quella della voce narrativa. Così, tra la scomparsa e la solitudine si viene a creare una risonanza fondamentale che riguarda il modo di creazione dell’opera. La scomparsa non è causa della solitudine e la solitudine non è uno stato di abbandono.

E di ciò il lettore ne è testimone.

§CONSIGLI DI LETTURA: HYPERSPHERE

Hypersphere, di Nick V. O’Bannon
(pseudonimo), 2022, Editore Indipendente

È un romanzo che stimola la curiosità, perché impiega concetti matematici complessi negli ambiti della ricerca fisica nel campo ingegneristico avio spaziale e in quello dello studio degli astri, in modo rigoroso nelle sue determinazioni.

Sembra scritto da un matematico prima di tutto e lo si nota negli stili linguistici dei protagonisti come lo scienziato che ha progettato sistemi di aviazione aventi l’obiettivo di viaggiare attraverso salti gravitazionali. Vi è, inoltre, l’intento di capire o almeno di scoprire le topologie più complesse nel descrivere l’universo.

Vi è anche l’ingegnere che parla attraverso il suo mestiere di ex pilota extra orbitale dei marines, immerso nella nuova attività di comandante della nave aerospaziale Aphrodite. Un prototipo di nuova generazione connesso al grande reattore circolare Venus, lungo più di cento metri, dotato di propulsori atti a viaggiare attraverso le curvature gravitazionali in modo da porsi su sistemi di riferimento tangenti a quelli dei coni, determinati dalle coordinate spaziali della velocità della luce.

In più vi è la figlia dello scienziato che esprime il punto di vista politico e ideale del singolo e dell’umanità in base alla propria responsabilità verso il pianeta Terra e verso le sue specie e la sua sopravvivenza che è posta essenzialmente nel dovere di evolversi e di ricercare e conoscere. Ella è anche l’organizzatrice del viaggio.

La trama segue uno schema mitico che facilita la lettura: si ha, nonostante la variazione multidimensionale dei luoghi, l’unità di luogo all’interno della nave in cui il padre, lo scienziato goffo e distratto nei suoi studi, invano non percepisce la ricerca di attenzione della figlia. E, infine, il pilota acquisisce il ruolo del figlio acquisito che, come un novello Telemaco, ricerca la sua Itaca, essendo scappato dal suo genitore originario: la marina.

Ognuno di loro cerca nuovi stadi della propria esistenza. Lo scienziato, rispettato all’inizio per aver scoperto la possibilità di viaggiare con nuovi sistemi di propulsione, fu deriso poi per le sue teorie relative alla natura dell’universo. Nonostante tutto, vuole confermare la sua visione, sperimentando il nuovo sistema di propulsione con alcuni coprocessori matematici militari appena creati, attraverso una appropriazione indebita, per opera della figlia.

La figlia sfida tutto e tutti, perché rileva una progressiva diminuzione delle possibilità di esistenza da parte del genere umano, a causa di un’etica primitiva basata sul lavoro e sul guadagno, e quindi alla sopraffazione. Profondamente avversa, quindi, contro il consumo indiscriminato e le credenze sacre che non permettono di rispettare l’ecosistema e di ignorare la possibilità che negli astri vi siano altre entità migliori della specie umana.

Il pilota subisce la scissione relativa ai valori in cui ha creduto da una vita, perché hanno mostrato la loro incoerenza e il loro impiego contradditorio e violento da parte dei suoi “padri” d’ordine e d’autorità. Sperso in un vuoto morale, ricerca un filo conduttore per il suo vivere divenuto incoerente e confuso.

Queste figure, ripetute in oceani di film e catene montuose di romanzi, anche qui emergono nella loro tipicità, ma nonostante tutto, dispiegano una base narrativa comoda, pronta a rendere più chiara la complessa realtà fisica in cui gli attori agiscono.

Certo vi sono ingenuità nell’intendere l’economia nella veste di un impianto malevolo e magico che obbliga alla povertà e alla schiavitù. Vi sono da parte della figlia visioni quasi fiabesche nel ritenere la sua visione dell’ecologia il volano verso un paradiso in cui si scambiano tempo ed idee, in un ambiente in cui non esiste il principio della degradazione dell’energia.

Si può essere benevoli nel giudizio circa l’impostazione economica elementare, anche perché oggi è di moda nei luoghi comuni, e quindi bisogna, anche per motivi di marketing, invogliare i lettori alla prosecuzione del testo, specialmente per quelli che non hanno il tempo, le risorse, la volontà di approfondire quanto proposto.

Il nome dell’autore è uno pseudonimo. Forse è un collettivo di scrittori, oppure una figura che ha utilizzato competenze di persone specializzate negli ambiti sopra descritti, perché le soluzioni affrontate, le descrizioni delle astronavi, la programmazione delle orbite, sono di alto livello.

I modelli che descrivono i buchi neri, gli orizzonti degli eventi, la teoria della relatività generale, la natura dell’universo e i suoi modi di presentarsi nelle configurazioni a più dimensioni, presuppongono uno studio pregresso.

Si potrebbe ipotizzare però che l’autore sia un maschio, perché la figura della figlia, talvolta sembra seguire gli schemi degli anni sessanta e ottanta. Per converso l’eroico pilota maschio all’inizio rude e poi sensibile anche per le schermaglie avute, diviene più empatico e disponibile. Insomma, una presentazione dei ruoli molto antica ed elementare rispetto alle dinamiche di genere odierne.

Il punto forte del libro però, e qui occorre riconoscerlo per il fascino che attrae, è rivolto a perseguire un romanzo fantascientifico “hard”, in cui le tecnologie e i principi fisici sono descritti in modo coerente, verosimile, e ben approfondito. Anche se non sono espressi esplicitamente, ed è un bene, altrimenti sarebbe un trattato universitario, vi sono termini come “gradiente”, “varietà differenziale e topologica”, “tensori”. Insomma è presentata una vasta quantità di concetti propri della geometria avanzata, delle relazioni tra la topologia e la metrica impiegata nei modelli della teoria della relatività.

La bellezza di questo libro risiede nel loro uso, attraverso le vicende in cui incappano i protagonisti. Non vi dico la trama: sarebbe un crimine. La sorpresa è una parte importante della narrazione. Posso solo offrire una tra le tante delle chiavi interpretative: richiamano il tentativo di Ulisse di ritornare ad Itaca, ed invece di incontrare i Ciclopi, i Feaci, e di litigare con il Dio Nettuno, affrontano gli astri viaggiando a più dimensioni spazio-tempo.

Stimola moltissimo la nostra fantasia e apre la mente a nuove possibilità nel pensare l’universo, rispetto ai concetti fisici e matematici ritenuti astrusi e faticosi da immaginare.

I fibrati, le varietà differenziali, i quaternioni, le applicazioni delle forme matematiche come i Tori, i nastri di Moebius, le bottiglie di Klein, veri paradossi se rapportati al mondo a tre dimensioni, qui acquisiscono una forma adeguata e coerente.

Nonostante che talvolta vi sia una sintassi imprecisa e piatta nelle locuzioni avverbiali e nell’uso dei tempi, oltre che a una eccessiva semplificazione delle frasi, è però avvincente nel rendere la domanda su di noi e sul mondo, un poco più ricca e colorata.

§CONSIGLI DI LETTURA: IL POPOLO DELL’AUTUNNO

Il popolo dell’autunno di Ray Bradbury (Autore), Remo Alessi (Traduttore), Oscar Mondadori, Milano, 2013 (Prima edizione: Something Wicked This Way Comes, 1962)

Si piange e si ride, si immagina e si ricorda in questo scritto, perché la sua firma è la meraviglia del mondo e del cuore d’ognuno.

Questo romanzo, è l’ideale prosecuzione del precedente “L’estate incantata” del 1957 (per un’analisi premere QUI). Vi è la stessa città, e questa ruota attorno ai punti di vista di ragazzi quasi adolescenti. Ray Bradbury ha una capacità superlativa di rendere vivi i processi fisici ordinari, e i grandi agglomerati antropici e naturali. Non in un senso allegorico o metaforico, ma in modo diretto. Non è un caso che a tratti la prosa assume toni lirici, quasi di versi in prosa, quando descrive gli ordinari processi metereologici ad esempio. Le albe, e i raggi del Sole, che oltre a illuminare sono dotati di una fisicità tale da dipingere le foglie, sostenere i minuti e smuovere le ombre e i toni che si adagiano, corrono, si inabissano e riemergono dalla terra.

Una formica non è solo un insetto che si muove, cieca del suo destino. No: è un corpo senziente che vive in uno spazio vivo, mutante, dotato di fini nascosti ed obiettivi determinati. Gli insetti, come le foglie, i sassi, le anse dei fiumi, i grovigli dei rovi, i rami degli alberi, parlano tra loro, si muovono e si modificano. Pensano, dormono, riflettono, cantano: usano il vento come mezzo di comunicazione, e usano l’aria e il suono come frecce e faretre.

La narrazione è continuamente tesa a svelare che ogni ente classificabile come “oggetto inanimato” sia in realtà un soggetto dotato di nume, che respira aria, luce, suono, e comunica in piani che oltrepassano i sistemi di riferimento umani instillati nei cinque sensi.

Il linguaggio è mitico. Di prima impressione potrebbe rivestire uno stile favolistico, nello svolgersi degli eventi, il lettore quasi sedotto dal tono fantastico e immaginifico, che lo tranquillizza riportando in luce il suo passato ancestrale di sogno e incanto. Da una lettura più profonda, però, si ricava che il romanzo è tutto il contrario di una favola. Il luogo, il tempo, la coerenza disposta tra le gesta dei protagonisti sono intesi realmente. In modo verosimile.

Il mito qui, non è quello nostro che, in negativo, dilegua rispetto a una descrizione razionale e veritiera degli accadimenti, attraverso la suddivisione tra i principi, le cause, i momenti topici. La poetica ha la pretesa di offrire uno sguardo prospettico e multidimensionale del mondo, e in assonanza con l’universo interiore, che è personale per quanto riguarda le responsabilità delle proprie azioni e della legittimità dei propri scopi, ma che è comune a tutti gli esseri viventi.

Le stagioni scandiscono il ritmo degli avvenimenti, e offrono una idea di un prima e un dopo, ma queste sono destinate a ritornare, e quindi a permettere una partecipazione all’unisono dei giovani e degli adulti, dei figli e dei padri, delle madri e di chi nascerà, dei vecchi e della loro compagna finale: la sorella nera. Ognun di loro cresce, passa da uno stadio all’altro e insieme rispetto al momento di crisi, che vi è sempre, perché ogni stagione ha un limite del prima e del dopo, caratterizza il proprio vivere.

È un autunno che è destino di ogni vivente: dall’uomo, agli animali, alle piante, alle rocce, si interroga, si dispera, ha il timore della propria finitezza e la speranza di comprendere il proprio stare nel tempo che scorre e in ciò che permane mutando.

E quindi ritornano, e son presenti, gli intenti volti a un vivere pieno, e quindi al desiderio d’amare e di gloria, assieme ai corrispettivi volti della decadenza, della malattia, fino alla vecchiaia e alla morte. All’interno della dialettica tra il bene e il male, tra il voler cedere all’arroganza e all’ignoranza, vi è il rischio di voler ignorare i propri limiti e di confondere la propria volontà con ciò che si presume siano gli scopi e gli obiettivi del vivere di ognuno.

Ray Bradbury è abile a definire un equilibrio quasi trasparente tra un approccio arcaico e rituale, a quello di un romanzo di formazione, con un trattato di etica che ha il contrappasso nella pena, e nella personale e conseguente redenzione. Le vicende hanno uno stile d’avventura, ben delineato da uno stile di avventura, che assume caratteristiche quasi etologiche.

Vi sono luoghi retorici che invitano il lettore a colorare gli ambienti con i propri ricordi. Ci si sente pittori nel comporre la narrazione mitica del testo, con la singola vita irripetibile di noi che scorriamo gli eventi di questi due ragazzi, dei loro genitori, dell’intera città, e di ciò che sta ai confini e che entrando, muta gli equilibri ed evoca le paure e gli orrori e ciò che è voluto tenere nascosto dagli stessi cittadini.

Il libro richiama le atmosfere degli scritti dell’ottocento e del primo novecento degli Stati Uniti: il circo è il luogo della scoperta, della magia, e della tentazione. Ne sappiamo qualcosa con il nostro Pinocchio. Vi è un senso della colpa puritana, e una voglia di avventura che dai picari spagnoli, ai guasconi francesi, ai nuovi adolescenti di inizio novecento, che offrono una sedia dove noi, accasandoci, ritroviamo gli stadi precedenti del nostro vivere.

Vi è un tentativo di riavvicinamento tra un padre e un figlio, e una voglia irresistibile di dire sì alla vita, e quindi di riconoscere i propri limiti, per determinare le possibilità di migliorare la propria esistenza. Si ride delle proprie sconfitte, incapacità, e fallimenti. La risata che salva, quella che fa riconoscere il cuore di chi sta vicino. L’autocritica salace previene l’assalto della menzogna e della terra di autunno che disperde i colori dell’estate, e che non vuole mutare per i nuovi impegni dell’inverno che sono faticosi e freddi, ma necessari per custodire un nuovo universo ancora da venire.

Non ho voluto dire nulla sulla trama: è un libro di avventura che va letto senza sapere nulla in anticipo. Si gusta ogni avvenimento, perché chiede il coinvolgimento di tutti noi. E ci fa pensare, commuovere e ridere. Già la sapete: è la storia del v(n)ostro vivere.

§CONSIGLI DI LETTURA: L’ESTATE INCANTATA

L’estate incantata di Ray Bradbury, 2019,
(Prima ed. 1957) Collana: Moderni,
Mondadori Milano

L’incanto nella visione di un bambino in una veste animistica. Ogni cosa acquista una vita propria. Il Sole nelle case, nelle mura, le luci. Le stelle che spariscono con un soffio del bimbo per offrire lo spazio per il ciclico tragitto del carro del sole. Le strade che si illuminano come occhi di drago. Arriva l’estate. Lui, Douglas, sveglia tutti. Le luci del mattino delle case si aprono come grappoli nell’orizzonte e nel converso i lampioni nella città si spengono come candele su una torta nera. Voler essere nudo tra gli alberi, portando sulla pelle il freddo del congelatore e il caldo della nonna che arrostisce i polli.

Metafora, sinestesia, allegoria. Per un bimbo tutto è un simbolo che si scopre per ogni oggetto: la magia che porta nuove parole dalle fiabe e dai racconti. Ogni elemento della realtà è uno scrigno di invenzioni.

La città viva che pulsa rigogliosa nelle nuove e crescenti ramificazioni estive per ragazzi che giocano tra il possibile e il reale, tentando di realizzare l’immaginazione negli eventi del mondo.

Gli adulti sono ancora bambini e non lo sanno: ecco perché falliscono. Non riconoscono di esser già quello che di cui vanno perseguendo, ma Douglas e i suoi compagni invece riescono a scorgere il tesoro. La macchina della felicità di Spaulding fallisce miseramente, ma alla fine si accorge che questa è fornita dall’amore della moglie. Il vecchio colonnello Freleeigh cerca di mantenersi in vita riportando il passato nel presente, capendo però alla fine di esser lui stesso la congiunzione temporale, utile e benefica per i più giovani.

La quasi centenaria Loomis che offre nuove vite e altri mondi già accaduti al giornalista Forrester, che la segue abbeverandosi alle sue considerazioni, fino a quelle più preziose.

“[…] In un pomeriggio di primo settembre William Forrester attraversò il giardino di Helen Loomis e la trovò intenta a scrivere. Lei mise da parte la penna e l’inchiostro. «Le stavo scrivendo una lettera» confessò. «Be’, dato che sono qui può risparmiarsi la fatica.» «No, si tratta di una lettera speciale. Guardi.» Gli mostrò la busta azzurra, che chiuse e premette. «Se la ricordi. Quando il postino gliela recapiterà, lei saprà che sono morta.» «Che discorsi sono questi?» «Si sieda e mi stia a sentire.» […]

 «Ma lei non può predire la sua morte» disse Bill. «Per cinquant’anni ho guardato la pendola in salone, William; dopo averla caricata so indovinare al secondo quando si fermerà, e nel mio caso è lo stesso. I vecchi le sanno, queste cose: sentono la macchina che rallenta e gli ultimi pesi che calano sul piatto. Oh, per favore, non mi guardi a quel modo… per favore.» «Non ci posso fare niente» disse lui. «Abbiamo passato insieme dei bei momenti, vero? Le nostre chiacchierate quotidiane erano qualcosa di speciale. C’è una frase abusata in proposito: “l’incontro di due spiriti”.» Helen rigirò fra le mani la busta azzurra. «Ho sempre saputo che la qualità dell’amore viene dallo spirito, anche se il corpo a volte si rifiuta di ammetterlo. Il corpo vive per conto suo, vive per cibarsi e aspettare la notte. È essenzialmente notturno. La mente invece, William, è nata nel sole, e passa gran parte della vita sveglia e all’erta. Si può trovare un equilibrio tra il corpo, pietosa ed egoista creatura della notte, e l’intelletto, fatto per una vita solare e attiva? Non lo so. Ma so che quando la sua mente e la mia si sono incontrate, i nostri pomeriggi in giardino si sono trasformati in qualcosa di unico. C’è ancora molto da dire, ma rimanderemo alla prossima occasione.» […]”

Douglas gioca, si interroga, sperimenta, vede le nascite e gli abbandoni. Da dodicenne qual è sente nel suo intimo l’idea del mutamento e il senso della morte. Prova la disperazione del rifiuto di tutto, inizialmente perché non vuole dipendere da nessuno, dato che tutti prima o poi lo abbandoneranno o moriranno, e le cose come le scarpe da tennis e i giocattoli si romperanno.

“[…] Quindi…! Inalò due profonde boccate d’aria e le espirò lentamente, fra i denti stretti. QUINDI. L’ultima parte la scrisse in tutte maiuscole. QUINDI SE I TRAM, LE MACCHINE, GLI AMICI E I CONOSCENTI POSSONO ANDARSENE PER UN POCO O PER SEMPRE, ARRUGGINIRE O CADERE A PEZZI; SE LA GENTE PUÒ ESSERE ASSASSINATA, SE PERFINO LA BISNONNA, CHE AVREI GIURATO CAMPASSE IN ETERNO, PUÒ MORIRE… SE TUTTO QUESTO È VERO… ALLORA IO, DOUGLAS SPAULDING, A MIA VOLTA UN GIORNO… DOVRÒ… Ma le lucciole, come spente dai suoi lugubri pensieri, non facevano più luce. In ogni caso non posso scrivere più, pensò Douglas. E non lo farò. Finirò un’altra volta, non stanotte. Dette un’occhiata a Tom, che dormiva appoggiato sul gomito, la guancia nel palmo della mano. Gli bastò dargli una spintarella perché Tom crollasse nel letto, silenziosamente. Douglas prese il grande boccale con le lucciole e lo agitò: come vitalizzate dal suo tocco, le bestiole splendettero di nuovo. Douglas guardò l’ultima pagina, che aspettava le sue conclusioni. Invece di scrivere parole andò alla finestra, alzò la zanzariera e liberò le lucciole, che si sparsero di qua e di là nella notte senza vento. Si affidarono alle ali e volarono via. Douglas le guardò scomparire. Se ne andavano come i pallidi frammenti dell’ultimo crepuscolo di un mondo morente. Se ne andavano come gli ultimi brandelli di calda speranza dal palmo della sua mano.

[…]”

Ma l’intimità della sua irresistibile capacità a stupirsi e a notare che anche l’estate prendeva congedo, lo lasciò di nuovo ammirato per i primi doni dell’autunno che lanciava messaggi di arrivo. E anche qui, sentì nel suo intimo l’incanto di questi doni, che, non avendo ancora nomi, la sua meraviglia li portavano in una presenza piena di vita, e con uno slancio poetico tra i suoni e le luci, nuove sinestesie apparvero.

Quest’opera è un formidabile canto dei corsi del vivere, sempre diverso, mutevole, caduco, ma tenace, tra il dolore e il sorriso, nella conoscenza del dolore e nell’abbraccio al tesoro del proprio animo: l’inimitabile patimento del vivere.

§CONSIGLI DI LETTURA: GLI INVISIBILI

Gli invisibili (De Usynlige – 2013) -di Roy Jacobsen, Traduttore: Maria Valeria D’Avino, Iperborea, 2022, Milano

89-90 A un tratto non si sentono più le grida degli uccelli. Nessun fruscio tra l’erba, nessun ronzio d’insetti. Il mare è piatto, il gorgoglio dell’acqua tra i ciottoli del bagnasciuga si è fermato, non c’è un solo rumore tra tutti gli orizzonti, sono al chiuso. Un silenzio così è molto raro. Ancora più strano è sentirlo su un’isola, dove fa più effetto di un silenzio che cali all’improvviso in un bosco. Che un bosco sia silenzioso capita spesso. Su un’isola il silenzio è così insolito che la gente smette di colpo di fare quel che faceva e si guarda intorno per capire cosa succede. Il silenzio li stupisce. È misterioso, quasi un brivido di attesa, un forestiero senza volto che percorre l’isola a passi felpati, avvolto in un mantello nero. La sua durata dipende dalle stagioni, il silenzio può essere molto lungo nel gelo dell’inverno, come quando il mare si era ghiacciato, mentre d’estate è sempre una brevissima pausa tra un vento e l’altro, tra l’alta e la bassa marea, o il miracolo di quel momento in cui si finisce di inspirare e si comincia a espirare.

 –

Poi di colpo un gabbiano ricomincia a gridare, una ventata arriva dal nulla, e il neonato cicciottello si sveglia urlando sulla sua pelle di pecora. Possono riprendere in mano gli attrezzi e continuare il lavoro come se nulla fosse accaduto. Perché è precisamente questo che è accaduto: nulla. Si parla di quiete prima della tempesta, si dice che il silenzio può essere un segnale, come quando si carica un’arma; può avere un senso di cui si capirà la portata solo dopo aver sfogliato a lungo una Bibbia. Ma il silenzio su un’isola è niente. Nessuno ne parla, nessuno lo ricorda né gli dà un nome, per quanto sia profonda l’impressione che suscita in loro. Un brevissimo spiraglio di morte mentre sono ancora in vita.

È un silenzio pieno. Si parla con il mare. Gli oggetti, che il mare fornisce danno le storie, le parole, che vanno e vengono. L’isola le pesca e loro come marinai raccolgono tempo nelle ceste della loro biografia. Gli elementi sono quelli norvegesi e la traduzione in italiano, nel normalizzare gli aggettivi, potrebbe dare l’impressione che il clima, il vento, il freddo, l’inverno, l’estate, il giorno, la notte, la luce e il giorno siano analoghi a quelli del Mediterraneo. No. Qui è tutto al superlativo. E il teatro è il paesaggio, non quello borghese e collinare nostro, ma quello lungo, ampio, e frastagliato dell’Oceano Atlantico che oscilla insieme alle correnti artiche. Vento e mare sono solidi e liquidi. Il vento li unisce e li trasporta nell’isola. Un’isola muta come quelle lì, tante e quasi invisibili dalla costa. Piena di questo popolo isolato ognun con l’altro nei giorni, se non in rade ore dell’anno, o per viaggi nel buio delle pesche artiche che durano mesi con il rischio di esser loro la preda delle tempeste. E quindi mai più di ritorno.

Il lavoro scandisce l’attività del vivere. Ogni oggetto è utile, ogni oggetto è strumento e materia, e serve per sé, per gli animali, per i pesci, e per le attività di sussistenza. Parlano tra nonni e figli. Inframmezzati dal freddo e dalla vecchiaia che trasporta tutti loro nelle correnti dei simboli e delle storie. Il loro tesoro. Dei dimenticati, del silenzio, dove terra e mare uguali sono: spazi altri, con cui si è in relazione, ma disgiunti. L’isolano ha la mente che spazia nel tentare di sopravvivere, ma sa che la direzione delle sue radici e nel tempo, è ancorato nell’isola. Le barche sono solo vele incastonate nella nave maestra, che è l’isola stessa, in viaggio tra le stagioni, gli elementi, la vita e -la morte.

Vi è un silenzio, che però è pieno e un oblio, che però non annulla, ma conserva e deposita, tra secoli di alghe, e volumi di vento. E tutto è lì. Pieno, denso, pronto a rivelarsi nell’orecchio di chi è pronto a viaggiare, lì, tra gli interstizi delle civiltà che fluiscono tra l’estrema luce e il fondo freddo.

UNO STRUGGIMENTO che porta nostalgia a chi non è mai vissuto in quelle zone d’assenza, ma che suggerisce una chiave dello scorrere di senso tra l’abisso e la memoria.

Il vivere e il morire trasportano il proprio ciclo attorno all’isola, e questa non lo abbandona. Resiste, lo accoglie nell’approdo. Ella sta: lì, piccola e tenace tra gli abissi.

La nostalgia irresistibile dello straniero che mai lì è vissuto, ma a cui tende nel suo tempo interiore.

§CONSIGLI DI LETTURA: MUSICA ROCK DA VITTULA

Musica Rock Da Vittula di Mikael Niemi,
(Populärmusik från Vittula, 2000),
K. De Marco (Traduttore),
2010, Iperborea, Milano

È un romanzo di formazione semi autobiografico, dove le vicende del passato si miscelano con le riflessioni nel presente che l’autore fa di se stesso di quel periodo con i suoi compagni, considerando l’evoluzione e i contrasti di quella zona della Finlandia dove convivono i Lapponi, comunità svedesi con diverse forme di interpretazione del luteranesimo.

L’interiorità del protagonista costituisce il sistema di riferimento per inquadrare lo spazio e il tempo narrativo. La visione animistica del cosmo e della natura offre uno stile narrativo che facilita la commistione tra il passato e il presente.

12-13 “[…] Nel gergo popolare il nostro quartiere veniva chiamato Vittulajänkkä, che tradotto vorrebbe dire la Palude della Passera. L’origine del nome non era chiara, ma doveva avere a che fare con il gran numero di bambini che ci nascevano. In molte case si arrivava a cinque, se non di più, e il nome rendeva una specie di crudo omaggio alla fertilità femminile […]”

16-17 “[…] Smisi di spingere e lasciai che l’altalena perdesse a poco a poco velocità. Alla fine saltai sul prato, feci una capriola e rimasi sdraiato a terra. Guardai il cielo. Le nuvole rotolavano bianche sopra il fiume. Sembravano grosse pecore lanose che dormivano nel vento. Se chiudevo gli occhi vedevo degli animaletti muoversi sotto le palpebre. Dei puntini neri che strisciavano su una membrana rossa. Se li stringevo ancora più forte riuscivo a vedere degli omini viola nella mia pancia. Si arrampicavano gli uni sugli altri e formavano delle figure. Anche lì dentro c’erano degli animali, anche lì c’era un mondo da scoprire. Mi prendeva un senso di vertigine, capivo che il mondo era una serie infinita di sacchetti infilati uno nell’altro […]”

I titoli dei paragrafi spiegano le gesta, in modo analogo a un racconto a quelle d’arme e d’amore di un tempo. Il mito del passato intesse una narrativa lirica. La memoria costituisce una storia che snoda il romanzo di formazione in una sequenza di Odissee per le quali il lettore possa partecipare emotivamente, attraverso una descrizione del mondo visiva, odorifera e tattile. Le immagini risultano concrete, olografiche, come quelle di un bimbo, contraddistinte da olografie antropomorfe. Gli oggetti rappresentano significati spirituali ed etici (buono, giusto, repellente) o caratteriali (eroico, pavido, fermo).

71 “[…] Quel pomeriggio stesso cominciò la lite per l’eredità. Si attese che finissero i riti funebri e che vicini e predicatori se ne fossero andati. Poi le porte della fattoria si chiusero agli estranei. I vari rami, escrescenze e innesti della famiglia si riunirono nella grande cucina. I documenti furono disposti sul tavolo. Gli occhiali furono estratti dalle borsette e messi in equilibrio su nasi lucidi di sudore. Si schiarirono le voci. Si inumidirono le labbra con lingue affilate. Poi scoppiò il finimondo […]”

178 Durante la gara di bevute clandestina dei ragazzi, il narratore interpretando se stesso da bambino, riveste le vicende con uno stile fiabesco, ma nella sostanza coerente nel descriverle in modo estremamente razionale per analizzare i fenomeni della natura, le leggi morali e il loro impiego. Per il contrasto comico sapientemente dosato, mostra l’assurdità e il ridicolo delle imprese dei suoi coetanei e di quelli di poco più grandi nell’imitare i comportamenti degli adulti. Ridicoli perché goffi e impotenti non avendo la cognizione, l’esperienza e il fisico per le imprese, e assurdi perché riuscivano benissimo a imitare i miserevoli comportamenti degli adulti. Mentre in alcuni romanzi di formazione i ragazzi e le ragazze (Tom Sawyer o Pippi Calzelunghe) mostrano l’ipocrisia e la violenza degli adulti attraverso il loro comportamento conflittuale e di sfida, contravvenendo sistematicamente alle regole, qui i giovani disubbidiscono alle prescrizioni, ma per uniformarsi allo stile di vita dei più grandi.

Le comiche e malriuscite imprese dei ragazzi, costituiscono una accusa indiretta all’ipocrisia dominante. Nonostante tutto, vi è da parte del protagonista, e quindi dell’autore, un moto di compassione e di affetto per tutti. Se i ragazzi intraprendono imprese impossibili destinate al fallimento, gli adulti raccontano e si magnificano del loro passato in modo così iperbolico, da risultare esilarante.

Il romanzo offre l’occasione per studiare la storia e il modo di vivere dei finlandesi di confine con la Lapponia, la Russia, i rapporti di inimicizia e di ammirazione nascosta per gli svedesi, il conflitto tra la città e la campagna, il campanilismo tutto particolare tra i quartieri e le zone rurali più isolate di questa comunità che parla una lingua semi finlandese, mischiata a quella lappone. È estremamente interessante osservare il rapporto quotidiano con le prescrizioni della religione luterana, dei riti pagani ancestrali, e dagli influssi della visione ortodossa russa. Il utto immerso in una visione magica della natura.

Vi è anche la cronaca della trasformazione sociale di questa comunità che subì la guerra più volte e le invasioni di Svedesi, Prussiani, Russi prima e poi ancora Svedesi, Tedeschi e Sovietici dopo. Bellissime e toccanti sono le descrizioni della natura e dei moti delle stagioni e qui i lettori italiani dovrebbero porre maggiore attenzione a comprendere gli aggettivi riferiti alla notte, al buio, al freddo, alla tempesta, al ghiaccio, all’afa. Quello che nel testo è scritto in modo normale, per noi popoli del clima mediterraneo l’intensità di tutto ciò sarebbe superlativa: dalla distesa delle foreste, dei laghi, dal vento che taglia e ghiaccia, dalla notte artica del nord che è buio completo, dal freddo che significa meno di dieci gradi in giù.

È una narrazione autobiografica introspettiva che rivolge un atto di accusa e un atto di amore per il proprio passato, per i famigliari, per una terra che mantiene una memoria sotterranea, condita da un umorismo che tende a esprimere fanfaronate, ma in un modo così discreto che rende disponibile il lettore ad avvicinarsi con affetto.

****

245 “[…] Tutti abbassarono i bicchieri e si sedettero. La festa aveva ormai raggiunto lo stadio della malinconia, e la musica arrivava a puntino. Cantavo guardando il nonno, che abbassò timidamente lo sguardo. “Oi Emma Emma, oi Emma Emma, kun lupasit olla mun omani…” Proseguimmo con Matalan torpan balladi. L’atmosfera divenne così triste che si appannarono i vetri alle finestre. E per finire attaccammo Canzone d’amore di Erkheikki, un valzer lento in minore con un assolo lamentoso di Holgeri che avrebbe commosso una pietra. Poi gli uomini vollero brindare con noi. Come si usa nel Tornedal, nessuno disse una parola di commento sulla nostra prestazione, perché gli elogi inutili alla lunga non portano ad altro che a progetti smodati e al fallimento. Ma si vedeva dai loro occhi cosa sentivano […]”

247-248 “[…] Com’è bella l’estate, così perfetta, così eterna! Il sole di mezzanotte sul limitare del bosco, nuvole rosse che risplendono nella notte. Calma di vento assoluta. L’acqua ferma liscia come uno specchio, senza un’increspatura. E poi all’improvviso un cerchio che si allarga lentamente su quella calma sublime. E lì, in mezzo al silenzio, si posa una farfalla notturna. Resta impigliata sulla superficie dell’acqua con la polvere delle ali. Scivola giù nelle rapide, vortica tra le pietre e la schiuma. Sopra le cime dei pini le zanzare sciamano leggere come piume nel caldo sempre più intenso. Ecco cosa si vede quando ci si trova in quel sottile interstizio che è una notte d’estate, fluttuando sulla fragile membrana tra due mondi […]”

§CONSIGLI DI LETTURA: I CANI E I LUPI

Irène Némirovsky I cani e i lupi Introduzione di Maria Nadotti
Traduzione di Luisa Collodi Edizione integrale
Titolo originale: Les Chiens et les Loups, 1940,
Newton Compton Editori.

Irène Némirovsky la scrittrice perennemente in fuga da San Pietroburgo, dalla famiglia, dalla Francia, fino a morire nei campi di concentramento nel 1942. Negli anni venti fu una scrittrice di successo. Innovativa, densa, briosa, tagliente, impietosa. Letta da tutti, perché rispecchiava appieno i mutamenti del tempo. Dimenticata a forza per le leggi razziste contro gli ebrei nella Francia occupata. Riscoperta dopo decenni dalla tenacia delle figlie che dal baule conservato, che proposero gli ultimi romanzi non pubblicati e incompiuti.

Questo romanzo, del 1940, è dotato di uno stile conciso e strepitoso che varia dal resoconto alla cantilena di una fiaba secondo il ritmo espressivo dei bambini nel vedere il mondo degli adulti. L’emotività e il carattere dei protagonisti tracciano il ritmo alla storia. Il lettore è guidato per mano, attraverso una prosa ricca di descrizioni

Gli adulti sono caratterizzati dal fisico in assonanza alle loro ossessioni: il vestito degli scopi della loro esistenza. La compulsione offre l’illusione del libero arbitrio nell’azzardo che naufraga nella “hybris”. Il mondo restituisce una immagine dell’agire umano vile e rozza. La bugia è la sorgente dei valori e della presunzione a dichiararsi gli unici artefici della propria volontà. Le proprie abilità sono il nucleo della cupidigia e della sopraffazione. La morale è la cosmesi che tenta di rendere plausibile la bugia, ovvero la sua reduplicazione

Tutti ne sono immersi. Ogni persona è una maschera che intesse la morale nella trama dell’ipocrisia.

Ada e Ben, da bambini, cercano di salvarsi con la fantasia, creando mondi, città e storie, durante il <pogrom>.

“[…] D’istinto i bambini correvano sempre più in alto, verso le colline, voltando le spalle al ghetto. Poi alla fine si fermarono: non sentivano più niente. I cosacchi non li avevano inseguiti, però erano rimasti soli e non sapevano dove andare. Ada si lasciò cadere su una pietra singhiozzando; aveva perso il cappello, i guanti e il manicotto, l’orlo del cappotto si era strappato e pendeva pietosamente; si strofinò la faccia con i pugni; le piccole guance livide erano segnate da macchie nerastre; il pianto si mescolava alla polvere del giorno precedente, formando lunghe striature scure. Ben disse con voce spezzata: «Noi ora scendiamo e cerchiamo di passare da Lilla». «No! No!», gridò Ada in preda a una sorta di crisi di nervi. «Ho paura! Non voglio andare laggiù! Ho paura!». «Ascolta: ti dico adesso quello che faremo! Passeremo per i cortili, dietro le case. Nessuno ci vedrà e noi non vedremo niente».

«Ada», disse, «non bisogna desiderare così forte».

«Madame, non posso fare altrimenti». «Bisogna avere più distacco negli affari di cuore. Essere nei confronti della vita come un creditore generoso e non come un avido usuraio». «Non posso fare altrimenti», ripeté Ada […]”.

Mentre la bella Lilla rappresenta la superficialità ingenua e limitata, Ada ne è il corrispettivo nell’interiorità, entrambe condannate a girare intorno al loro essere ebree perseguitate.

“[…]  «Imbecille», disse lui con tono di aspro disprezzo come quando erano bambini. «Tu non hai mai capito niente? Sì, io millanto, io invento, ma si comincia con immaginare tutto quello che non si può possedere, e si finisce, se lo si desidera con abbastanza forza, per possedere più di quanto si è immaginato». «Lo credi sul serio? Davvero?», mormorò lei. Nascose il viso tra le mani, poi scosse la testa: «A tratti penso che tu ti beffi di me, a tratti invece che sei fuori di senno». «Abbiamo tutti e due il nostro grano di follia! Non siamo esperti in logica, non siamo dei cartesiani, non siamo dei francesi, noi! Non è insensato sognare, a diciassette anni come a otto, di un ragazzo sconosciuto?» […]

«Tu vivi come su un’isola deserta», diceva Harry. «Non ho mai vissuto in altro modo. A che serve attaccarsi a quello che si dovrà perdere?» «Ma perché si dovrebbe perderlo, Ada?» «Non lo so. È il nostro destino. Tutto mi è sempre stato strappato». «Ma io, allora? Io? Tu però mi ami? Tu tieni a me?» «Quanto a te, è tutt’altra cosa. Ho vissuto senza vederti, e quasi senza conoscerti, e tu eri mio come lo sei adesso. Io, che temo sempre la disgrazia, non temo di perderti. Mi puoi dimenticare, abbandonare, lasciare, sarai sempre mio, e unicamente mio. Ti ho inventato, amore mio. Tu sei molto più che il mio amante. Tu sei la mia creazione. È per questo che mi appartieni quasi senza volerlo». […]”

Ada immagina il mondo nella pittura, ricavandone l’interiorità cercando di non occluderla. Ben invece sostituisce il mondo con la sua immaginazione rivolta all’esteriorità, anche per vendetta contro tutti.

L’autrice descrive la CONDIZIONE UMANA NEI SUOI STADI DELLA VITA. SA INTUIRE I PENSIERI DELLE DONNE E DEGLI UOMINI DALLA LORO GIOVINEZZA E DALLA LORO VECCHIEZZA. UNA INTROSPEZIONE FINISSIMA.

Più volte negli anni Ada cammina intorno la casa di Harry con la speranza di essere accolta, e ogni volta è respinta, errando nel ripetere la condizione del popolo errante respinto dal Paradiso.

“[…] «Che tempi, che tristi tempi per una nascita… E la donna è sola». Ma Rose disse: «Bah! Qualunque donna, anche la più ricca e la più adorata, si sente sola il giorno in cui mette al mondo il suo primo bambino, sola come quella che muore o come la prima di noi che abbia dato un figlio alla luce».[…]”

Ed è qui la grandezza di Irène Némirovsky nel descrivere le condizioni universali dell’essere umano dalla contingenza degli eventi storici.

“[…] suo figlio, senza alcun dubbio, conosceva una parte – ed era ciò a conferirgli quell’aria matura e piena di saggezza; lei possedeva l’altra, lei che non lottava più, che non chiedeva niente, che non rimpiangeva niente, che si sentiva insieme così leggera e così stanca. Queste due parti di verità forse stavano per congiungersi e formare una grande luce? La fiamma attacca uno a uno gli alberi e finisce per incendiare tutta la foresta. Contò sulle dita, come un bambino che enumera le sue ricchezze: “La pittura, il piccolo, il coraggio: con questo, si può vivere. Si può vivere benissimo”. Rose Liebig, un po’ preoccupata dal suo silenzio, si alzò e guardò il letto. «State bene tutti e due?», chiese. «Noi stiamo bene», disse Ada. Ripeté, sorridendo, “noi”… Pensava che era la prima volta che poteva pronunciare con certezza questa parola, e che era dolcissima […]”.

Il bambino nasce. Lei diventa la casa di Harry, di suo figlio, del popolo ebraico. La sua maternità continua nel verbo il <<noi>>.

§CONSIGLI DI LETTURA: MADRI, MADRI MANCATE, QUASI MADRI. SEI STORIE MEDIEVALI




Maria Giuseppina Muzzarelli. Madri, madri mancate, quasi madri, 2021, Gius. Laterza & Figli, Editori Laterza, Bari

È un libro importante per i dibattiti di oggi relativamente ai ruoli della donna in quanto immessa all’interno dei processi sociali di liberazione da vincoli millenari in ordine a strutture culturali, tecnologiche e meramente economiche. Nei dibattiti odierni, in particolare nel mondo occidentale tecnicamente avanzato, la figura della madre è vista anche come un giogo cui la donna è sottoposta, nonostante il mutare degli agglomerati sociali.

Il ruolo di madre è inscritto nelle narrazioni conflittuali in termini dicotomici tra tempi di lavoro e tempi di maternità. Appena ieri, la madre era oggetto di doveri come quello di dover procreare per fornire forza lavoro e ancora più indietro nei secoli, come certificatrice delle successioni e delle eredità. Il passaggio il tra padre e il figlio era il primo investimento che mantenesse il valore nel capitale di sussistenza: dal podere del latifondista, al tugurio del piccolo artigiano, fino alla possibilità di coltivare la terra a cottimo per il signore.

I ruoli di madre mutano ovunque e nel tempo, si pensi alle forme certificate di unione che sono via via arrivate a quelle formali monogamiche di oggi. Nonostante la sterminata varietà, sussiste sempre l’elemento comune: la donna in quanto madre non è possibile ridurla in un ruolo che sia solo quello della procreazione e nemmeno quello della prima cura. Anzi, nemmeno come un ruolo e neanche come genere, e neppure come categoria oppressa. Certamente la donna e le singole donne sì, in quanto schiave, o in vendita, come accade oggi per decine di milioni di donne in quasi tutto il pianeta.

Il rischio odierno proprio per la condizione della donna, e di quell’altro soggetto che di solito è omesso che sono i figli e le figlie, se resi oggetto di contesa, diventano appunto oggetti da manipolare e da inscrivere in leggi che regolano la nascita, la successione, la ripartizione dei beni.

Essendo pacifico che i maschi sono in posizione di privilegio e per gran parte del pianeta in ruoli di preDOMINIO, forse sarebbe opportuno rivedere il ruolo di madre, che essendo universale, nei nostri discorsi lo assumiamo come premessa, compiendo poi un artificio retorico, in gran parte inconscio, anche nei nostri singoli pensieri, di ridurlo a una etichetta pronta a essere inscritta in giudizi categorici, ideologici, e alla fine violenti negli esiti.

7-8  Indagare le molteplici forme assunte dalla funzione materna nel Medioevo ci aiuterà a capire i vari modi di impersonare questo ruolo, nonché le valutazioni suscitate dalle figure di alcune madri particolari di cui è possibile ricostruire la storia. All’origine di questo libro non c’è una tesi, ma una serie di domande e dubbi. Pensiamo ad alcuni modi attuali di concepire la maternità. Sono davvero così inediti?

[…]

L’ambizione non è certo quella di tracciare una storia della maternità in età medievale; più semplicemente, mi riprometto di ricostruire, grazie alle informazioni di cui disponiamo, le vicende di alcune donne ora poco conosciute, ora note, in qualche caso addirittura illustri. Quando conosciute e famose, lo sono per motivi non legati al fatto di essere o non essere state madri, che è invece il fulcro del mio interesse. Le sei storie che seguono ci consentono di penetrare per qualche tratto nell’universo delle esperienze e delle sensibilità di donne che hanno generato figli, o che non hanno voluto o potuto farlo, fra IX e XV secolo. Ci interessa sapere non solo e non tanto come sono andate le cose («wie es eigentlich gewesen»: lo scopo di ogni ricerca storica, secondo Leopold von Rank), ma anche come è stata da loro vissuta e compresa l’esperienza della maternità.

[…]

Le nostre protagoniste sono Dhuoda, donna del IX secolo, di ambiente elevato e di riconosciute capacità, vissuta nell’area della Linguadoca; la grancontessa Matilde di Canossa, personaggio di spicco nel panorama europeo dell’XI secolo; Caterina da Siena, terziaria domenicana che scelse di sposare Cristo ed era chiamata mamma dalla brigata che la seguiva fedelmente; Margherita Bandini, Bandini, moglie del noto mercante pratese Francesco Datini al quale non riuscì a dare l’agognato erede; Christine de Pizan, vissuta a cavallo fra il Tre e il Quattrocento, prima intellettuale di professione ma anche madre di due figli che dovette sistemare da sola, senza l’aiuto del marito, morto a dieci anni dal matrimonio; infine la vedova d’esule Alessandra Macinghi Strozzi, che in pieno Quattrocento fece ai figli tanto da madre come da padre. Sia Dhuoda sia Christine, ma anche Alessandra, quasi contemporanea di Christine, misero al mondo più di un figlio; non così le altre tre: chi madre mancata, chi quasi madre, chi madre ideale. Tutte hanno fatto i conti con la dimensione materna strettamente legata al loro genere, eppure la storiografia non sempre ha voluto cogliere questo nesso. Nel caso di Matilde – per limitarci a quest’unico esempio – la sua appartenenza al genere femminile è stata quasi considerata un incidente, il suo essere malmaritata un dettaglio, la sua travagliata esperienza di madre un elemento sul quale sorvolare.

8 Quando le donne che hanno lasciato segni rilevanti nella storia sono state anche madri, questo loro ruolo è rimasto perlopiù nell’ombra: troppo usuale, quasi in contraddizione con la loro opera o azione pubblica, e lo si è quindi sottaciuto, temendo un effetto riduttivo, quasi andasse a scalfirne la rilevanza. In questa silloge, per contro, si è fatto spazio ad alcune donne eccezionali proprio in quanto madri (o madri mancate) e quindi per ricavare dalla loro esperienza elementi di conoscenza sia di questa realtà sia della coscienza di essa.

9  Le storie proposte riguardano donne forti e talentuose che anche come madri superano i limiti imposti al loro genere: limiti che non sono del loro genere. Sono e fanno le madri, anche senza esserlo, ciascuna a modo suo, con determinazione e abilità. Se possono esprimere le loro potenzialità è perché appartengono ad ambienti che lo consentono e in ragione di circostanze favorevoli, ma resta il fatto che incarnano casi di madri effettivamente capaci di agire ben oltre quegli schemi usuali di cui Christine mette a nudo pretestuosità e nocività.

[…]

«oltre». Sono infatti storie oltre le nostre aspettative, madri oltre la retorica che le relega a un ruolo ritenuto angusto, autentiche madri anche oltre l’effettiva esperienza biologica, donne in azione oltre la sfera della domesticità, protagoniste oltre i limiti imposti al loro genere. Direi madri e donne oltre le nostre ristrette concezioni del Medioevo e delle capacità femminili.

E queste sono solo le prime pagine per scoprire ciò che nel nostro intimo già sappiamo, ma che nell’immedesimazione di queste donne che hanno attraversato i molteplici ruoli della maternità, le donne e anche i maschi, riceveranno in dono un tesoro di chiavi di lettura di sé, del nostro passato, del senso del nostro vivere finito, proiettato nel futuro. Sia FECONDA Lettura.

§CONSIGLI DI LETTURA: I Beati paoli

Luigi Natoli I Beati Paoli Edizione integrale Newton Compton editori

Prima edizione ebook: ottobre 2016 © 1989, 2006, 2016 Newton Compton editori s.r.i. Roma, Casella postale 6214 ISBN 978-88-541-9909-5 Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale, Roma www.newtoncompton.com

È un romanzo avvincente dei primi anni del 1900. Ha un approccio simile a quello di Alexander Dumas per i romanzi come “Il Conte di Montecristo” e la “Sanfelice”. Attinge agli eventi storici realmente accaduti con alcuni personaggi veramente esistiti e in luoghi urbani e naturali ancora esistenti. Ha le caratteristiche di una saga, pubblicata a puntate nei periodici dell’epoca, nella quale diversi stili di scrittura convivono con una prosa scorrevole. Vi è una sintassi fluida con un’ottima caratterizzazione dei personaggi ed un’eccellente descrizione emotiva. I personaggi hanno un retro pensiero accompagnato da una doppia comunicazione verbale e fisica, quindi manifesta, e un’altra interrogante di sé e degli altri. I moti degli animi attraggono il lettore, come il vortice dell’angoscia nei tribunali segreti degli incappucciati. Non è un caso che Luigi Natoli fu veramente un massone.

È ambientato a Palermo tra il 1688 e il 1721.  

Nello scorrere degli eventi che consiglio di leggere per mantenere la tensione emotiva, i protagonisti si confrontano con i propri errori, anche nel subire o nel togliere l’ingiustizia agli altri. Il romanzo è un’esposizione monumentale del conflitto che scaturisce tra la pretesa e l’esercizio della giustizia.

“[…] I Beati Paoli apparivano ed erano di fatto come una forza di reazione, moderatrice: essi insorgevano per difendere, proteggere i deboli, impedire le ingiustizie e le violenze: erano uno Stato dentro lo Stato, formidabile perché occulto, terribile perché giudicava senza appello, puniva senza pietà, colpiva senza fallire. E nessuno conosceva i suoi giudici e gli esecutori di giustizia. Essi parevano appartenere al mito più che alla realtà. Erano dappertutto, udivano tutto, sapevano tutto, e nessuno sapeva dove fossero, dove s’adunassero. L’esercizio del loro ufficio di tutori e di vendicatori si palesava per mezzo di moniti, di lettere, che capitavano misteriosamente. L’uomo al quale giungevano, sapeva di avere sospesa sul capo una condanna di morte. Come eran sorti?… Donde? Mistero. Avevano avuto degli antenati: quei terribili “vendicosi”, che ai tempi di Arrigo vi e di Federico ii erano diffusi per il regno e il cui capo era un signore, Adinolfo di Pontecorvo; i proseliti migliaia; il loro compito quello di vendicare le violenze patite dai deboli.  […]”

La descrizione delle piazze, dei palazzi, degli interni ha una poetica barocca strabordante e meravigliosa.  Luigi Natoli è a un tempo un fotografo e un esteta. 

285 Non aveva alcuna meta prefissa: pure andava innanzi e oltrepassato il ponte dell’Ammiraglio, s’avviava verso i villaggi. Egli era così immerso nelle sue idee, che non s’accorgeva del cammino. Erano gli ultimi di marzo; un pomeriggio tiepido e roseo, come ce n’è soltanto in Sicilia, e tutte le campagne verdi e i mandorli bianchi; nell’aria un odore di cose ignote che infondeva nel sangue una mollezza, una specie di lassitudine piena di desideri, una malinconia dolce e sognatrice. Le anime che vivono nella solitudine sentono in queste giornate primaverili l’orrore del vuoto che le circonda, e sentono nel cuore una felicità a ricevere le impressioni e a schiudersi alla commozione e alla tenerezza.

I Beati  Paoli traducono l’etica in un ordine giuridico parallelo.

pp. 313-14  […] «Non li affronterete… » . «Perché? » «Ve lo impediranno » . «Mi assassineranno? » «Vi puniranno… » . «È la stessa cosa » . «No; il boia punisce e non assassina… Essi sono esecutori di giustizia » . […]

La giustizia dei Beati Paoli è redistributiva in un modo proporzionale. Tu fai il male e ricevi il pegno.

Pag. 514 “[…] « Ah no!», interruppe vivamente il capo dei Beati Paoli; «vacilla soltanto la fede nella caporali; non paghiamo giudici; non cerchiamo nei codici gli arzigogoli per contestare l’ingiustizia. Apriamo l’orecchio e il cuore alle voci dei deboli, di coloro che non hanno la forza di rompere quella fitta rete di prepotenza, entro la quale invano si dibattono, di coloro che hanno sete di giustizia e la chiedono invano e soffrono. Chi riconosce la nostra autorità? Nessuno. Chi riconosce in noi il diritto di esercitare giustizia? Nessuno. Ebbene, noi dobbiamo imporre questa autorità

e diritto e non abbiamo che una arma, il terrore, e un mezzo per servircene, il mistero, l’ombra. Non ci nascondiamo per viltà, ma per necessità. L’ombra moltiplica il nostro esercito e desta la fiducia di coloro che invocano la nostra protezione. Chi non oserebbe ricorrere a un magistrato legale per difendere se, la sua casa, l’onore delle sue donne, perché il ricorso lo esporrebbe alle ire, alle rappresaglie, alle vendette del barone o dell’abate, confida volentieri nell’ombra il suo dolore e la violenza patita; un uomo che egli non vede, non conosce, raccoglie il suo lamento. Noi vediamo se egli ha ragione. Un avvertimento misterioso giunge al sopraffattore nel suo palazzo stesso, al magistrato complice nel suo scanno; l’ascoltano? Non cerchiamo di meglio: lo disprezzano e compiono la prepotenza, e continuano l’offesa? Puniamo, e vendichiamo l’offesa. Nessuno vede il braccio punitore, nessuno può dunque sottrarvisi… Questa è la nostra giustizia. Essa non ha punito mai un innocente, ed ha asciugato molte lagrime». […]”.

Il testo del romanzo è corredato da un vocabolario alto e pieno di riferimenti di luoghi e mestieri. Traspare una sapiente e superlativa conoscenza della lingua italiana. In più i non detti dei protagonisti mostrano la profonda, antica e complessa cultura siciliana, nelle interiezioni, nelle frasi ammiccate, nelle analogie, nelle metafore. Ogni frase e ogni smorfia ha significati multipli. Dalle movenze e dai toni, alla apparente impassibilità, emerge un mondo di sentimenti e intenti.

Pgg.722-23 “[…] «Sangue, sangue!… Le mie mani grondano sangue!… Toglietemi questo sangue; portate via questi morti!… Pietà!… pietà!… Mi opprimono. Mi squarciano il cuore… Ah!… quanto sangue! affogo!… affogo!… affogo!…». La sua voce andò spegnendosi tra i singhiozzi che gli squassavano il petto e nulla era più straziante che vedere quell’uomo lordo di sangue, con le mani distese come per allontanare qualche cosa di terribile, gemendo fra i singhiozzi che gli laceravano il petto, con gli occhi aridi, esterrefatti. Don Francesco gli si avvicinò di nuovo per rifargli la fasciatura, ma don Raimondo stridette e riprese a gridare: «Non mi toccate!… non mi toccate! Tutto sanguina!… Il sangue è dovunque… Un fiume!… E ce ne vuole ancora. Hanno i pugnali e ammazzano… Ammazzano!… Ammazzano!… Dov’è Blasco?… C’è anche lui!… Ecco l’hanno ammazzato!… Sangue!… c’è sangue!… sempre sangue!… sempre sangue!…». […]”.

§CONSIGLI DI LETTURA: L’UOMO CHE METTEVA ORDINE AL MONDO

Ove: nostra nemesi e nostro specchio

Fredrik Backman L’uomo che metteva in ordine il mondo.

 Traduzione di Anna Airoldi, 2014, Mondadori.

È un romanzo che induce a piangere commossi e a ridere a crepapelle nello stesso istante: alterna gli stili comici e tragici riguardo al protagonista antipatico e ombroso, ma da tutti voluto per risolvere problemi, data la sua assurda e tenace coerenza.

Si piange e si ride, perché nel corso delle pagine, si avverte la sensazione che anche noi potremmo incontrare il protagonista davanti allo specchio

Pgg. 1-2 “[…] Ove ha 59 anni. Guida una Saab. La gente lo chiama “un vicino amaro come una medicina” e in effetti lui ce l’ha un po’ con tutti nel quartiere: con chi parcheggia l’auto fuori dagli spazi appositi, con chi sbaglia a fare la differenziata, con la tizia che gira con i tacchi alti e un ridicolo cagnolino al guinzaglio, con il gatto spelacchiato che continua a fare la pipì davanti a casa sua.

Ogni mattina alle 6.30 Ove si alza e, dopo aver controllato che i termosifoni non stiano sprecando calore, va a fare la sua ispezione poliziesca nel quartiere. Ogni giorno si assicura che le regole siano rispettate. Eppure qualcosa nella sua vita sembra sfuggire all’ordine, non trovare il posto giusto. […]”

Ove sente di avere tutti contro: i vicini, gli oggetti, la strada. Vuole il controllo perfetto anche del proprio suicidio, in un vortice dove tutto è disprezzato, perché disturba la propria memoria, i propri valori e illusioni.

Pag. 17 “[…] “Sarà bello prendersela un po’ comoda” gli hanno detto ieri al lavoro. Sono entrati nel suo ufficio un lunedì pomeriggio e hanno spiegato che non avevano voluto affrontare la questione di venerdì perché “non volevano rovinargli il fine settimana”. “Vedrà che bello potersela prendere con più calma” hanno detto. Ma che cosa ne sanno loro di cosa significhi svegliarsi un martedì mattina e non avere più una funzione? Loro, con il loro Internètt e i loro caffè espressi, che cosa ne sanno dell’assumersi le proprie responsabilità? Ove guarda il soffitto. Strizza le palpebre. È importante che il gancio sia bene al centro, decide. […]”

Per ammissione dello stesso autore, lo stile non è che sia eccelso, e purtroppo anche la traduzione a tratti, è a dir poco disordinata. Lo stile però è coinvolgente: passa in uno stesso periodo da un tono serioso così esagerato da indurre il lettore a ridere senza controllo, per attirarlo subito dopo in profonde malinconie.

Pag. 30 “[…] Era ancora lì quando è tornato dall’ispezione. Ove lo ha guardato. Il gatto ha guardato Ove. Ove lo ha minacciato con un dito e gli ha intimato di andarsene con tale impeto che la sua voce è rimbalzata tra le case come una palla da tennis impazzita. Il gatto è rimasto a fissare Ove per qualche altro istante. Poi si è alzato con fare estremamente pomposo, come se volesse sottolineare che non se ne andava perché gliel’aveva ordinato Ove, ma perché aveva di meglio da fare, ed è scomparso dietro l’angolo della rimessa.  […]”

Lui era un uomo in bianco e nero, mentre sua moglie era il colore. Tutto il suo colore.

Ove sosteneva che la gente vuole essere quello che dice, ma era invece convinto che ognuno è quello che fa, come deve essere e nel modo corretto.

Arriva a un punto della sua vita in cui non percepisce più la sua funzione e si sente abbandonato dalla moglie perché deceduta, dal suo ex amico con cui litigò e continuò a litigare per anni. La rabbia alla fine è contro se stessi. Si litiga per mantenere memoria di sé.

Pag. 220 “[…] Forse il dolore per i figli che non erano arrivati avrebbe dovuto riavvicinarli. Ma il dolore è infido: se non viene condiviso, è capace di separare profondamente le persone. Era possibile che Ove non riuscisse a riconciliarsi con Rune perché, dopotutto, Rune un figlio l’aveva avuto, anche se ormai non sapeva quasi dove fosse. E forse Rune non riusciva a far pace con Ove perché quell’invidia sotterranea lo metteva a disagio. Forse, nessuno dei due riusciva a perdonare se stesso per non aver saputo dare alla donna che amava ciò che desiderava davvero. Così, il figlio di Rune e Anita era diventato adulto, tagliando la corda alla prima occasione, e Rune era andato a comprarsi una di quelle BMW sportive, in cui c’è spazio solo per due persone e una borsetta. «Perché ormai siamo solo io e Anita» aveva detto a Sonja un giorno che si erano incontrati nel parcheggio. «Non si può mica guidare Volvo tutta la vita» aveva continuato con un sorriso sghembo, nascondendo le lacrime. Quando Sonja gliel’aveva raccontato, Ove aveva capito che una parte di Rune si era arresa per sempre. Forse era soprattutto per questo che Ove non lo aveva mai perdonato, e che Rune, in fondo, non aveva mai perdonato se stesso. Certa gente credeva che emozioni e automobili non avessero niente in comune. Ma si sbagliava di grosso. […]”

Ove vive in una routine, perché gli eventi traumatici non se ne vanno, e quindi vuole incorporarli e renderli sua realtà. Vi è però una eccedenza indomabile di dolore e di bellezza che trascende il proprio vivere personale. La realtà arriva in faccia senza avvertire con il biglietto da visita del tempo. Sempre limitato e in scadenza.

Pag. 293  “[…] La morte è una cosa curiosa. Viviamo tutta la vita come se non esistesse, ma il più delle volte è una delle ragioni in assoluto più importanti per vivere. Alcuni di noi ne diventano consapevoli così in fretta che vivono più intensamente, più ostinatamente, e in maniera più furiosa. Altri necessitano della sua costante presenza per sentirsi vivi. Altri ancora finiscono per accomodarsi nella sua sala d’attesa molto tempo prima che lei abbia annunciato il suo arrivo. La temiamo, eppure la gran parte di noi teme soprattutto l’eventualità che colpisca qualcun altro, qualcuno a cui vogliamo bene. Perché la più grande paura legata alla morte è che ci passi accanto. Che si prenda chi amiamo. E che ci lasci soli.[…]”

Tutto ciò vale anche per i suoi rumorosi, sgangherati e invasivi vicini che lo coinvolgono negli episodi più assurdi, boicottando indirettamente i suoi goffi tentativi di suicidio.

Una menzione particolare va ai due alter ego di Ove: il gatto Ernesto e il gatto spelacchiato. Le gesta di questi due felini valgono l’immediata lettura del romanzo.

Si piange e si ride per ognuno dei protagonisti.