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§CONSIGLI DI LETTURA: Tutto Sherlock Holmes di Sir Arthur Conan Doyle

Tutto Sherlock Holmes di Sir Arthur Conan Doyle
(Autore), Nicoletta Rosati Bizzotto (Traduttrice),
2010, Newton Compton Editori, Roma

Perché Leggere i romanzi e i racconti con Sherlock Holmes oggi? I testi di critica sono riprodotti su decine di chilometri di biblioteche. Le sue opere sono tradotte in una quantità sterminata di scene teatrali e successivamente di trasmissioni cinematografiche e televisive. Oggi le sue trame sono una costellazione lattea di figure topiche e in modi di dire.

In particolare per chi è più giovane ed è nato a ridosso della fine del 1900, è illuminante la lettura di tutta l’opera di Conan Doyle riferita a Sherlock Holmes per rilevare gli usi e i costumi del periodo, in un’ottica antropologica e comparativa. Molti dei termini e dei giudizi attribuiti alle persone, alle razze, ai rapporti con le divinità e le autorità, per noi, oggi, sarebbero considerati razzisti, orrendi, settari, sciovinisti, di un maschilismo millenario ordalico.

Lo stesso Sherlock in particolare nei primi racconti degli anni ottanta del 1800 era introdotto nelle sue fasi ciclotimiche di depressione, iperattività, fissazioni ossessive sui casi, o sulle sue ricerche di botanica, di chimica, di medicina, fino alla compilazione frenetica di informazioni quotidiane, in gran parte gravitanti in fatti luttuosi, disastrosi, criminosi.

Indagava in modo compulsivo con travestimenti e con stratagemmi in cui simulava anche eventuali malattie e stati prossimi alla morte, pericolosamente vicini alla realtà. Era un oppiomane e cocainomane, dipendenze poi sfumate nei racconti dopo il 1900 da parte dell’autore attraverso Watson, che in qualità di medico lo convinse ad abbandonare tali abitudini.

Oggi Sherlock Holmes sarebbe appellato con una lista poderosa di patologie psichiche e comportamentali. Watson, dapprima militare ferito, dipendente anche lui dalla morfina, poi sposato con una protagonista dei racconti, ma via via dimenticata, e quasi come se nulla fosse, egli ritorna a vivere con Sherlock. Consapevolmente o no, i due ripropongono la coppia degli eroi complementari, che, per rimanere entrambi protagonisti, e non assumere una inevitabile deriva antagonista, hanno abilità e deficienze, ognuna negativa dell’altra in modo tale che possano essere congiunte. Tale dialettica infinita che si avvita a spirale, è il motore che permette la prosecuzione del racconto.

Vi è una ripetibilità che parte da una scena di tranquillità omofila, in un rapporto tra i due, che oscilla tra il cameratesco, alla schietta amicizia, alla irritabilità di una coppia di lungo corso, ad un affetto dapprima paterno-filiale che si inverte a seconda dei racconti. Watson continua a svolgere la sua funzione di medico, e anche se nella tradizione appare come quello meno dotato, in realtà è un elemento necessario per Holmes in quanto, svolgendo il ruolo di cassa di risonanza, permette ad Holmes di svolgere in modo lineare le sue ipotesi per tradurle in un resoconto che ricostruisce gli eventi tragici nel loro svolgimento, nelle loro cause, determinando quindi la tipologia di reato e la gravità rispetto agli attori coinvolti.

Sì, i due protagonisti mutano comunque in decenni di racconti le loro caratteristiche, non solo perché il loro autore avanza di età negli anni, ma per lo stesso pubblico borghese che si espande, e richiede, quindi, una lettura sempre più vorace e frequente, anche per la maggiore reperibilità dei tabloid che fornivano pagine ulteriori dei racconti, dapprima pubblicati in edizioni più economiche per la relativa stampa e diffusione con strumenti tecnologici sempre più efficienti ed innovativi.

Comparvero in quei decenni sensibilità democratiche più spinte e istanze di piena partecipazione al vivere quotidiano, ed istituzionale di parti della popolazione sempre più ampie. E ancor di più del pubblico femminile che, in Inghilterra, non era più inscritto nel dominio dei romanzi d’amore in senso classico, in cui la protagonista subisce le intenzioni dell’eventuale amato e che risponde solo per reazioni ad una trama precostituita e a lei esterna. No: non è un caso infatti che nei racconti più maturi, le donne via via assumono un tono da protagonista, e non più da vittima, anche in quello di eroina negativa, ma non perché indotta da una sua deficienza emotiva, o da una moralità infima, ma per le sue capacità, volte al male e alla delinquenza.

Vi è molto dell’autore e della sua biografia nei due protagonisti. Tante abitudini e modi di vedere la realtà, appartengono a Conan Doyle, il quale fu un giornalista abile, uno scrittore che si interessò di scrivere di storia, appassionato di ogni novità scientifica, che in quei tempi esplodeva nei campi dell’archeologia, della biologia e della medicina. Avvertiva, anche per le sue esperienze di guerra e di viaggi in tutto il mondo, i punti di vista che l’antropologia culturale e l’etnologia offrivano nel comprendere i singoli e i gruppi sociali.

Questi racconti sono utili anche nel capire la tecnologia del periodo, la scansione del tempo che misura gli spazi attraverso le carrozze cittadine, i treni a carbone, la potente elettrificazione che nei primi racconti è assente, e quindi connotata dalle candele, per arrivare poi alle prime case illuminate. Dove ancora la prima fonte di calore è quella del caminetto, e si parla di borghesi quasi benestanti. Non è un caso che si fanno riferimenti alla cena fredda. Riscaldare le pietanze costava. E si cucinava una volta sola e per più piatti. Quindi ancora le soprascarpe e gli immancabili soprabiti da casa e le vestaglie per ripararsi dal freddo e per non sciupare i vestiti per uscire. Le strade erano piene di fango e di sporcizia. Tracce che Holmes rilevava per comprendere l’origine e le attività dei suoi interlocutori.

Il brandy era considerato una medicina, come pure il fumare i sigari e le pipe. La mole dei dati giornaliera aumentava ogni giorno. Non è un caso che Holmes cataloga eventi, scoperte di nuove specie, denominazione di nuovi composti rocciosi, specie batteriche, floreali, fino a quelle delle alghe marine. Noi con i nostri personal computer, e archivi digitali, per lo studio, il lavoro, il diletto, per diario, per hobby e anche per dati inutili che mai approfondiremo, siamo come loro.

Ecco il punto, e questo vale per chi è più anziano. Anche se la maggior parte dei quarantenni in su, non ha mai letto alcunché di Conan Doyle, però sicuramente avrà visto migliaia di film, ore di telefilm, vissuto in modo di dire, e assorbito una mentalità inconscia deduttiva, catalogante e calcolante, che Sherlock Holmes e anche Watson applicavano per conoscere, orientarsi nel mondo e risolvere i problemi, nella fattispecie ricostruire i casi.

Non vi era una eccessiva condanna morale di coloro che perseguivano i reati, affinché il pubblico borghese leggesse in modo più disteso, senza subire una pericolosa identificazione, nel rilevare i tic e le miserie morali degli eroi negativi. Da bravo artigiano cronista, giornalista, indagatore quale era Conan Doyle, attirava l’attenzione del pubblico meno acculturato e più facile alla distrazione, attraverso l’uso dell’ironia, dell’offerta di situazioni ridicole di contorno.

Compare allora il canone del “giallo” che si distacca dall’orrorifico, dal demonio e al conseguente annichilimento tragico di tutto e di tutti. Nella lotta laica tra il bene e il male del racconto “giallo”, tutto ritorna e deve essere ricomposto in una ripartizione di giustizia retributiva e proporzionale. L’ordine riporta la realtà, non la sublimazione dei protagonisti in figure implete. Ed ecco allora la ripetibilità della trama: la lotta diventa un rito, dove il mistero si presenta per essere svelato.  

Il racconto “giallo” londinese è quello della nebbia, in particolare mista anche allo smog che la faceva da padrone in quegli anni. La cronaca nera, lo scontro titanico tra l’autorità e il delinquente, il bene e il male, porta al mutamento radicale di tutto, e invece qui, lo scontro è interno al mondo, che è stabile, che muta e cresce. Il giallo quindi è la mancanza di conoscenza, di un percorso, di un perché degli eventi, di una ricostruzione di ciò che è appena accaduto. Ma si è sicuri, comunque, che tutto ciò esiste ed è razionale, e può essere ridotto in concatenati e logici elementi: “Elementare Watson”.

Il racconto “giallo” quindi determina una dialettica del racconto tra gli antagonisti che è volta ad una conclusione in cui la nebbia dirada, e quindi si ritorna all’evento accaduto, o quasi da compiere, inquadrato, nel come, quando, dove. La trama assume le vesti di una cronaca giornalistica, e di un perché (il livello giudiziario). Alla lunga è accomodante per il lettore, e induce alla pigrizia, ma non si è il caso di attribuire noi giudizi severi, perché il risolutore di cruciverba cosa fa? Chi guardia serie televisive simili? O chi legge saghe e cicli di libri dove già si intuisce un finale, come nelle attuali saghe “Fantasy”?

Saremmo ingenerosi, se inscrivessimo quest’opera soltanto in uno stratagemma innovativo per attirare i lettori. Vi è molto di più: questi racconti contribuiscono a creare uno stile moderno e per noi contemporaneo di ciò che definiamo borghese e laico, determinando inoltre l’apertura letteraria ed estetica alla donna in quanto soggetto senziente, sempre più lucido, e calcolante. Fattori per niente ammessi nei periodi indicati.

Arthur Conan Doyle è uno scrittore moderno perché apprende in tempo reale il complesso dei mutamenti che via via emergevano tra le tecnologie della produzione dei testi, la loro diffusione e fruizione, rispettivamente per quote sempre più ampie e diversificate del pubblico. Sperimenta una tecnica che diventa una nota distintiva del suo stile nel coinvolgere il lettore nel suo racconto, richiamando la sua attenzione, dialogando negli intermezzi della trama, per riannodare i fili e spiegare alcune azioni dei protagonisti e anche semplici modi di fare. Il tutto richiamando racconti precedenti in cui Watson a sua volta ricorda di averne scritto di queste avventure già accadute.

Insomma avviene un gioco degli specchi, in cui l’autore usa i racconti precedenti, richiamati dallo stesso Watson, che, a sua volta, in qualità di curatore del diario delle avventure e di sue pubblicazioni per il suo pubblico che è all’interno del racconto, delinea la biografia itinerante di questa relazione tra i personaggi e l’autore. Le avventure di Sherlock Holmes agiscono in modo centripeto, risucchiando la città di Londra, l’Inghilterra, l’Europa, nel cavallo di due secoli.

Più volte Watson scrive che Sherlock è morto, per poi rivelare che è uno stratagemma per le sue indagini, oppure scrivendo un altro racconto in un tempo traslato in quello dell’avvenimento che appare sempre più sfumato. Così Conan Doyle dichiara di voler smettere di scrivere di loro due, eppure nei decenni ci ritorna, con un tono sempre meno avventuroso e più lirico, per raggiungere le spiagge del mito, in cui le gesta sono collocate in luoghi atemporali, e senza più omicidi, in cui il mistero, il problema diventa il vero protagonista: la mentalità razionale e l’approccio di indagine sperimentale.

§CONSIGLI DI LETTURA: L’uomo che guardava passare i treni

L’uomo che guardava passare i treni. Traduzione di Paola Zallio

L’homme qui regardait passer les trains  © 1938 GEORGES SIMENON LIMITED

© 1986 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO

È un libro che prefigura gli eventi futuri, offrendo un tono di drammatizzazione agli eventi quotidiani e ripetitivi. La noia quotidiana diventa il fulcro per lo straordinario.

“[…] E ormai il dado era tratto! Il tempo di fumare due o tre millimetri di sigaro, stirarsi, ascoltare l’accordo degli strumenti all’auditorium di Hilversum, e Kees fu preso nell’ingranaggio. Da quel momento ogni istante contava assai più di tutti quelli che lui aveva vissuti fino allora, ogni suo gesto assumeva la stessa importanza di quelli degli uomini di Stato, dei quali i giornali annotano le minime sfumature. […]”

“[…] «Cerchi di capire bene, se non è troppo ubriaco, quello che le dirò… Innanzitutto voglio che lei sappia che non sto tentando di comprarla… De Coster non compra nessuno, e se le ho confidato tante cose è perché la so incapace di andare a raccontarle… Chiaro? Adesso mi metto nei suoi panni… Di fatto lei non ha più un soldo e, conoscendo quelli dell’Immobiliare, si riprenderanno la casa alla prima scadenza inevasa… Sua moglie non glielo perdonerà… Tutti crederanno che lei sia stato mio complice… Sì, potrà anche trovare un altro posto, ma sarà comunque ridotto alla stessa situazione di suo cognato Merkemans… Ho mille fiorini in tasca… Se rimane qui non posso niente per lei… Non saranno cinquecento fiorini a cavarla d’impaccio… Ma se per caso prima di domani le riuscirà di capire… Tenga, vecchio mio!». […]”

“[…] «Ora, se non ha troppo sonno, può accompagnarmi fino al treno… Ho un biglietto di terza classe…». Era un vero treno della notte, sonnacchioso, sordido, abbandonato in fondo a un binario. Il capostazione, col berretto rosso, aspettava solo di aver dato il segnale per andare a letto. […]”

Rimasto solo, Kees fantastica sulle sue rivincite. Leggendo si avverte fisicamente il malessere e la vertigine per l’alcool e anche per lo svelamento della sua posticcia morale di quindici anni che cominciò a vacillare. I pensieri vorticarono assieme al senso dell’equilibrio nel letto. Il lettore è coinvolto in una tensione, in cui gli eventi vorticano continuamente in un ritmo serrato. Popinga Kees inizia a scrivere sul taccuino rosso come se fosse una partita a scacchi, e anche per mantenere la memoria della sua inconscia paura di rimanere nell’anonimato.

“[…] Tutto poteva permettersi! Poteva essere tutto ciò che desiderava ora che aveva rinunciato a essere a ogni costo, per tutti quanti, Kees Popinga, procuratore!

[…]”

Simenon usa molto bene i particolari. Il muro di calce, le luci accecanti nel garage segreto dove rubano le macchine. Il caffè bollente. L’uomo alto con la tuta. Si avverte la corporeità nelle descrizioni così apparentemente semplici, con un solo aggettivo. L’atmosfera cupa e fumosa del bar, della vita quotidiana, prefigura ciò che pensano i protagonisti. Il rimo della scrittura conferisce il movimento e determina una struttura narrativa, corposa, colorata, gonfia. Di sangue e carne, con tatto, sapori, odori.

“[…] Kees non aveva voglia di dormire. Andò ad affacciarsi alla finestra, o per meglio dire all’abbaino, e lasciò errare lo sguardo su un paesaggio straordinario: in lontananza prati ammantati di neve, poi rotaie, fabbricati, travi di ferro, ammassi confusi del materiale di una grande stazione, vagoni senza locomotiva che si muovevano piano piano, locomotive senza vagoni che segnavano rabbiose il passo, fischi, grida, e sparuti alberi sfuggiti al massacro, che disegnavano mesti il nero viluppo dei rami contro un cielo diaccio. […]”

“[…] Lui era più forte di tutti loro, incluso Louis, inclusa Jeanne Rozier… Tutta la banda era come prigioniera del garage, come maman lo era della casa, Claes della clientela e di Éléonore, Copenghem del circolo degli scacchi di cui ambiva la presidenza… Lui, Popinga, non era prigioniero di nulla, di nessuno, di nessuna idea, di niente di niente, e la prova…

[…]”

Il protagonista varia continuamente il suo agire in modo equivalente al gioco degli scacchi, nel girare gli alberghi, fumare i sigari e le pipe; portare una valigetta. Cambiare sempre. Metodicamente: evitare i metodi.

“[…] «Insomma, ho continuato a essere procuratore per abitudine, marito di mia moglie e padre dei miei figli per abitudine, perché non so chi ha deciso che così doveva essere e non altrimenti. «E se io, proprio io, avessi deciso altrimenti? «Lei non può immaginare fino a che punto, una volta presa questa decisione, tutto diventi semplice. Non occorre più occuparsi di quel che pensa il Tale o il Talaltro, di quel che è permesso o proibito, dignitoso o meno, corretto o scorretto.

[…]”

“[…] «Ma possibile che nessuno capisca come ’prima’ qualcosa in me non funzionava? ’Prima’ se avevo sete non osavo dirlo, né tanto meno entrare in un caffè. Se avevo fame, e mi offrivano qualcosa in casa di amici, per educazione mormoravo: «“No, grazie!”. «Se mi trovavo su un treno, mi facevo obbligo di fingere di leggere o di guardare il paesaggio, e non mi sfilavo i guanti anche se mi stringevano le dita, perché così prescrivono le buone maniere.

[…]”

“[…] «Dunque, non sono né pazzo né maniaco! Solo che a quarant’anni ho deciso di vivere come più mi garba senza curarmi delle convenzioni né delle leggi, perché ho scoperto un po’ tardi che nessuno le osserva e che finora sono stato gabbato.

[…]”

La stessa città di Parigi offre occasioni per la discesa all’inferno. L’attentato al suo io paranoico, nella determinazione sovrastimata dell’immagine di sé. Riceve colpo su colpo: la truffa alla sua intelligenza, l’indifferenza, e la costrizione alla normalità che odiava.

Si rende conto di non poter esprimere la follia, essendo costretto nel racconto: avverte il carcerario che si avviluppa attorno a ogni suo intento.

§CONSIGLI DI LETTURA: l’uomo che ricordava troppo

Umberto Rossi. L’uomo che ricordava troppo. Prima edizione dicembre 2015 ISBN 9788867759828 © 2015 Umberto Rossi Edizione ebook © 2015 Delos Digital srl Piazza Bonomelli 6/6 20139 Milano Versione: 1.0

“[…] Johann Hagenström ha un bel problema: la sua memoria ha perso parecchi pezzi del suo passato; in compenso, ogni tanto ricorda cose che non sono mai successe… che non possono essere successe. Johann vorrebbe tornare a una vita normale e al suo normale lavoro di traduttore: ma la strana sindrome mentale che lo affligge non glielo consente. La terapia dello psichiatra che lo ha in cura non sembra dare risultati; come se questo non bastasse, i suoi falsi ricordi lo portano frequentemente nel bel mezzo di una feroce guerra civile che lo atterrisce, o di un’Italia ridotta a un deserto. E nelle sue allucinazioni retroattive torna ossessivamente una figura enigmatica, un’affascinante donna di colore che pare conoscerlo molto bene… troppo bene. Quando poi Johann comincia a incontrare persone uscite dai ricordi di una vita che non ha vissuto, tutto intorno a lui comincia a disgregarsi; lui stesso comincia a dubitare di se stesso; e quella che emerge è una realtà minacciosa. E letale. Un romanzo finalista al Premio Urania, dove Philip K. Dick incontra Alfred Hitchcock. […]”.

Un libro avvincente che inizia in modo colloquiale, portando il lettore per mano nei luoghi della narrazione. Il modo informale e la sintassi apparentemente disordinata all’inizio, suggeriscono invece richiami e indizi per gli eventi che via via si snoderanno lungo il corso delle pagine. È un libro strutturato a più livelli, dove ogni nome, le vie, i richiami storici, alcunché non è posto a caso.

È un libro di atmosfere familiari in cui i tempi della nostra immaginazione si intersecano. Si annusano gli ambienti dei gialli, dei racconti di fantascienza dei decenni passati, ma questi sono aromi volatili, che, appena dileguati, annunciano qualcosa di altro. E lo si sente. Gli Odori e le suggestioni diventano elementi che compongono un ritmo nella narrazione. Un libro di incroci temporali tra le vite dei protagonisti e gli spazi, dove entrambe le direzioni prendono una vita autonoma intersecandosi a più riprese, fornendo squarci ulteriori dell’orizzonte degli eventi.

“[…] e l’eternità c’è entrata, si è impadronita di me, senza che lo volessi, senza che facessi nulla per entrare nel suo dominio, mi ha preso e non mi lascia più se solo riuscissi a ricordare quando e come ho lasciato quella saponetta nel lavandino; se solo riuscissi ad uscire dal tempo delle acque e delle rocce, che mi ha catturato; se riuscissi a tornare tra gli uomini, a ridiventare me stesso… ma non so come si fa eppure deve esserci un modo per ricordare… […]”

Suggestivo lo stile in cui il protagonista parla in prima persona circa gli eventi del passato, affermando di non ricordarli in modo compiuto. È una narrazione di memorie delle proprie dimenticanze.

“[…] tra Contro-passato prossimo di Morselli e un romanzetto di fantascienza di un certo Philip K. Dick, che neanche ho mai letto (con un titolo ridicolo: Slittamento temporale su Marte… possibile che abbia comprato una scemenza del genere?). Sta di fatto che l’ho dimenticato di nuovo.

[…]”

“[…]  Dico finalmente, perché se avessi continuato a distruggermi inseguendo un passato perduto o i fantasmi di una vita che non ho mai vissuto sarebbe finita che non sarei vissuto più. E questo non lo voglio. Devo dare un taglio netto a quel passato che mi ha portato a sprecare due anni nell’abulia più malsana. Devo pensare a vivere, qui e ora […]”.

“[…] Ho sempre sentito dire che in vecchiaia ti tornano ricordi perduti dell’infanzia con una grande intensità. Ma io non sono vecchio; e qui non è solo ricordare, è rivivere. Come se fossi andato in trance, come un sogno. Ma no, ma che sogno. I sogni sono cose incasinate e surreali, nei sogni guidi una macchina che ha come volante una frittata, cose del genere. Quel posto, quel capannone, era vero. Era tutto vero, troppo vero. Anche la paura che provavo. Anche la morte che aleggiava nell’aria. Io lì ci sono stato. […]”.

La visione del protagonista è caleidoscopica. Si ha la sensazione di camminare per le vie di Roma, assieme a lui, anzi dentro i suoi occhi, provando le sue sensazioni di fatica e di spaesamento. E tra questo uomo che ricorda diversi orizzonti temporali, si avverte la peculiarità della città di Roma, che è una città del tempo, come della morte. Una sovrapposizione continua di luoghi e linguaggi, tutti presenti, anche in modo conflittuale. In sequenza alcuni, in conflitto oppositivo altri.

L’oblio e la memoria più che un legame dialettico, sembra abbiano una rilevanza spaziale. Il tempo è scandito dalle azioni e dai mondi evocati dal protagonista. La memoria degli eventi del passato per noi lettori, e alcuni di essi nel futuro, rispetto al tempo della narrazione, oscillano come il parabrezza di una macchina. Emergono, anche, spicchi della memoria storica di noi italiani, dei lati oscuri del nostro passato recente nella guerra, nel fascismo, nel razzismo, nelle oscenità che stancamente attribuiamo ai popoli a noi vicini, per non fare i conti con noi stessi.

È un romanzo in cui, oltre alla trama che non rivelo, perché, oltre ad essere distopico, mantiene una tensione narrativa che lascia indizi per gli eventi a seguire, esprime il senso delle tante città e dei tempi che quel luogo eminente del ricordare, presente e concreto, è Roma. Poiché noi italiani ne siamo uno spicchio relativamente recente, questa moltiplicazione prospettica delle trame e delle vite, si estende nei territori circostanti, oltrepassando l’Italia e il continente.

Iniziamo a ricordare anche noi.