§CONSIGLI DI LETTURA: la bambina che scriveva sulla sabbia

Le bambine: la sorgente creativa della comunità nel disporre l’orizzonte del futuro

La bambina che scriveva sulla sabbia di Greg Mortenson – © 2009 RCS Libri S.p.A., Milano Prefazione © Khaled Hosseini, 2009Titolo originale dell’opera: STONES INTO SCHOOLS

Semplicemente: è un libro in cui vale la pena tuffarsi, per percorrere la speranza dentro l’inferno più cupo.

“[…] Un giorno del 1993, in un villaggio tra Pakistan e Afghanistan, Greg Mortenson ha visto una ragazzina che, seduta in terra, imparava a scrivere usando un rametto come penna e la sabbia come quaderno. Promise, a se stesso e alla piccola studentessa, che le avrebbe costruito una scuola vera, con banchi, lavagne, matite. Oggi, dopo che di scuole ne ha costruite oltre cento e ha raccontato la sua storia nel best seller mondiale Tre Tazze di Tè, Mortenson torna a scrivere di quei due Paesi e dei loro bambini, della violenza che sembra condannarli e della speranza che può regalare loro un futuro diverso. Una testimonianza entusiasmante e commovente, la sfida di un eroe disarmato, convinto che l’ingiustizia e la povertà si possono combattere senza bombe, sui banchi di scuola. […]”

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“[…] La filosofia di Greg Mortenson è semplice. Si basa sulla sincera convinzione che la vittoria nel conflitto in Afghanistan non arriverà grazie ai fucili o agli attacchi aerei, ma grazie a libri, quaderni e matite: gli strumenti del benessere socio-economico. Privare i bambini afghani dell’istruzione, afferma Mortenson, equivale a compromettere per sempre il futuro del Paese e a spegnere sul nascere la minima prospettiva di maggiore prosperità e benessere. […]”

“[…] Mortenson ripete sempre questo mantra: «Istruire un ragazzo significa istruire un individuo; istruire una ragazza, invece, significa istruire una comunità». […]”.

Lo stile del libro è asciutto, simile a una cronaca giornalistica, anche perché narra di fatti veramente accaduti, esposti in modo chiaro e rilevanti immediatamente per la prosecuzione degli eventi scritti al presente.

L’obiettivo primario delle ragazze diplomate è quello di diventare infermiere e ostetriche, per salvare le donne dal parto e garantire un anno di vita almeno ai nati. L’autore si accorse immediatamente che una maggiore alfabetizzazione per le donne, corrisponde all’aumento di reddito, a sposarsi di poco più tardi, ad avere meno aborti e meno morti per parto, e meno figli, nel senso di avere un numero accettabile che garantisca la comunità e non un aumento esponenziale della popolazione e quindi della povertà.

“[…] All’epoca, trovai questo imprevisto e i conseguenti rinvii esasperanti. Soltanto anni dopo cominciai a comprendere l’immenso valore simbolico del fatto che prima di costruire la scuola fosse assolutamente necessario realizzare un ponte. La scuola, naturalmente, avrebbe ospitato tutte le speranze risvegliate dalla promessa di istruzione, ma il ponte incarnava qualcosa di più elementare: le relazioni che nel corso del tempo avrebbero sostenuto quelle stesse speranze e senza le quali qualsiasi promessa sarebbe equivalsa a una manciata di parole vuote. Terminammo la scuola di Korphe nel dicembre del 1996. Da allora, ogni altro edificio scolastico che abbiamo realizzato è stato preceduto da un ponte. Non necessariamente da una struttura fisica, ma da un arco di legami affettivi accumulati in molti anni e rinsaldati con molte tazze di tè bevute insieme. […]”.

Occorreva la costruzione dei ponti e la volontà di intessere rapporti con gli abitanti, rispettando le culture, entrare in punta di piedi, bere il tè, per costruire le case in zone impossibile le più sperdute. E sono gli uomini: i contrabbandieri, i mercenari, i truffatori che capiscono l’importanza di tutto ciò per i figli e per le figlie; addirittura dagli anziani che rigettano le idee dei talebani. Le donne devono studiare per sopravvivere, e non crepare di parto

“[…] Ma ciò che contava ancora di più, credo, era il fatto che in ogni comunità parlavamo e ci confrontavamo con gli anziani e i genitori per capire di che cosa secondo loro avessero bisogno. In un certo qual modo, anche se eravamo arrivati in quella valle così provata per costruire scuole e promuovere l’istruzione, invitavamo le persone del posto a diventare i nostri insegnanti. Così, Sarfraz e io finimmo con l’apprendere nuovamente la lezione che mi era stata impartita, tanti anni fa, da Haji Ali, il nurmadhar dalla barba d’argento del villaggio di Korphe. Quando trascorri il tempo ad ascoltare effettivamente, con umiltà, ciò che la gente ha da dire, è sorprendente quanto c’è da imparare. Specialmente se capita che le persone che stanno parlando sono bambini.

[…]”

“[…] La descrizione che Farzana fece di quanto era accaduto quella mattina fu molto vivida ed eccezionalmente ricca di dettagli; non solo la lucida precisione delle sue parole, ma anche il modo in cui i suoi pensieri e le sue emozioni sembravano attraversarle il volto mentre parlava mi portarono a chiedermi se quella ragazza avrebbe potuto spiegarmi perché ora i ragazzi sopravvissuti faticavano a frequentare regolarmente le lezioni. Le posi la domanda. «Perché nelle tende non ci sono banchi» disse con molta disinvoltura. Interessante, ma anche strano. In questa parte del mondo, molte case non hanno le sedie e le persone stanno più comode sedute per terra. In molte delle nostre scuole in tutto il Pakistan e l’Afghanistan, non è insolito che un’intera classe sia seduta per terra con le gambe incrociate mentre l’insegnante resta in piedi. La mancanza di banchi mi parve una strana ragione per non andare a scuola. «Come mai i banchi sono così importanti?» chiesi. «Perché i bambini si sentono più sicuri» mi spiegò poi, con i banchi, le tende somigliano di più a una vera scuola.» Questo sembrava più plausibile, e annuii, ma non aveva ancora terminato. «Ma anche se le lezioni fossero tenute all’esterno, dovrebbero esserci lo stesso i banchi» aggiunse. «Solo allora i bambini verranno a scuola.» Mi parve alquanto misterioso, ma c’era qualcosa nella schiettezza di Farzana che mi spinse ad avere fiducia in lei. Così, il giorno successivo, Sarfraz e io cominciammo a rovistare in un cumulo di macerie in quel che rimaneva della scuola femminile e scovammo i pezzi sparsi di varie decine di banchi. Quel pomeriggio chiamammo a raccolta alcuni uomini e li pagammo perché cominciassero a rimetterli a nuovo. La notizia di questa attività si diffuse rapidamente e, nell’arco di un’ora o due dalla sistemazione dei banchi nella tenda, decine di bambini erano in fila per entrare nelle classi. Farzana aveva capito che, nelle menti dei bambini, i banchi rappresentavano una prova concreta che almeno entro i confini delle loro aule erano tornati ordine, stabilità […]”

I banchi come spazio intimo luogo di sé assieme a tutti i compagni.

“[…] Il capo degli uomini armati, un tipo con sopracciglia nere e una barba perfettamente curata che iniziava a ingrigirsi, era Wohid Khan, il capo della Border Security Force (BSF) del Badakshan, ovvero colui che ci aveva dato ospitalità in casa sua e ci aveva offerto la cena durante la notte dei disordini di Baharak nell’autunno del 2005, quando incontrai per la prima volta Abdul Rashid Khan e firmai il contratto per la scuola dei chirghisi a Bozai Gumbaz. Ormai quarantaduenne, Wohid Khan aveva iniziato a combattere i sovietici alla giovane età di 13 anni, e, come molti altri ex mujaheddin la cui educazione era stata interrotta dalla guerra, teneva in gran conto l’istruzione e la vedeva come la chiave per riparare ai danni di circa tre decenni di combattimenti. Era appassionato di letteratura femminile e della costruzione di scuole per ragazze, e insieme al suo amico mujaheddin commandhan Sadhar Khan, era diventato uno dei nostri alleati più importanti nel Wakhan. […”.

E anche loro come i soldati americani che combatterono in Afghanistan e in Iraq aiutarono Greg  per la costruzione delle scuole, per dare loro le licenze, chiarire chi fossero le varie etnie nei luoghi più disparati e a quali anziani rivolgersi per intavolare le riunioni (le Jirga bevendo le tazze di tè per convincerli a costruire le scuole e principalmente le scuole per le ragazze e le bambine). È impressionante rilevare nel libro come gli uomini più duri, i combattenti che hanno visto i morti, subire le bombe, versare sangue per anni e decenni, e a loro volta feriti, e che impararono a combattere con qualsiasi arma, alla fine la loro aspirazione e richiesta più PROFONDA FU QUELLA DI COSTRUIRE LE SCUOLE, IN PRIMO LUOGO PER LE BAMBINE). Al culmine della guerra, e delle atrocità che vissero sia i soldati americani, sia i Mujaheddin, sia i talebani che fuggirono dal Mullah Omar, sia i famigerati e temibili combattenti Kirghisi, tutti volevano la stessa cosa: Le scuole.

§CONSIGLI DI LETTURA: Ogni mattina a Jenin

L’oscillazione tra Passato e Presente, tra radici e foglie,
tra genitori e figli

“ Ogni mattina a Jenin” di Susan Abulhawa Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Seconda edizione digitale 2016. Traduzione dall’inglese di Silvia Rota Sperti

 

L’oscillazione tra Passato e Presente, tra radici e foglie,
tra genitori e figli.

Un libro coinvolgente. Si entra in una saga epica quasi, su eventi reali. È un romanzo con personaggi di fantasia, ma che raccoglie con una precisione storica e una caratterizzazione da resoconto giornalistico, eventi che durano decenni e che trapassano intere coorti generazionali lì in Palestina. La narrazione che va avanti e indietro nel tempo. La voce narrante descrive come i due ragazzi inizino a parlare con lingue diverse: l’arabo Hassan impara un poco di inglese e di ebraico e di tedesco per Ari, che a sua volta apprende l’arabo. Storpio Ari, malaticcio Hassan, in disparte e presi in giro, si rifugiarono nelle letture e nelle culture dei due popoli e delle culture tedesca e inglese. Lo stile descrive il tempo e lancia per contrasto alcuni accenni del futuro, come di Yeah il padre di Hassan che impedisce al figlio di andare a studiare a Gerusalemme perché voleva che lavorasse la terra, ma si sarebbe pentito per tutta la vita.

“[…] Anche se gli fu negato il privilegio degli studi superiori, Hassan ricevette le ottime lezioni private della signora Perlstein, che mandava a casa il suo giovane e assiduo studente carico di libri, letture e compiti. Le lezioni erano il frutto di un accordo segreto tra Bassima e la signora Perlstein per sollevare Hassan dallo sconforto in cui era caduto da quando Yehya aveva pronunciato l’ultima parola sulla questione della scuola. […]”

“[…] Un attimo, il piccolo Isma’il di sei mesi era sul suo petto, tra le sue braccia materne. L’attimo dopo, Isma’il non c’era più. Un attimo può schiacciare un cervello e cambiare il corso della vita, il corso della storia. Fu un’infinitesimale scheggia di tempo a cui Dalia avrebbe ripensato più e più volte nel corso degli anni, cercando un indizio, una traccia di cosa poteva essere successo a suo figlio. Anche quando finì per smarrirsi in una realtà offuscata, continuò a cercare con il pensiero Isma’il tra quella folla in fuga. […]”.

“[…] Yehya calcolò quaranta generazioni di vite, ora spezzate. Quaranta generazioni di nascite e funerali, di matrimoni e danze, di preghiere e ginocchia sbucciate. […]”

“[…] Nel dolore di una storia sepolta viva, in Palestina l’anno 1948 andò in esilio dal calendario, smise di tenere il conto di giorni, mesi e anni per diventare solo foschia infinita di un preciso momento storico. I dodici mesi di quell’anno si riorganizzarono e turbinarono senza meta nel cuore della Palestina. […]”.

Moshe ruba il bimbo Isma’il per Jolanta sua moglie resa sterile dai nazisti. Ma occorre ricordare che aveva la cicatrice il bimbo, causata da suo fratellino Youssef, cadendo nel chiodo di quella culla, che la nonna considerava portafortuna. E forse quella cicatrice era un pegno di salvezza futura. Ecco anche qui il tempo va avanti e indietro, in un andirivieni come indicato nella genealogia del libro.

“[…] Mentre gli abitanti di ‘Ain Hod venivano costretti ad allontanarsi, privati di ogni cosa, Moshe e i compagni controllavano e saccheggiavano il villaggio appena rimasto vuoto. Mentre Dalia giaceva straziata dal dolore, delirante per la perdita di Isma’il, Jolanta cullava David. Mentre Hassan si preoccupava per la sopravvivenza della propria famiglia, Moshe cantava e gozzovigliava insieme ai compagni in una baldoria ebbra. E mentre Yehya e gli altri si allontanavano con passo angosciato dalla loro terra, gli usurpatori cantavano l’Hativka e gridavano: “Lunga vita a Israele!”.  […]”.

Avanti e indietro nel tempo, anche qui, nell’oscillazione di un popolo che va, in una terra vista da uno e dall’altro che continuamente sfugge. Oscilla il senso temporale e il senso spaziale. Villaggi, generazioni, radici e figli, padri e foglie. Quaranta generazioni sdradicate da Almod.

Sembra un ciclo, come il numero 40 delle generazioni sdradicate. Rievoca un ciclo che si ripete come cent’anni di solitudine.

Nel libro vi sono le frasi in corsivo che benedicono la terra, i figli, e quelle declamate dai protagonisti quando parlano del passare delle stagioni, delle piogge che umidificano il terreno. Le parole in corsivo detengono la memoria orale della comunità: i detti, i saperi sul ciclo delle stagioni, sul raccolto, sulla nascita e sulla crescita degli olivi, dei fichi, dei figli. 

“[…]La morte di Yeyha spinse tutti nel campo a rimboccarsi le maniche. Un febbrile senso di orgoglio avvolse Jenin e ci si diede da fare per istituire delle scuole, specialmente femminili. Nel giro di un anno la comunità di profughi costruì un’altra moschea e tre scuole, e in tutto questo Hassan ebbe un ruolo centrale ma discreto, tenendosi ai margini della quotidianità ma continuando a scrivere laboriosamente lettere e documenti. […]”

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“[…] Papà disse: “Possono portarti via la terra e tutto quello che c’è sopra, ma non potranno mai portarti via quello che sai o le cose che hai studiato”. Avevo sei anni e i bei voti a scuola diventarono la moneta di scambio per conquistarmi l’approvazione di papà, che desideravo come non mai. Diventai l’alunna più brava di tutta Jenin e imparai a memoria le poesie che mio padre amava così tanto. Anche quando il mio corpo diventò troppo grande per il suo grembo, il sole ci trovava sempre abbracciati e con un libro tra le mani. […]”.

Ogni evento diventa l’occasione del ricordo, per ritornare a pensare. Il ricordo è il mantenimento della terra.

“[…] “Nasciamo tutti possedendo già i tesori più grandi che avremo nella vita. Uno di questi è la tua mente, un altro è il tuo cuore. E gli strumenti indispensabili di queste ricchezze sono il tempo e la salute. Il modo in cui userai i doni di Dio per aiutare te stesso e l’umanità sarà il modo in cui Gli renderai onore. Io ho cercato di usare la mente e il cuore per tenere il nostro popolo legato alla propria storia, perché non diventassimo creature senza memoria che vivono arbitrariamente in balia dell’ingiustizia.” […]”

Anche Amal (in italiano: speranza) rimane di ghiaccio nei rapporti con la figlia quando la partorisce. È costretta a vivere in un ciclo continuo al fine di preservare se stessa per far vivere la figlia, come se l’amore fosse la loro condanna a morte, come per il marito che per amore della terra morì in ospedale, come per Fatima per amore di Yussef che voleva far partorire i figli. Se non ami i tuoi figli, se li vuoi distaccare dalla tua terra (Palestina) allora essi vivranno, altrove, nella speranza di non conoscere l’origine e i genitori.

“[…] Così, smisi di leggere e di guardare i telegiornali e cominciai ad aver paura di toccare Sara, per non contaminarla con il mio destino. Perché non mi scaldasse il cuore e sciogliesse la rabbia, i fantasmi e la follia che mi portavo dentro.

Mi chiusi in me stessa. Le mie difese allontanavano chiunque osasse avvicinarsi, compresa Sara, anche se continuavo a consumare il suo profumo di notte, mentre dormiva, riempiendomi i polmoni del buonsenso che avevo bisogno di respirare. La amavo mio malgrado. La amavo immensamente. Infinitamente. E avevo paura di quell’amore così come avevo paura della mia rabbia contro il mondo. […]”.

Come la madre Dalia andava di notte ad accarezzare i figli.

“[…] La comunicazione fu interrotta. Mio fratello era irrimediabilmente perduto. Aveva attraversato l’abisso di fiamme davanti al quale io ancora esitavo, ed era atterrato sulla sponda placida e distaccata della vendetta. Aveva lasciato la sua anima a vagare per Sabra e Shatila, dove sua moglie e sua figlia giacevano in una fossa comune sotto a un mucchio di rifiuti, sotto l’impunità dei loro assassini, le promesse infrante delle superpotenze e l’indifferenza del mondo verso il sangue versato dagli arabi.

[…]”

E il libro continua e consiglio la lettura, perché nonostante si tenti di bloccare l’amore, il legame materno e quello tra fratelli e sorelle, il tempo alla fine tutto scoperchia, in un crescendo emotivo di una intensità unica.

§CONSIGLI DI LETTURA – Borderlife

“Borderlife” di Dorit Rabinyan Longanesi Editore, aprile 2016 traduzione di Elena Loewenthal, il romanzo è definito il moderno Romeo e Giulietta per via della diversa cultura che caratterizza i due amanti del libro.

America, 2003. Lei si chiama Liat e si trova a New York grazie a una borsa di studio della sua università israeliana, di Tel Aviv, che terminerà nel mese di maggio. Lui si chiama Hilmi: è palestinese e vive a Brooklyn praticando la pittura, sognando che sia il suo mestiere per abbandonare le lezioni di arabo che impartisce a diversi studenti.

Si trovano per caso insieme, per via di una persona che hanno come amico comune, si studiano, e nel pomeriggio che trascorrono in giro per la città nella loro testa passano tutte le differenze e le somiglianze che li stringono in una morsa. Liat viveva nelle città occupate qualche tempo fa dai palestinesi, prima che gli israeliani ci si insediassero. Hilmi abita a Ramallah. La sua famiglia vi si è trasferita scappando da un campo profughi. Nella mente di entrambi si affaccia in continuazione la possibilità di parlare della situazione spinosa che riguarda le loro genti ma che in qualche modo li fa sentire estranei, lì nella grande America che tutti accoglie.

Chiusi in casa di origine e della famiglia. Chiusi nella carta di identità del proprio io, della propria storia. E si incontrano muti e si amano, nonostante le pareti delle loro identità. Delle due case di origine Palestina e Israele in quarantena ultradecennale. Nella città di New York devastata dalle torri gemelle. Dalle torri fantasma, nelle strade aperte e ferite e loro aperti perché nudi. Una città nuda di quella via dove si incontrano. Destini di ferite intorno che cercano di darsi pelle e sangue. E vedersi tra il proprio io cieco.

“[…]

c’è sempre un bimbo che dorme e sogna il mare, quel mare di cui da ragazzo poteva cogliere appena un lembo, da lassù, al nono piano di un palazzo di Ramallah. Che questo amore sia un’isola nel tempo, si dice lei. Un amore a cronometro, un amore a scadenza, la stessa indicata sul visto, la stessa impressa sul biglietto del volo di ritorno per Israele, verso la vita reale.

[…]”.

Lui è al nono piano (il numero nove che ricorre nel libro), il piano del bambino che deve partorire in un palazzo, a Ramallah, mentre a New York le due gemelle sono morte anzitempo, in una via di New York di un amore a tempo, perché forse sterile. Loro sospesi. Lei ama la famiglia, e la patria, ma è fuori, senza identità, e anche lui. Lui dipinge un mare irraggiungibile perché confinato nel nono piano. E dorme in attesa di nascere. Non sa fare tre cose: non sa guidare, sparare, nuotare. Non impone, non uccide e non sa nascere. Le loro identità sono molte e rispecchiate dalla strada, fuori le case, senza chiavi e quindi senza una identità. Nella strada del cordone ombelicale.

Il giorno del loro primo incontro Hilmi perde le chiavi della sua casa e iniziano una ricerca forsennata per la via accanto alle fu torri gemelle e ripensano alla strada verso sud, chiusa con i confini della loro giovinezza di bambini perennemente in fuga. Lei con le spille per difendersi dagli operai arabi che costruivano scheletri di case, e lui anche da bambini ebrei. Le case della loro mente ancora in costruzione lì a New York violata con la distruzione delle torri. Che vanno in verticale, e ora anche nelle loro ombre orizzontali riversate nelle strade.

“[…]

Mentre Andrew, la sorella e l’amico per lo yoga inviano messaggi dalla segreteria che non possono venire, ecco lasciati lì da soli senza comunità che li raccolga nelle loro identità. Dicono il loro passato di esercito, di detenuto, di come cantano da una lingua all’altra, della frase dello scrittore Yesouha che la “«La musica è il linguaggio con cui l’anima parla a se stessa E si abbandonarono l’un l’altro e nell’altra: nelle lingue madri parlando sia arabo sia ebraico, lì nella sua casa, lei con il foulard viola intorno alle anche, nuda, balla sulle note di Rachid, e lui a gambe aperte sul letto la guarda. Tutti e due senza ruoli, ma tutto se stessi lì.

“[…]

L’inconfessabile senso di trionfo che ci prende quando siamo fuori, quando passiamo insieme per le strade, abbracciati, anonimi, due fra la folla. Lo sfavillio delle luci e l’animazione della città, un palloncino smarrito che sale sopra le teste della gente e noi che lo seguiamo con lo sguardo, e con il palloncino sale e volteggia anche il mio cuore che quasi scoppia di felicità, sale come quel palloncino, come quel punto argentato che sparisce lassù fra i grattacieli.

[…]

La sua mano è calma, sicura di sé, indugia da un seno all’altro. Con lo sguardo seguo il movimento circolare intorno al capezzolo, le sue dita e le macchie di colore che le costellano. Con stupore, con il fiato sospeso, le vedo passare sull’altro seno, cerchiarlo lasciando tracce di colore e strisce pallide lungo il cammino delle carezze, e un sussulto d’ansia mi lampeggia dentro, come una luce distante nella nebbia: siamo come quei colori – versati, mescolati tanto che non ci si riconosce più, verde, giallo e blu.

[…]

a volte sento che sto quasi diventando lui, sono così vicina a lui, dissolta in lui che posso quasi sentire cosa significa essere lui.

[…]

Lo avevo sentito tremare quando gli avevo infilato una mano nel colletto, lasciando scivolare le dita sui peli del petto. «Immersi nel presente, provvisori come la vita, come tutto il resto. Effimeri.»

[…]

Al notiziario dicono che è uno degli inverni più freddi e lunghi nella storia di New York, uno dei più nevosi di sempre. La prima neve è arrivata poco prima del Ringraziamento, poi è caduta svariate altre volte, in dosi che non si vedevano da ventidue anni, coprendo la città e accumulandosi sulle strade. Dalla fine di novembre sino ad aprile inoltrato, per più di cinque mesi New York è tutta bianca e grigia, sigillata dal gelo.

[…]

La neve che tutto copre e sospende del loro amore provvisorio.

Nell’ultima parte del libro ambientata in Israele, la divisione forzata impone che solo lei divenga l’io narrante, trasformando lo stile in un monologo sdoppiato e separato. Il monologo diventa in una meravigliosa poetica, il luogo di sospensione come era la città di New York. Ancora qui emerge la necessità di staccarsi dai limiti fisici imposti dalle barriere e dai divieti. Ed ecco che in quei nuovi luoghi della mente, entrambi continuano a spogliarsi dalle identità nel riappropriarsi dei mondi lontani, ripartendo dall’infanzia, rimanendo però nella consapevolezza della provvisorietà  e [Buona lettura …].

L’amore oltre le identità