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§CONSIGLI DI LETTURA: MONDI SENZA FINE

Mondi senza fine, 2023, Urania, Mondadori, Milano, di Clifford D. Simak (Autore), Davide De Boni (Traduttore)

Il volume contiene 4 romanzi di Clifford Donald Simak: “Oltre l’invisibile”; “City”; “Way Sation” e “L’Ospite Del Senatore Horton”. Sono contraddistinti da una narrativa immaginifica con un senso della meraviglia, che invita il lettore a espandere il suo orizzonte visivo nel cosmo, mentre ci si immerge nel profondo dell’animo umano.

Il cuore del singolo e l’infinito del cosmo che convergono in una domanda: “Perché io Esisto?” e “Cosa è l’umanità?”

Domande terribili, che, però, sono dispiegate in una narrazione fantascientifica, evocativa, pudica e discreta, con una poetica magica, che effonde una pacifica suggestione di rilassatezza e di buona disposizione a pensare l’incertezza.

È impossibile leggere questi romanzi in modo distaccato, perché l’autore esige la collaborazione e la compassione del lettore rivolta a tutte le creature viventi e a quella particolare manifestazione del cosmo che è l’uomo, anche nelle sue gesta violente e distruttive.

Vi sono domande radicali, cui il lettore non può evitare di interrogarsi. Nel romanzo “Oltre L’invisibile” è posto principalmente il tema della presunta superiorità e del diritto dell’essere umano di disporre di ogni essere vivente dell’universo.

59-60 “ […] «Per farla breve,» proseguì Stevens «siamo portavoce dell’idea che agli androidi dovrebbe essere garantita l’uguaglianza con il genere umano. Di fatto, sono umani sotto ogni aspetto tranne uno.» «Non possono avere figli»

[…]

«Migliaia di anni fa è stato cancellato ogni legame di schiavitù tra esseri umani biologici. Ma oggi esiste un altro tipo di schiavitù, che lega l’umano fabbricato a quello biologico. Perché gli androidi sono una proprietà. Non vivono come padroni del proprio destino, ma al servizio di una forma di vita identica alla loro… identica sotto ogni aspetto, tranne per il fatto che una è biologicamente fertile, mentre l’altra è sterile» […]”

203-204   Tutta la vita possiede un destino, non soltanto quella umana. Esiste una creatura del destino per ogni altro essere vivente. Per ogni essere vivente e anche di più. Aspettano che la vita accada, e ogni volta che si manifesta una di loro è lì, e ci rimane fino alla conclusione di quella specifica vita. Non so come, né perché. Non so se il vero Johnny sia alloggiato nella mia mente e nel mio essere o se rimanga semplicemente in contatto con me da 61 Cygni. Ma so che è con me. So che resterà.

“City. Anni senza fine” si compone di una sapiente architettura di racconti mitici circa l’esistenza della presunta “razza umana”. E qui si arriva alla definizione del ciclo della nascita e della morte di ogni età del mondo, e delle specie viventi in essa coeve. Il timore della memoria e della ricerca di senso di ciò che si è stati e dello scopo di ogni senziente è mostrato, in una riflessione dolorosa, sperduta, alla ricerca di almeno una rispondenza temporale della veridicità del proprio esser stati in vita.

622-624 “”[…] «Ci sono altri mondi là fuori,» stava dicendo Andrew «e in alcuni di essi c’è vita. E persino una qualche forma di intelligenza. C’è del lavoro da fare.» Non poteva trasferirsi nel mondo delle ombre in cui si erano stabiliti i Cani. Molto tempo prima, quando tutto era iniziato, i Webster se n’erano andati per far sì che i Cani fossero liberi di sviluppare la propria civiltà senza interferenze da parte degli umani. E lui non poteva essere da meno rispetto ai Webster, perché anche lui, dopotutto, era un Webster. Non poteva intromettersi nelle loro vite; non poteva interferire. Aveva tentato la strada dell’oblio, provando a ignorare il tempo, ma non aveva funzionato, perché nessun robot poteva dimenticare. Si era convinto che le formiche non avrebbero mai avuto importanza. Si era risentito per la loro presenza, certe volte le aveva persino odiate, perché se non fosse stato per loro, i Cani sarebbero stati ancora lì. Ma adesso si rendeva conto che tutta la vita aveva importanza. C’erano ancora i topi, ma quelli stavano meglio da soli. Erano gli ultimi mammiferi rimasti sulla Terra, e non dovevano esserci interferenze. Loro non ne volevano e non ne avevano bisogno, se la sarebbero cavata bene. Avrebbero forgiato da soli il proprio destino, e se il loro destino non fosse stato altro che rimanere semplici topi, non ci sarebbe stato niente di male in questo.

[…]

 Col tempo non ci sarebbe stata più nessuna casa, ma solo un tumulo d’argilla a contrassegnare il punto in cui in passato ne sorgeva una. Tutto derivava dal fatto di aver vissuto troppo a lungo, meditò Jenkins – aver vissuto troppo a lungo e non essere in grado di dimenticare. Quella sarebbe stata la parte più difficile: lui non avrebbe mai dimenticato. Si voltò e riattraversò la porta e il patio. Andrew lo stava aspettando ai piedi della scala che portava a bordo dell’astronave. Jenkins tentò di dire addio, ma non ne fu capace. Se solo avesse potuto piangere, pensò… ma i robot non potevano piangere […]”

“Way Station. La casa delle finestre nere” accoglie tutti noi in una sensazione di struggimento, nostalgia di amore, di una civiltà, del tempo, il passato e il presente, che si confronta con l’eternità, per venirne a patti. Il dilemma scaturito dalla consapevolezza che la mortalità ha le idee, i pensieri, la memoria, le aspirazioni, la fantasia.

Se diventassimo immortali, d’altro canto e se fosse impossibile cambiare il proprio sé rispetto ai tempi più lunghi imposti al proprio io e alla propria mente, ciò colliderebbe con la nostra specifica individualità: la nozione dell’<Io>. Simak suggerisce che il sottoscritto, voi, e ogni mortale che ancora deve nascere, ha dei limiti nella sua evoluzione.

Il dubbio che l’evoluzione trascenda la mia intelligenza: informa che io sono destinato a diventare un passato, ovvero una parte di ciò che avverrà, o semplicemente di comporsi in un magma che sprofonda nell’oblio.

La volontà di sopravvivere, mantenendo la memoria e la biografia del proprio animo, nella sua tensione di espandersi verso il tutto, ha la sua evoluzione in una sublimazione in un futuro che ingloba il passato.

Il mortale, quindi, ha come suo elemento costitutivo la perenne oscillazione di senso tra l’oblio e la negazione della realtà come altra da sé. Si rimane quindi imprigionati in questo dilemma, avendo la tentazione della scappatoia verso la morte. Con il terribile timore che l’eternità  possa soltanto promettere l’angoscia del fallimento.

Certamente Simak non pensava nel modo in cui il sottoscritto sta radicalizzando i suoi intenti e la sua poetica, ma egli è un grande scrittore che supera il genere della fantascienza, perché i suoi romanzi sfuggono dalle sue stesse premesse e intenti. Diventano dei classici. Acquisiscono una vita propria e si nutrono del fascino e delle sensibilità del pubblico che sopravviene nel tempo e nei luoghi ulteriori a quelli di riferimento all’atto della pubblicazione dello stesso autore.

I suoi romanzi hanno un lirismo poetico, una struttura mitica, una passione commovente nel cercare un abbraccio di consapevolezza circa i propri dilemmi, verso qualunque essere umano, anzi oltre esso: qualsiasi forma del vivere.

Sono il protagonista del mondo? Certamente i valori, i criteri della verità sono tali, coerenti e adeguati entro la mia specie, che si vede unica e il resto dell’universo un residuo. Mi concedo, quindi, il lusso di guerreggiare e distruggere. Ma l’intelligenza e l’idea dell’anima, questo mio “io” e “destino” correlato, sono i punti insondabili di ciò che è la rappresentazione del mondo. Oppure ne sono un epifenomeno tra i tanti? E quindi ancora la nozione del vivere e la rappresentazione di esso, nei modelli di vita, non potrebbero essere di più e diversi da noi?

L’insignificanza, ancora prima dell’oblio, comporta in questi romanzi, dalla paura della supremazia del primo romanzo, a quella della estinzione del secondo, al terrore della propria insignificanza nel terzo, la percezione dell’abisso e nel contempo la visione di una prospettiva più ampia dell’universo. Fino alla irresistibile richiesta di un perché della realtà nel quarto romanzo “L’ospite del senatore Horton”.

E qui che vi è il poetico e lo struggimento, perché Simak utilizza la vastità delle galassie per mostrare la periferia infima del nostro settore dell’universo e noi in esso, ma offrendo, con questa amara consapevolezza, un arricchimento del proprio vivere, qui ed ora.

È impossibile che noi non ci si possa porre le domande sul nostro senso dell’essere, del luogo, e dell’anima, nonostante che l’insensatezza sembra essere l’unica conclusione.

Eppure nei romanzi si mantiene un filo di speranza nel mantenere la memoria e una costanza di comprensione, ove il luogo è una semplice, pudica, ma universale compassione, forse anche al di là della volontà dell’autore. Tra i monologhi interiori, le domande retoriche, i picchi drammatici, le scene d’azione, sublimano in un lirismo in cui il proprio dolore di una nostalgia di ciò che non è mai accaduto e di ciò che da sempre fu impossibile sperare, rivela la capacità infinità di subire la sconfitta della morte, mantenendo l’attitudine a cantare e a poetare della propria condizione, tra il ritmo della caduta ultima, al verso stilistico dell’insignificanza.

L’accoglienza del dolore invita alla lettura, al richiamo, all’acclamazione di un segno di speranza all’infinito, in uno spiraglio di insensatezza eterno, tra gli spazi e i millenni.

I romanzi sono contraddistinti da una iniziale descrizione dell’eroe che, in primo luogo, esce fuori dalla comunità. È il deviante. Chi per il tempo, chi perché deve compiere una impresa per conto di potenti organizzazioni, ovvero quelle che costituiscono la trasfigurazione del “grande padre”. L’eroe intuisce il mistero, e in quell’istante diventa il pericoloso deviante.

L’uomo che viaggia nel tempo. Il mutante con i tre corpi. L’uomo immortale. Protagonisti solitari al limite del crimine e della follia. Ogni loro individuazione è aiutata dalla donna “Beatrice” che assume il ruolo di una guida, che offre un luogo, una risorsa, una parte umana di sé che riaffiora. Ella è sempre la figlia di un padre che è l’autorità, che dipende da quella organizzazione dove il protagonista ha avuto lo scopo e la missione. Ma che ritorna contravvenendo agli scopi iniziali.

Il deviante consegna un messaggio che rende insensato lo scopo iniziale e quindi la stessa organizzazione, ovvero la specie umana. La nazione che si crede la più potente. La razza umana che si crede di dominare le altre. Di essere unica. La razza umana che pretende la galassia. Ognuna di queste trame della follia, diventa arcaica, una facezia, un soffio d’aria dileguante.

Simak si interroga sul messaggio religioso del mistero. Non è un caso che gran parte dei nomi dei personaggi hanno riferimenti a caratteristiche di virtù, di inclinazioni, di debolezze, di luoghi che hanno avuto significati storici e religiosi. Tali assonanze sono poste in corrispondenza con le capacità, le attitudini, le capacità fisiche, e l’aspetto. Attraverso i termini scientifici, usa i miti medioevali, traslati in altri tempi, in altri mondi. Il mostro, il lupo, la minaccia del pericolo, e del male, che è proiettato fuori e che forse è dentro di sé. L’eroe difende i più deboli, e quindi cerca la parte più debole di sé.

È la canzone dell’eroe che cerca il Graal, tuffandosi nella realtà. Il protagonista sopravvive se la sua visione del mondo volge nel pietismo, nella compassione, e nell’accettazione dei limiti. È il messaggio morale nascosto di Simak forse a lui stesso non esplicito, ma che si trova nei decenni traslato in sempre nuovi romanzi.

§CONSIGLI DI LETTURA: STARPLEX

Starplex, di Robert J. Sawyer (Autore),
Mauro Gaffo, Traduttore, Urania, 1996,
Mondadori, Milano

“Starplex” è un crocevia di luoghi classici della fantascienza in ordine ai temi dei viaggi interstellari, alla natura delle leggi della relatività generale, e al destino degli esseri viventi e dell’intero universo, all’interno di un processo di acquisizione di conoscenze, attraverso gli stimoli e le domande che vengono calibrate dagli impieghi tecnologici.

È anche una riproposizione dei grandi afflati di democrazia, di apertura, di approccio con lo straniero e le culture “altre”, tipici degli anni sessanta, individuati da saghe come “Star Trek” e non è un caso il rimando indiretto del titolo del libro.

Le produzioni di fantascienza proiettano le storie e i conflitti individuali e sociali tra singoli e interi agglomerati statuali al di fuori del pianeta Terra, in luoghi in cui risiedono umanoidi o forme di vita radicalmente diverse che hanno però, comunque un nostro tratto tipico di comportamento e di valori, che induce a una relazione conflittuale e/o di collaborazione. Le vicende che avvengono tra le entità senzienti sono poi tradotte in avventure con un climax tale da indurre inconsciamente, e non, al lettore una valutazione morale ed etica delle questioni che riguardano direttamente il nostro vivere.

Se il modo di vedere l’esterno è quello di un confine di guerra, allora ogni forma d’intelligenza è un nemico, e quindi estendiamo la nozione di pericolo all’intero cosmo. La ricerca di cibo, di energia, di ambienti adeguati atti alla prosecuzione della nostra specie, si allarga a quella di ambienti interplanetari per arrivare a quelli ultra galattici.

Dalle tensioni derivate dalla volontà di acquisire il potere, di soddisfare i bisogni primari e quelli più evoluti, si esprime una dinamica di scontro e di dialogo tra le diverse razze e forme di vita al limite dei nostri parametri di loro riconoscimento.

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“Starplex” però offre un passo ulteriore di approfondimento che dalla iniziale antica domanda sul “chi siamo noi” umani su questa Terra e su questo Cosmo, e quindi nelle due divaricazioni tra l’origine e lo scopo, la si estende a porre tale questione a forme senzienti tremendamente più antiche e potenti, fino poi a porre in questione il destino dell’intero universo.

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Il tema è sviluppato nel corso della prosecuzione degli avvenimenti. E pone, quindi, dilemmi morali che riguardano noi terrestri, oggi, qui, sul pianeta Terra. Robert J. Sawyer è un canadese come gli altri suoi colleghi coevi sente il bisogno di indagare il tema del riconoscimento delle minoranze, delle culture altre, e di una convivenza aperta e reciprocamente fruttuosa. Ciò deriva dalle condizioni storiche, politiche e statuali della loro nazione di residenza. È opportuno precisare che l’autore non propone facili soluzioni che esortino a un vivere dove tutti si vogliano bene, in un mondo incantato costituito dalla collaborazione e convivenza stretta senza porsi in discussione ed affrontare il sistema dei valori e delle conoscenze in cui si è inseriti. Tale necessità non deriva da una adesione semplicemente volontaria e di abnegazione ma di una riflessione razionale per la quale, l’assenza di una volontà di condividere le risorse e le conoscenze, porterebbe comunque alla estinzione di ogni presunto contendente.

L’autore ha studiato in modo approfondito di astronomia, di meccanica aerospaziale di teoria della relatività. Il romanzo descrive scenari verosimili, pur all’interno di alcune ipotesi fantascientifiche. Tutto però è descritto in modo coerente, con azzardi ben congegnati e adeguatamente descritti. La lettura è anche un’occasione per comprendere le nostre nozioni riguardo la velocità della luce, la materia oscura, i modelli di descrizione dell’espansione o meno indefinita dell’universo, la struttura delle galassie, e infine l’uso della variabile temporale in un’ottica in cui il limite costante della velocità della luce sia posto in discussione.

È veramente immaginifico e nutre la creatività del lettore spingendolo ad immaginare scenari in cui si possa veramente trovare nelle situazioni dei protagonisti.

Il perno fantascientifico è relativo ai salti interstellari causati da una rete di scorciatoie artificiali che costella la Via Lattea e non solo. Ed è qui un punto focale che abbisogna di chiarire, perché gli stratagemmi del salto, del passaggio, del tubo magico, della singolarità che sono usati in innumerevoli racconti di fantascienza si basano tutti sull’idea di poter aggirare il limite della velocità della luce e quindi di uscire fuori dalla concavità del cono spazio temporale, e quindi considerare lo spazio come un punto e il tempo anche con una misura negativa, che comporta la possibilità, quindi viaggiare nel tempo.

Parliamoci chiaro: non è solo una questione di impossibilità tecnologica o di una mancanza di una teoria scientifica attualmente oscura. All’interno del paradigma relativistico in cui pensiamo, per viaggiare alla velocità della luce, o addirittura superarla, ci vorrebbe una quantità tale di energia che ammonterebbe a quella di tutto l’universo.

In un’ottica ipercritica si potrebbe considerare tale ipotesi abusata, pigra, di maniera, ma non se ne può fare una critica eccessivamente spinta all’autore, anche perché non sarebbe più un libro di fantascienza. A suo merito però si pone l’intenzione di discutere di tale natura di salto e di porre una spiegazione plausibile non tanto verso le relazioni dello spazio-tempo, quanto invece, sull’analisi della continua dilatazione dell’universo stesso in rapporto alla materia oscura. Ecco qui l’autore descrive ipotesi interessanti, pregevoli, coerenti rispetto alle ipotesi immaginifiche iniziali, ma coerenti rispetto al nostro bagaglio teorico effettivo.

Non descrivo in modo compiuto la trama e alcune vicende, perché il romanzo è denso di sorprese, e toglierei il piacere della lettura al pubblico. Posso soltanto suggerire alcune questioni di fondo che pone il libro, per chi volesse rifletterne in modo più approfondito:

  • Poiché l’universo ha più di 14 miliardi di anni, siamo così sicuri che la sua evoluzione è volta ad adempiere a uno scopo predefinito quali la creazione degli esseri viventi che hanno di base il carbonio e quindi giungere alla razza umana? Siamo davvero noi il picco della piramide evolutiva?
  • È proprio necessario reagire in modo automatico al sopruso, all’attacco violento, o a una azione di ostilità interstatuale? Non si può lasciar correre? Non accettare lo schema di azione e di reazione? Non è meglio invece rispondere in modo asimmetrico cercando invece la collaborazione, anche tenendo ferme le proprie possibilità di difesa? In altri termini, è proprio necessario che gli inevitabili conflitti che intercorrono tra forme aggregate debbano sfociare poi in azioni che abbiano sempre le etichette dell’odio e della rabbia

È un romanzo che fa respirare l’aria di montagna: fresca, tonda, e vivificante. Un’avventura verso noi stessi e le domande sul nostro destino.

Sia una meraviglia di lettura.

§CONSIGLI DI LETTURA: IL VIAGGIO DELLA ST. JEMIS

Il viaggio della St. Jemis di Isolde Fulke
(Autore), Salvatore Mulliri (Illustratore),
2021, Forevera Books

Questo viaggio è un’occasione per riformulare le concezioni di possibilità del proprio futuro interiore e di quello che si è concepito in gioventù, in rapporto al lettore adulto, e al divenire di quello che è inteso dai lettori più imberbi. È un’opportunità di confronto per intendere emotivamente il mutamento estetico scaturito dal sentire di come si è cresciuti. Giovani e adulti, assieme, nel comprendere le proprie relazioni all’interno di un orizzonte temporale più ampio e meno conosciuto.

Per il lettore giovane, se ha fretta nello scorrere le pagine, il libro offre l’opportunità di immaginarsi all’interno del gruppo dei pari, nel misurarsi relativamente alle abilità, alle capacità, alla reciprocità di eventuali sentimenti più profondi, alla possibilità di aggregazione, alla ridefinizione di nuove identità sociali, e al riconoscimento di una crescita di sé in vista di un’ottica di miglioramento.

Niente di nuovo: i miti e le storie da sempre collocano un prima e un dopo che si deve ripetere, affinché entrino sempre nuovi coorti generazionali, in modo che le precedenti passino nello stadio più adulto, fino alla trascendenza.

È un libro urticante per gli adulti e per chi ha già avuto esperienze di lettura fantascientifiche in gioventù e in età successive, perché potrebbe essere ritenuto una ennesima rivisitazione di schemi narrativi già incontrati e lontani ora dal proprio senso estetico, tale da inibire una immedesimazione verso i protagonisti.

Se ci si fermasse in una valutazione immediata, il lettore incorrerebbe in formule pigre nel ritenere che le vicende siano semplici nei rapporti di causa ed effetto e quasi prevedibili nell’intendere i comportamenti futuri degli attori in gioco. Il rigetto superficiale dell’opera rischia di occultare, qualcosa di inedito che, se compiutamente inteso, offre una dimensione inedita per interrogarsi su di sé.

È irritante nelle prime pagine perché nella chiarezza degli intenti, induce a cadere nell’amaca riposante dei luoghi comuni verso il sempiterno funerale dei romanzi di fantascienza, il suo cadere verso il fantasy, l’appiattimento stilistico e narrativo in una prosa sincopata tipica (sempre tipica nei decenni! E Decenni e secoli) dei “giovani”. Oltre all’uso di termini gergali, misti a quelli scientifici, nella funzione di simboli di appartenenza.

Eppure il fastidio continua, e costringe a rimuginare quasi offesi. Arrivando al picco delle proprie ubbie, ecco che se si presta ascolto al senso malmostoso, il cruccio in verità è anche dovuto al giovane del passato, dietro alle nostre spalle che continuamente ci interroga e ci domanda su ciò che siamo ora nell’aver adempiuto o meno alle promesse e alle aspirazioni che si sono formulate nella propria intimità.  

Esistono sì le forme paterne e materne nel romanzo, ma sono definite in quanto mancanti dai ragazzi, perché gli adulti con difficoltà riescono ad assumere tali oneri. Eppure, ed è qui il dilemma, forse sono proprio i piccoli e gli adolescenti che sollecitano gli adulti a divenire tali in modo più pieno.

Lo stile grafico è minimale, diretto, veloce, e immediatamente consultabile.

Talvolta accade, comunque, che un romanzo si inoltri in esiti forse non previsti dagli stessi autori, con attribuzioni di senso estranee agli scopi della stessa scrittura.

L’invito è accattivante, con l’autrice ( o forse autore, o più autori ) che si firma con uno pseudonimo da telefilm che induce a proprie inclinazioni e atteggiamenti verso il mondo, più che per il proprio vissuto pubblico, quindi in una postura ammiccante verso l’adolescente che non ha ancora una gamma di ruoli definiti.

Lo stile di scrittura ricalca quello delle parlate dirette e semplificate negli aggettivi e nei modi temporali declinati verso la comunicazione giovanile. E questo è in realtà oggi già un tranello, perché anche gli adulti parlano così. Forse il punto debole di questo romanzo è nell’intercalare dell’autore quando nelle premesse degli eventi topici, utilizza un linguaggio con vistosi errori di coniugazione verbale e partitiva, e con una ridotta ed elementare della varietà verbali. Talvolta sembra che sia stato scritto a più mani e sottoposto, in seguito, a poche e frettolose procedure di revisione.

E anche qui se si crede che sia un limite specifico, si incorre in una valutazione indebita. Si potrebbe obiettare che i processi di revisione siano oggi alquanto indulgenti e sbrigativi per molte delle opere pubblicate. I testi, poi, masticati magari anche da motori inferenziali per la produzione di periodi preconfezionati, se non copiati con piccole modifiche da strutture tipiche di narrazione, lasciano un senso di insipida assenza di memoria. 

Eppure questo specifico romanzo esprime qualcosa di inedito che sta emergendo, oggi, qui, in questa Italia di lettori divisa in adulti che hanno un’esperienza robusta per quanto riguarda l’approccio vivo alla lettura, e per quell’altra fascia di fanciulli, ragazze, adolescenti che legge tipicamente romanzi seriali di fantasy, di avventura, d’amore.

Vi sono molte imprecisioni chimiche, meccaniche e fisiche nelle descrizioni tecnologiche delle astronavi e delle stazioni spaziali, ma questa pecca è comune alla stragrande maggioranza dei romanzi di fantascienza passati, anche in relazione alle conoscenze e alle tecnologie dell’epoca. Solo quella quota minoritaria della fantascienza “hard” ne è di poco immune. Però, è qui la ricchezza della letteratura fantascientifica, perché, in un dato periodo storico, ci informa di ciò che è tipicamente tenuto come assodato, e di ciò che è immaginato e reputato per verosimile, in forma mitica e valoriale.

Le epoche storiche sono contraddistinte anche dalla quota del conoscibile e dell’autorevole con riferimento al mondo, allo spazio, all’impiego dei mezzi per disporre della materia, dell’energia e alla fine del potere. Ciò induce anche a comprendere il senso estetico dei lettori del tempo in ordine alle loro preferenze e suggestioni riguardo a ciò che di artistico è apprezzato in rapporto al conosciuto e ai mondi e alle tecnologie concepite. Sì, la fantascienza attinge comunque alle logiche del mito, che è antico quanto la genesi delle comunità umana, e anche al senso del praticabile nel presente, all’obiettivo del possibile per definire il futuro, e alla costruzione dei valori per ciò che è da venire.

Il fascino risiede appunto nella creativa produzione di nuove possibilità di esistenza, che induceva alla lettura ieri come oggi.

Il romanzo non insiste molto nei particolari meccanici dei manufatti, ma propone in un modo colloquiale ed efficace, l’insieme delle nozioni astronomiche relative alle orbite, come quelle di Lagrange, agli orizzonti dei buchi neri, alla deformazione della materia per opera delle forze di gravità. Vi sono richiami e scene in cui vigono disposizioni vettoriali diverse per opera delle inversioni delle forze di gravità, delle orbite eccentriche ed ellittiche. Vi è la descrizione della spinta gravitazionale che permette alle astronavi di cambiare le rotte. Vi sono indicate le nuove strategie per viaggiare nello spazio, come le vele solari, già in uso oggi per alcuni satelliti. La legge di Stokes per i fluidi. Apparenti paradossi tra la grandezza fisica della gravità e le curvature della materia.

Sono tutti argomenti ben sperimentabili. E non è un caso che le astronavi e le stazioni spaziali orbitanti siano descritte tenendo conto delle nozioni suddette. Le stesse navicelle richiamano i progetti odierni in fase di sperimentazione e di sviluppo dei nuovi vettori di lancio.

La caratteristica commendevole risalta nel modo quasi colloquiale ed accogliente di tali nozioni. Dovrebbe essere tenuto a mente di chi professa il mestiere di docente di fisica e di matematica. Ciò non è utile solo per i giovani, ma anche per gli adulti, perché, sì, ed è qui l’irritazione, i più ignoranti sono i lettori antichi.

È resa disponibile un’occasione per riaggiornare le lenti con cui si sperimenta il mondo, per ampliare l’orizzonte linguistico che è dei giovani e anche il nostro. Anche gli adulti leggono poco, anche i maturi prendono testi scritti e intermediali e li spostano tra diversi supporti tecnologici. Ben pochi hanno il lusso del tempo e la disciplina di interpretare i testi intermediali e gestirli in modo approfondito e ripetuto avendo a memoria le versioni e le proprie esperienze anche estetiche ottenute.

Si è tutti nella stessa condizione. La lettura di questo romanzo costituisce un viaggio in modo che ognuno possa essere presente nel proprio tempo e renderlo disponibile ai compagni di viaggio.

I protagonisti permangono: anche il cattivo deve trasformarsi. È l’etica del bimbo delle favole, perché tali caratteri ritornano per una nuova avventura.

Malignamente, si potrebbe sospettare che sia il solito espediente per generare una serie di libri a tema, per futuri introiti. Su tale fenomeno per il quale la fantascienza sembra schiacciata nello stile Fantasy che è trasformato in livelli sempre crescenti di videogiochi è una possibilità. Non è detto che sia uno scadimento.

Quello che occorre capire e se ciò sia valevole per un arricchimento alla lettura, utile per ampliare l’immaginazione, promettente nel formulare nuove risposte rispetto alle promesse che i giovani dichiarano al proprio animo e a quei giovani che gli adulti sono stati.

Questo romanzo è una sfida per tutti.

§CONSIGLI DI LETTURA: L’ASSEDIO. IL ROMANZO DI MARIUPOL

L’assedio. Il romanzo di Mariupol,
di Andrea Nicastro – 29 novembre 2022,
Solferino Editore, Milano

Sono passati mesi, qui, oggi, nel mese di Luglio 2023, dall’assedio di Mariupol. In quest’opera vi sono i resoconti, i fatti, di documenti di alcuni attori di questa vicenda che lì, e attorno, è purtroppo ancora in svolgimento. Non parlano comodamente da un divano. Molti di loro ne sono stati vittime. Feriti comunque nell’animo, oltre che nel fisico, anche per la perdita delle loro famiglie e della comunità. Il processo di distruzione ha coinvolto le dimore, i quartieri, le vie, le scuole: l’intero paesaggio. Mariupol non può essere appellato come se fosse un cimitero, perché anche quello è stato distrutto.

E loro sono i più fortunati, perché sono vivi.

È utile conservare tutto ciò, in modo che si possano richiamare gli eventi, le persone e riutilizzare l’incontro tra il giornalista e altri studiosi e indagatori, in modo che il futuro non agisca univocamente nel traslare le interpretazioni in una univoca direzione di negazione e ancor peggio di consapevole sviamento.

Per il pubblico, qui in Italia, quest’opera è un invito a non incedere in una postura pigra di uno spettatore del Colosseo, acefalo e voluttuosamente voglioso di sangue per estraniare il dramma, considerare i fatti come favole, o peggio ancora giustificare inconsciamente le proprie inclinazioni pornografiche nel provare l’acre soddisfazione nello spiare il dolore altrui.

Quest’opera è un esempio di un processo di ricerca che è metodologicamente ben impiantato, attraverso la dichiarazione degli intenti, il dispiegamento degli indicatori di rilevazione, la messa in opera delle procedure di indagine, di inchiesta e di intervista. In più vi è la cura della sistemazione e della scelta di ciò che si è raccolto. La spiegazione di ciò che è considerato notizia è collocata in una struttura semantica che ha per base il <<fatto>>.

Vi è una consapevole parsimonia nel correlare le relazioni tra gli eventi se non attraverso un lavoro artigianale, e quindi limitato, di ciò che si è rilevato dalle interviste e dalla visione sul campo. Vi è il valore aggiunto di rendere disponibile al lettore il ventaglio delle supposizioni e la logica di costruzione dei giudizi.

È un lavoro onesto che invita il pubblico ad ascoltare in modo disciplinato ed eticamente corretto. È una possibilità ulteriore per evitare l’inclinazione verso considerazioni superficiali, o dettate univocamente dai pregiudizi che riguardano il proprio vivere e nulla entrano in quel luogo totalmente stuprato.

Andrea Nicastro non scrive dal suo divano e non assume il ruolo di predicatore morale circa gli accadimenti in corso come se fosse un turista impermeabile a tutto. Non ha neanche il tono del giornalista che si atteggia a eroe titanico perché affronta la discesa agli inferi, sapendo di riveder le stelle degli applausi del pubblico. L’opinione di massa acefala vogliosa di racconti mitici e quindi semplici, cui spalmare emozioni ed istinti un tanto a serata prima di bersi un caffè o di usare lo stuzzicadenti, mentre commenta tra sé e sé di saperla lunga.

No. Qui il narratore sta assieme alle vittime, anche perché non si aspettava quello che via via accadde ogni giorno, lì, a Mariupol: la città che nel giro di qualche orbita solare sarebbe divenuta un cielo di piombo e una terra di sangue. Le testimonianze e le memorie, sono raccolte nella penuria di acqua, di luce, di vestiti invernali e denaro.

Ecco perché gli aggettivi non sono così sempre declinati al superlativo, perché chi narra, descrive la distruzione che ha appena spostato il suo corpo e la sua camera per le detonazioni. È anche il suo corpo che parla, tra l’udito e lo sconquasso delle ossa.

Ottantadue giorni: millenovecento sessantotto ore. Questa è la storia che si fa attraverso la pratica giornalistica, viva, partecipata e concreta.

11-12 “[…] Di alcuni eventi sono stato testimone diretto, di altri cronista, raccogliendo centinaia di storie, impressioni, frammenti di chi usciva vivo durante e dopo quegli ottantadue infiniti giorni di assedio medievale. La forma del romanzo, invece che del reportage, mi ha permesso di mescolare facce e vite, sommarle, dividerle, dare loro consistenza. O almeno provarci. In ogni personaggio ci sono i racconti di dieci persone diverse più, magari, il ricordo di un fantasma incrociato nelle notti dei bombardamenti. Prima di farvi leggere queste pagine le ho ripulite dalla cronaca più cruda perché mi rendo conto che credere alla realtà è più difficile che credere a ciò che creiamo con la fantasia. La prima ci spiazza, la seconda, figlia dell’esperienza, sappiamo in qualche modo riconoscerla. Esiste invece un qualcosa, magia l’ho chiamato, che uomini e donne sanno concepire nei momenti più drammatici. È un intuito o un agire che ha spesso soccorso l’umanità dai suoi stessi mostri. E ha salvato anche me da Mariupol. Lo troverete, spero, nel racconto assieme allo stupefacente dolore di quell’assedio e alla scintilla di umano che ho visto resistere anche nelle atrocità […]”

53-54 “[…] a me che non è mai piaciuto seguire le notizie, adesso che siamo senza elettricità, adesso a me manca anche la tv, la predica uguale per tutti, qualcuno che mi dica come fare. Mi manca. Mi manca terribilmente. Non voglio pensare da solo, che lo facciano altri per me. Se c’è qualcuno incapace di vivere in un assedio, ecco, sono io.[…]”

Mariupol e l’Ucraina, proprio perché tese all’autodeterminazione, minano il mito fondativo della Russia, sia come impero sia nella sua incarnazione dei soviet. Ancor di più frammenta la monolitica la narrazione cristiana russa di essere la portatrice del messaggio trascendente. Mariupol per la sua economia del ferro e del carbone, che propone nuovi modelli di relazioni sociali dal basso, si trasforma in una occasione di sorgente di mutamento per l’intera Russia, la quale risponde con una crudele volontà di annichilire e negare l’aspirazione alla libertà.

Qui alcuni passi. Aggiungerò solo note di raccordo. Loro, queste persone in carne ed ossa stanno offrendo ora questo presente che diverrà storia, dolorosa per la quale noi tutti dovremo misurarci, per eventuali omissioni, ipocrisie, pregiudizi di comodo.

58-59 “[…] In quel periodo anche Mariupol ha cominciato a cambiare. Poi si è sciolto di colpo pure l’impero che difendeva il comunismo e per Mariupol è stata una corsa. La Russia era rimasta affezionata all’idea che uno decidesse per tutti anche perché soffriva di nostalgia per quando tutto il comunismo del mondo aveva a Mosca la sua capitale. Mariupol, invece, ha voltato pagina. Ha smesso di essere solo la città delle acciaierie e delle montagne di carbone come voleva la Madre russa e comunista e ha cominciato a riempirsi di computer e università. Tra gli operai sporchi di fumo e carbone hanno cominciato a circolare giovani, frizzanti, con le mani delicate di chi non ha mai lavorato con pala e piccone, giovani che volevano costruirsi un futuro su misura. Sono convinta che la Russia ha deciso di essere crudele con Mariupol proprio perché la città era cambiata troppo. L’assedio era contro quei nuovi abitanti che non si ricordavano più che cosa volesse dire essere comunisti o obbedire al capo. Per anni e anni a Mariupol avevano vissuto solo minatori e operai con la testa bassa, ma alla vigilia dell’assedio la città era piena di gente curiosa, libera, un po’ cosacca che guardava dritto davanti a sé. La Russia non riusciva a sopportarli […]”

86-7 «Per il forno, non ti preoccupare [Pavel: nota mia: soldato russo richiamato a combattere, ora panettiere che sognava di migliorare l’attività di fornaio]. Sono contento di stare qui, so di essere fortunato a non andare come te a combattere. Penserò a tutto io, tu impegnati a tornare sano e salvo. Questa guerra non mi piace.» «Perché? Cos’ha di diverso da quelle che hai fatto tu?» «In Afghanistan c’eravamo noi e c’erano gli altri. Tra noi ci si capiva. Noi eravamo noi, i nemici, nemici. Noi potevamo riconoscere i compagni da ogni respiro, da un verso, da un colpo di tosse. Degli afghani non sapevamo nulla e non ci importava niente. Potevamo ammazzarli tutti per quel che ci interessava e avremmo dormito sereni. Erano come marziani. Avevano vestiti diversi, parole diverse, anche la loro puzza era un’altra dalla nostra. Qui invece ci siamo noi da tutt’e due le parti. Quelli che sono dentro Mariupol cercheranno di ucciderti, conoscono le nostre procedure, hanno studiato le stesse manovre, hanno le stesse armi. Sanno come pensiamo. È una guerra innaturale. Quelli di là sono come Caino con Abele. Siamo stati attaccati alla stessa mammella e adesso decidono di accoltellarci alle spalle. Bastardi. Traditori. Nazisti di sicuro. Ma come può essere una guerra normale se è tuo fratello che ti vuole ammazzare?» «Me la caverò.» «Lo accetti un consiglio dal tuo garzone?» «Dai, cosa dici?» «Stai con le forze speciali o, se non ci riesci, stai vicino a qualche mezzo costoso. La fanteria è sacrificabile. I soldati sono numeri, non contano nulla, per i generali le armi valgono molto di più. Le forze speciali, beh, loro sanno proteggersi da sole. Anche dai comandanti carogna e ti assicuro, ce ne sono a bizzeffe in ogni operazione di comandanti carogna. Fatti amico delle forze speciali e quando tornerai il forno sarà uno specchio, uguale a come l’hai lasciato.»

120 Ogni bomba era diversa. Dal negozio senza vetri si sentivano molto meglio che in cantina. Ce n’erano di quelle che sembravano tuoni estivi, rombi prolungati dopo un primo scoppio. Altre, dallo schiocco acuto, erano come schiaffi di un gigante isterico: arrivavano sempre ravvicinate, cinque o sei alla volta perché il gigante era furioso e solo dopo una scarica di schiaffoni si stancava di colpire. Altre ancora erano cupe, potenti, ma isolate, te le immaginavi con la nuvoletta di polvere a forma di fungo in lontananza. Altre avevano il suono di porte sbattute dal vento. Facevano meno paura di tutte perché sembravano davvero lontane. Poi c’erano gli spari, raffiche in genere, tre colpi alla volta, difficile capire quanto vicini se non quando parevano biglie da biliardo che si toccano l’una con l’altra, allora potevi essere sicuro che fossero lontane. Infine, c’era il rumore dei jet che sentivi dove già non erano più, pericolosissimi perché imprevedibili come i missili o qualunque cosa sospirasse prima di esplodere. Quei veloci rantoli trasportati nell’aria erano gentili perché davano il tempo di ripararsi. Un avviso sul filo dei secondi, tre, quattro al massimo, ma abbastanza per scappare all’interno se si stava cucinando.

 121-122 Il missile cadde al di là del parco senza che vedessero l’esplosione. Videro solo l’onda d’urto che investiva il lato del palazzo dove avrebbero voluto rifugiarsi. La videro arrivare nella terra che si sollevava, nell’asfalto che si crepava, nei loro corpi che si schiacciavano contro il cordolo del parco fino a che l’onda di energia si schiantò contro l’edificio. Una scena che non avrebbero dimenticato per il resto della vita. I vetri delle finestre si gonfiarono come bolle di sapone, le lesene di pietra si curvarono, il muro oscillò. Una frazione di secondo in cui la fisica dei giorni di pace smise di avere senso: la materia era diventata molle. La stessa energia che piegava i muri come fossero di tela aveva attraversato anche i loro corpi. Sentirono la mano appoggiata al muretto fondersi con la pietra, le loro braccia, le teste e gli organi interni muoversi ciascuno per proprio conto. Videro i vetri gonfi come palloncini esplodere in minuscole schegge. E infine, un attimo dopo, il rumore più spaventoso che avrebbero mai sentito, alle loro spalle, al di là del parco. Rimbalzarono dal muretto alla terra gelata. Il cuore ricominciò a battere tutto d’un colpo, all’impazzata. Le gambe non rispondevano. Respirarono assieme come quando si emerge da sott’acqua, avidi d’aria. Erano vivi. La terra e il muretto a cui erano rimasti aggrappati, erano tornati a essere duri. Il palazzo, che per pochi istanti era sembrato un drappo al vento, appariva di nuovo rigido. Le finestre sventrate, i cornicioni sbrecciati, la strada, pulita prima dell’esplosione, era coperta da un tappeto di frammenti.

175 «Chiedi alla donna come hanno fatto a scappare a piedi.» Olga ricacciò un ciuffo di capelli sotto il berretto di lana e guardò la telecamera che aveva davanti. Raccontò del carro armato e dei cecchini che li osservavano dalle finestre sventrate dei palazzi. Raccontò dell’umiliazione di sentirsi senza valore, senza diritti, in balia di uomini armati. La paura che qualcuno potesse sparare loro a ogni angolo. Raccontò dei cadaveri abbandonati per strada, del loro tentativo di cambiare marciapiede perché i bambini non li vedessero. Parlò dei posti di blocco e degli uomini perquisiti e del cibo che avevano ricevuto. Parlò del contadino che li aveva raccolti, un angelo, disse, capitato su una strada dell’inferno quando le vesciche ai piedi non permettevano più loro di camminare. Raccontò dello speculatore che li aveva portati sino a Zaporizhya, di come quel brodo bollente non riuscisse a scaldarli. Quanto risultava obliquo, difficile da spiegare, controverso, scomparve dalla traduzione. Secondo l’interprete e quindi secondo il servizio che andò in onda, la famiglia era sfuggita a un carro armato russo e aveva dovuto strisciare lungo i muri per evitare i cecchini mandati da Mosca a trucidare chiunque cammini per le strade. Rimasero le vie piene di cadaveri, ma i bambini costretti a scavalcarli non dormivano più per gli incubi. Ai posti di blocco poi scomparve l’acqua e il cibo e restarono le perquisizioni dei maschi, ricerche violente e ingiustificate, così come svanì il tassista profittatore mentre il contadino si trasformò in coraggioso patriota, forse un partigiano, che li aveva portati gratuitamente sino lì. «Sperate di tornare un giorno a Mariupol?» «Mariupol non esiste più.»

§CONSIGLI DI LETTURA: HAIL MARY

Project Hail Mary di Andy Weir (Autore),
Vanessa Valentinuzzi (Traduttore),
Prima edizione 2021, Edizione Italiana 2023,
Mondadori, Milano

Il romanzo di Andy Weir segue lo stile dei due precedenti come Martians (Premere qui per leggere un consiglio scritto di lettura) e (Premere qui per leggere un consiglio scritto di lettura) Artemis. Vi sono protagonisti, maschile nel primo, femminile nel secondo, che hanno un rapporto conflittuale con le autorità. Mostrano una distonia tra ciò che il potere e il diritto pretendono per il mantenimento dell’ordine sociale e per risolvere problemi scaturiti da pericoli incombenti, a fronte dei valori di libertà e democrazia che conferiscono a loro autorità.

Le esigenze del collettivo, o delle élite, se sopravanzano le richieste e le aspirazioni del singolo, spingono il protagonista del romanzo a opporsi a seguire una accondiscendenza formale ed acritica, fino a incorrere in reati penali come in Artemis. Il protagonista, come qui, in Hail Mary, cioè Randy Grace è una reincarnazione del Cow Boy Usa che è si fedele ai valori della comunità tutta, ma che è capace di azioni di rivolta, di rinuncia, di conflitto. Intraprende una vera ribellione, non tanto per sovvertire l’ordine costituito, quando, secondo la sua ottica, di renderlo più aderente e non contraddittorio nell’esercizio del suo potere, rispetto a ciò che dichiara e a ciò cui si appella in ordine all’etica, alla morale e al diritto.

A fronte di un pericolo mortale per l’intero pianeta Terra, Randy Grace accetta di collaborare mantenendo un atteggiamento da battitore libero sia nell’effettuare una ricerca di biologia e di ritrovarsi poi coinvolto in una missione spaziale, a dir poco suicida.

Lo scrittore Andy Weir, qui, affina sempre più, come nei due romanzi precedenti, il suo stile ironico e avvincente, per coinvolgere il lettore come se stesse seguendo un serial in tv. Offre una rappresentazione scenica in cui si ha la sensazione di essere immersi accanto ai personaggi. Anche qui, in modo mirabile, segue il filone della Hard Fiction, ovvero la scrittura di fantascienza che ha sì una idea attualmente irrealizzabile, ma che, se presa per vera, tutto il contorno tecnologico e le nozioni di fisica, chimica e astronomia, sono vere e coerenti nella loro relazione. Vi è una attenzione maniacale dei moti dell’astronave. Si rileva che ha studiato molto di microbiologia, e delle relazioni tra la luce e lo scambio di energia negli organismi viventi.

È uno scrittore superlativo, e non è un caso il suo successo, anche nella riproduzione filmica dei suoi romanzi, in merito a una narrazione attenta ai ritmi di comprensione di ciò che è esposto. Non è un caso che ci si senta portare per mano nel comprendere l’ambiente ipertecnologico che fa da contesto. Anche qui ha frasi “slang” che possono essere comprese in modo compiuto solo da chi vive negli USA, anche per i riferimenti a particolari modi di dire riferiti a luoghi e a persone specifiche. E questo è un limite delle traduzioni di tutta l’opera di Andy Weir: sarebbe il caso di corredare con note esplicative, quella massa di riferimenti quotidiani che è offerta. Si dovrebbe avere la capacità, la voglia, e il tempo, come solitamente il sottoscritto compie, di avviare ricerche laterali per quei termini e per quei rimandi oscuri, che in realtà però sono rivelatori di analogie e di riferimenti che offrono nuove chiavi interpretative circa lo sviluppo della narrazione.

È un peccato che non siano esplicitate, perché queste rendono più concreti i personaggi, e in particolare il loro vissuto. Senza contare poi, che lo stile è comico, con battute e motti di spirito, che potrebbero essere più ficcanti, nell’inquadrare i contesti in modo meno approssimato.

Nei romanzi di Weir, come in questo, il monologo del protagonista la fa da padrone: scandisce l’intervallo con i dialoghi con gli altri personaggi. In Martians il soliloquio mentale traccia il prima e il dopo con i dialoghi e spiega lo svolgersi dei momenti topici nell’atto del loro svolgersi. In Artemis si riprende tale stile, aggiungendo un doppio dialogo che la protagonista ha con gli eventi del passato, in modo che siano incasellati nelle scelte dell’azione presente. Anche in Hail Mary vi sono queste due caratteristiche, ma il ricordo qui, non è solo un elemento per coordinare il monologo interiore, quanto un vero e proprio antagonista. Randy Grace all’inizio del romanzo è smemorato, e i ricordi arrivano goccia a goccia, non soltanto come elementi inerti, ma come un groviglio di situazioni reali che si accostano nelle vicende del presente.

Il passato viaggia in parallelo con il presente, e la riflessione, e la chiave dell’interpretazione viaggiano entrambe nel participio passato. Il futuro, invece, si ritrae continuamente. Tutto ciò rende dinamica la storia. Va vissuta fino all’ultimo senza farsi prendere dalla voglia di sapere immediatamente la fine. Una chiave dei successi di questi libri, risiede nell’abilità dell’autore di moltiplicare il personaggio principale in tanti se stessi sia nei dilemmi morali sia nel corso della narrazione, in modo che tutti siano presenti, offrendo quindi una riflessione autoironica, disincantata e briosa.

È facile immedesimarsi con i protagonisti, perché, nonostante le avversità, i disastri, i propri limiti, hanno comunque uno spirito positivo. Cercano di capire l’oscura minaccia che si avvicina e affrontano il pericolo nel tentativo di elaborare tattiche e strategie di risoluzione. Si rimane stupiti di quante risorse emotive e cognitive i protagonisti tirino fuori dal cappello, ma Andy Weir è abile nel mostrarcele nei momenti di massima tensione, offrendo quindi l’immagine che anche noi, in condizioni di necessità, saremmo capaci di reagire in modo proficuo ed adeguato.

Per questo stile che definirei fresco e corroborante, questo libro andrebbe vissuto e sperimentato nel chiedersi quali siano i propri limiti, e nel pensare le soluzioni più adeguate per risolverli o perlomeno ridurli.

Dietro l’apparente comicità del romanzo, però sono trattati temi capitali, come l’ambiente, il senso della propria esistenza qui in questo pianeta, e l’anomalia stessa che è la Terra rispetto agli astri. Vi è un tributo alla volontà di vivere associata a una genuina sete di conoscenza.

Come in ogni sua opera Andy Weir si documenta in modo minuzioso chiedendo la collaborazione di esperti e di scienziati circa gli argomenti e gli ambiti scientifici e tecnologici in cui la narrazione è intessuta. Vi sono descrizioni della biologia molecolare e quella dei batteri. Vi è anche una ideazione comparativa riguardo le diverse forme ucroniche di evoluzioni della vita in pianeti diversi. Vi è un’ottima applicazione dei modelli delle teorie dell’evoluzione. E alla base di tutto, vi è una descrizione precisa ed attendibile dei fenomeni astrofisici e delle leggi di rotazione e di spinta per i viaggi interstellari.

La lettura di questo libro offre un’occasione per approfondire l’ostico concetto delle teorie della relatività, in particolare per le relazioni tra lo spazio e il tempo in funzione di velocità quasi prossime a quella della luce. L’esposizione, infatti, è accessibile, lineare, senza scorciatoie “gergali” o ad “effetto” che mascherano eventuali incongruenze fisiche e astronomiche.

È uno scrittore onesto: parte da una idea che è fantascientifica, ma l’ambiente e lo sviluppo della narrazione è coerente con le nostre effettive conoscenze teoriche e con le possibilità tecnologiche di oggi.

Per questo l’autore può essere considerato un rappresentante dei nostri giorni degli approcci dei grandi scrittori di fantascienza della “Età dell’oro” che oggi si definisce tra gli anni quaranta e metà anni sessanta del secolo scorso.

Vi è un elemento ulteriore che è più strettamente estetico. All’interno della trama, vi sono due grandi proiezioni dei modelli dei cicli vitali qui nella Terra e delle diverse forme di un paradigma finalistico di ciò che è il futuro e delle responsabilità delle specie più evolute. Qui siamo in un campo in cui è lo scrittore che si confronta con l’etica e la speranza.

È un’opera a tutto tondo che riempie i polmoni d’aria fresca e pulita e si sorride con piacere nell’adagiarsi a una lettura avvincente, onesta, e tutt’altro che superficiale.

§CONSIGLI DI LETTURA: L’ESTATE INCANTATA

L’estate incantata di Ray Bradbury, 2019,
(Prima ed. 1957) Collana: Moderni,
Mondadori Milano

L’incanto nella visione di un bambino in una veste animistica. Ogni cosa acquista una vita propria. Il Sole nelle case, nelle mura, le luci. Le stelle che spariscono con un soffio del bimbo per offrire lo spazio per il ciclico tragitto del carro del sole. Le strade che si illuminano come occhi di drago. Arriva l’estate. Lui, Douglas, sveglia tutti. Le luci del mattino delle case si aprono come grappoli nell’orizzonte e nel converso i lampioni nella città si spengono come candele su una torta nera. Voler essere nudo tra gli alberi, portando sulla pelle il freddo del congelatore e il caldo della nonna che arrostisce i polli.

Metafora, sinestesia, allegoria. Per un bimbo tutto è un simbolo che si scopre per ogni oggetto: la magia che porta nuove parole dalle fiabe e dai racconti. Ogni elemento della realtà è uno scrigno di invenzioni.

La città viva che pulsa rigogliosa nelle nuove e crescenti ramificazioni estive per ragazzi che giocano tra il possibile e il reale, tentando di realizzare l’immaginazione negli eventi del mondo.

Gli adulti sono ancora bambini e non lo sanno: ecco perché falliscono. Non riconoscono di esser già quello che di cui vanno perseguendo, ma Douglas e i suoi compagni invece riescono a scorgere il tesoro. La macchina della felicità di Spaulding fallisce miseramente, ma alla fine si accorge che questa è fornita dall’amore della moglie. Il vecchio colonnello Freleeigh cerca di mantenersi in vita riportando il passato nel presente, capendo però alla fine di esser lui stesso la congiunzione temporale, utile e benefica per i più giovani.

La quasi centenaria Loomis che offre nuove vite e altri mondi già accaduti al giornalista Forrester, che la segue abbeverandosi alle sue considerazioni, fino a quelle più preziose.

“[…] In un pomeriggio di primo settembre William Forrester attraversò il giardino di Helen Loomis e la trovò intenta a scrivere. Lei mise da parte la penna e l’inchiostro. «Le stavo scrivendo una lettera» confessò. «Be’, dato che sono qui può risparmiarsi la fatica.» «No, si tratta di una lettera speciale. Guardi.» Gli mostrò la busta azzurra, che chiuse e premette. «Se la ricordi. Quando il postino gliela recapiterà, lei saprà che sono morta.» «Che discorsi sono questi?» «Si sieda e mi stia a sentire.» […]

 «Ma lei non può predire la sua morte» disse Bill. «Per cinquant’anni ho guardato la pendola in salone, William; dopo averla caricata so indovinare al secondo quando si fermerà, e nel mio caso è lo stesso. I vecchi le sanno, queste cose: sentono la macchina che rallenta e gli ultimi pesi che calano sul piatto. Oh, per favore, non mi guardi a quel modo… per favore.» «Non ci posso fare niente» disse lui. «Abbiamo passato insieme dei bei momenti, vero? Le nostre chiacchierate quotidiane erano qualcosa di speciale. C’è una frase abusata in proposito: “l’incontro di due spiriti”.» Helen rigirò fra le mani la busta azzurra. «Ho sempre saputo che la qualità dell’amore viene dallo spirito, anche se il corpo a volte si rifiuta di ammetterlo. Il corpo vive per conto suo, vive per cibarsi e aspettare la notte. È essenzialmente notturno. La mente invece, William, è nata nel sole, e passa gran parte della vita sveglia e all’erta. Si può trovare un equilibrio tra il corpo, pietosa ed egoista creatura della notte, e l’intelletto, fatto per una vita solare e attiva? Non lo so. Ma so che quando la sua mente e la mia si sono incontrate, i nostri pomeriggi in giardino si sono trasformati in qualcosa di unico. C’è ancora molto da dire, ma rimanderemo alla prossima occasione.» […]”

Douglas gioca, si interroga, sperimenta, vede le nascite e gli abbandoni. Da dodicenne qual è sente nel suo intimo l’idea del mutamento e il senso della morte. Prova la disperazione del rifiuto di tutto, inizialmente perché non vuole dipendere da nessuno, dato che tutti prima o poi lo abbandoneranno o moriranno, e le cose come le scarpe da tennis e i giocattoli si romperanno.

“[…] Quindi…! Inalò due profonde boccate d’aria e le espirò lentamente, fra i denti stretti. QUINDI. L’ultima parte la scrisse in tutte maiuscole. QUINDI SE I TRAM, LE MACCHINE, GLI AMICI E I CONOSCENTI POSSONO ANDARSENE PER UN POCO O PER SEMPRE, ARRUGGINIRE O CADERE A PEZZI; SE LA GENTE PUÒ ESSERE ASSASSINATA, SE PERFINO LA BISNONNA, CHE AVREI GIURATO CAMPASSE IN ETERNO, PUÒ MORIRE… SE TUTTO QUESTO È VERO… ALLORA IO, DOUGLAS SPAULDING, A MIA VOLTA UN GIORNO… DOVRÒ… Ma le lucciole, come spente dai suoi lugubri pensieri, non facevano più luce. In ogni caso non posso scrivere più, pensò Douglas. E non lo farò. Finirò un’altra volta, non stanotte. Dette un’occhiata a Tom, che dormiva appoggiato sul gomito, la guancia nel palmo della mano. Gli bastò dargli una spintarella perché Tom crollasse nel letto, silenziosamente. Douglas prese il grande boccale con le lucciole e lo agitò: come vitalizzate dal suo tocco, le bestiole splendettero di nuovo. Douglas guardò l’ultima pagina, che aspettava le sue conclusioni. Invece di scrivere parole andò alla finestra, alzò la zanzariera e liberò le lucciole, che si sparsero di qua e di là nella notte senza vento. Si affidarono alle ali e volarono via. Douglas le guardò scomparire. Se ne andavano come i pallidi frammenti dell’ultimo crepuscolo di un mondo morente. Se ne andavano come gli ultimi brandelli di calda speranza dal palmo della sua mano.

[…]”

Ma l’intimità della sua irresistibile capacità a stupirsi e a notare che anche l’estate prendeva congedo, lo lasciò di nuovo ammirato per i primi doni dell’autunno che lanciava messaggi di arrivo. E anche qui, sentì nel suo intimo l’incanto di questi doni, che, non avendo ancora nomi, la sua meraviglia li portavano in una presenza piena di vita, e con uno slancio poetico tra i suoni e le luci, nuove sinestesie apparvero.

Quest’opera è un formidabile canto dei corsi del vivere, sempre diverso, mutevole, caduco, ma tenace, tra il dolore e il sorriso, nella conoscenza del dolore e nell’abbraccio al tesoro del proprio animo: l’inimitabile patimento del vivere.

§CONSIGLI DI LETTURA: POETI D’UCRAINA

Poeti D’Ucraina, a cura di Alessandro Achilli –
Yaryna Grusha Possamai, Mondadori,
Collana Lo specchio, 2022


Questo libro è un’apertura ed un invito verso un mondo caleidoscopico e muta forma, accogliente e resistente rispetto alle avversità dei tempi, dei lutti, dei rivolgimenti in una terra in cui si sono riversati i popoli nei millenni, lì in parte risiedendo e in altre continuando ad attraversarlo.

Le terre d’Ucraina sono state e sono una spugna e un filtro degli attriti terrestri e delle strade ventose d’Asia e d’Europa, svolgendo, in più, una cesura d’equilibrio rispetto al medio oriente e ancor oggi parla e manda vita e cibo alle terre d’Africa. I popoli, le lingue, le culture, le genti, chi in pace e chi offendendo, hanno preso e preteso in questo paese. Considerato inesistente o gigantesco. Eppure anche nelle volontà d’arrecare danno e inibizione per questi luoghi, considerandoli meramente materia disponibile, tutti a loro si rivolgono. Non possono fare a meno di volgere lo sguardo in questo mondo, che, nonostante le offese e il sangue, sempre nuova vita è rinata. E nuove parole e modi di vedere il mondo. Certo è comune a tante vicende e popoli della terra, però, qui, si ha una caratteristica che risalta: la memoria di ciò che si è stati, di come ci si è trasformati con l’avvento di nuovi popoli, mantenendo un filo conduttore comune cui la lingua e le espressioni culturali essendone una espressione mutevole, a esso risalgono. La consapevolezza di avere una propria definizione: essere parte dei popoli d’Ucraina.

Nei secoli l’Ucraina ha accolto le lingue, le persone, gli stili letterali e poetici dei paesi limitrofi, e tra i confinanti e i loro figli lì nati, si sono innestati nuovi rami che hanno contribuito a generare non un singolo albero, ma intere foreste di trame narrative, storiche e di miti che conferiscono un senso, un colore e un’estetica. Ciò si è delineato fino ad oggi a determinare le ricostruzioni storiche che permettono una visione feconda e creativa verso il futuro.

I poeti d’Ucraina solo negli ultimi due secoli sono stati autoctoni, russofoni, polacchi, lituani, tartari, cosacchi, romeni, moldavi, slovacchi, ungheresi, provenienti da quell’altro agglomerato in continua evoluzione che sono i popoli delle terre del Caucaso, e fra gli stessi popoli provenienti dalle terre della Russia. 

L’attività poetica è verticale. Ogni testo poetico cerca di rappresentare l’universalità partendo da una occasione sentimentale, temporale, o da un oggetto considerato trasparente, ovvio, banale. Vi è una differenza però per il lettore medio italiano. In Italia da decenni siamo abituati a considerare il poeta nostrano inserito in un contesto nazionale che ha il patrimonio della lingua italiana come un mare creativo trasparente e ovvio. Certo può essere anche un poeta sperimentale e dialettale. Non importa: sempre nell’alveo di un contesto italico è reso nell’immaginario estetico uniforme. Così non è per l’Ucraina: ogni persona è già bilingue o trilingue dalla sua stessa famiglia, oppure anche se reputa di parlare una lingua unica, usa termini propri di ceppi diversi. Ovvero ogni poeta, qui in Ucraina, è un gruppo di persone, più famiglie, luoghi diversi, ricordi ancestrali che vanno dall’Austria fino al Kazakistan. E sì vi è anche di italiano. Anzi molto di noi italiani, genovesi, veneziani (prima ancora dell’unità d’Italia) in Ucraina. Ogni poeta e poetessa ucraina è una moltitudine di approcci linguistici diversi all’interno di una lingua e anche una lingua con più approcci culturali diversi. Eppure ognuno sa dentro di sé distinguere quel nucleo che è la linfa sua creativa e che parte dall’appartenenza primaria alle terre d’Ucraina.

Molti di loro sono stati e sono ancora oggi, di queste ore, perseguitati, torturati, incarcerati, uccisi, e le loro opere obliate. Anzi, nei secoli i popoli circostanti oltre a voler negare l’esistenza istituzionale dell’Ucraina, hanno voluto e ancor oggi cercano di eliminare la lingua, la storia, l’anima ucraina.

Eppure, nei dibatti attuali, specialmente di questi giorni di guerra, di stragi e di orrori in quelle terre, l’Ucraina offre tanto al mondo di cibo, di materie prime, di persone che lavorano all’estero, di idee, di creatività, di manufatti sempre più sofisticati. E principalmente sperimentazioni estetiche e narrative, che hanno anche una valenza identitaria popolare, politica, di resistenza, di cittadinanza. La caratteristica è l’apertura e la creazione di qualcosa che sia sempre ulteriore, avendo però un occhio rivolto alle proprie origini.

E mia sia consentito dire ai russi: l’Ucraina sarebbe stata e lo è e lo sarà per il prossimo futuro, una occasione formidabile per la quale potranno essere qualcosa di diverso, di migliore e di fecondo per i popoli a venire. Di lasciare la visione imperiale che avanza fagocitando e distruggendo, ma di ampliare migliori condizioni di possibilità per l’esistenza di ogni abitante del luogo e anche dei vostri paesi delle Russia. La libertà d’Ucraina è la garanzia futura per la sopravvivenza della Russia e per un suo sviluppo inedito e migliore. La madre Russia crea come quella Ucraina, ma molti dei figli suoi, la rinnegano e avanzano solo volendo il sangue. L’estetica, la democrazia e la creatività ucraina sono forse l’unica occasione affinché la Russia come la conosciamo possa prosperare nel futuro. Sembra un paradosso, ma lo stesso sviluppo dell’Ucraina salderebbe nuove radici per la Russia, partendo proprio dalla poesia: il luogo della gloria, della bellezza, dell’amore, della morte, della sofferenza e della rinascita.

Questo libro è iniziato a esser redatto otto anni prima della pubblicazione nel 2022. Non è solo un prodotto derivato indirettamente dalla tragedia in corso. Vi sono ovviamente selezioni, quello che offre è un insieme di chiavi di accesso, e qui per quanto mi riguarda mi soffermerò in modo non esaustivo, su alcuni punti di riflessione per noi italiani, in una terra che consideriamo lontana, eppure i nostri avi tanto ne hanno avuto a che fare. Dimentichiamo che molti ucraini e ucraini in questi ultimi decenni si sono stabiliti in Italia, e hanno teso rapporti forti, plurimi e diffusi, tanto da apparire trasparenti. Le culture dell’Ucraina da decenni sono aperte al popolo italico e stanno seminando inedite prospettive già presenti. Sta solo alla nostra curiosità, alla nostra capacità di ascolto e di interagire, permettere che questo fiume carsico, finalmente emerga, fecondo e bello di vita.

Mi focalizzerò su alcuni tratti che emergono dalle poesie degli autori, che rimando alla lettura del libro, perché sono tante e per ognuna non basterebbero dieci pagine per discuterle.

Vasyl’ Stus (1938-1985 – morto anche per le lunghe detenzioni nei Gulag). È uno degli uomini più osteggiato e perseguitato fino a controllare ogni ora se avesse o meno la possibilità di scrivere, per negare anche l’atto di prendere una matita, o un pezzo di legno. Un ponte gigantesco della poesia dell’ottocento, non solo delle terre D’Ucraina, anche dell’intera Europa. Classico e romantico. Una esplosione di creatività e di versificazione. L’<io> come colui che è un mondo gigantesco, multiforme che si interroga su di sé, sul mondo, sul tempo, sul senso dell’esistenza, partendo però dal suo stesso dubbio. Le sue poesie hanno domande e invocazioni che sanno già in negativo dell’impossibilità della risposta. Dalla limitatezza e dallo struggimento, dalla concatenazione logica e razionale, procede nei versi con un crescendo continuo di richieste, sempre più profonde, fino ai sensi ultimi dell’esistenza. Nella traduzione italiana il ritmo delle domande e dell’accostamento verso il tempo, il mondo e l’eternità è giustapposto con invocazioni al futuro, risposte del passato, in un gerundio ritmico che non è ripetitivo. È una spirale che riparte dal punto iniziale come un nastro di Moebius in timbri sempre nuovi. È una continua variazione nel chiedere chi sono “io”. È un chiedersi estetico meraviglioso in cui questo uscir da sé, è un ritorno nei punti di appoggio: nascita e morte, speranza e orrore, corpo e sangue. Ecco perché ogni potente e ogni dittatore ha paura della sua opera: svela l’inganno e la violenza sciocca e muta. Hanno cercato di obliarlo in tutti i modi, ma Vasyl’ Stus riesce a parlare anche attraverso la sua morte.

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La poesia libera della “Scuola di Kyjiv” nata negli anni Quaranta nega la prospettiva storica proposta dal regime sovietico nell’ottica di una predeterminazione diretta da un apparato statale che è ordine e senso del mutamento sovraordinato sopra qualsiasi individuo. I luoghi creativi intessono relazioni astoriche tra le cose, cioè il mondo con l’uomo che è un individuo aperto a prescindere del suo “ruolo” e “funzione”. Lo stile talvolta astratto ed ermetico tende a delineare una attività poetica difficilmente riassumibile dai canoni totalitari politici ed estetici e a generare luoghi in cui nuove istituzioni immaginarie della società possano apparire. I loro testi furono pubblicati finalmente nella seconda metà degli anni Ottanta.

Mykola Vorobjov offre istantiquotidiani e privati, apparentemente immediati, ma l’uso e la sperimentazione di colori, toni, aggettivi sostantivati delle cose del mondo come la neve, le foglie, i diamanti, il pesce, sono attrattori di metafore e traslazioni predicative di azioni e di funzioni, dove il poeta, il parlante, l’individuo, ricostruisce il passato saputo ora, nell’attività poetica, come “suo”, e lo proietta nel presente, assieme al lettore. La situazione nella attività di versificazione scandisce un tempo che delinea senso nel ritmo delle strofe e in queste cuce una biografia itinerante, attorno a un istante, che in tal modo, può essere di tutti.

Mychajlo Hryhoriv invece adotta uno stile asciutto, di non facile comprensione, ma con scopi analoghi a Vorobjov: affidarsi a una spinta creativa nel chiedere il “perché” delle cose. La richiesta è rivolta a sé, e poiché si parla di poeti, l’attività del versificare è ciò che ritorna nel punto iniziale. Il dito è rivolto verso il proprio petto. La struttura di questo domandare è analoga a quella del mondo, ed è una metafora dell’espressione estetica.

Vasyl’ Holoborod’ko richiede risposte impossibili come i due poeti precedenti con uno stile immaginifico, decisamente diverso. Le “cose” e le “situazioni” di Vorobjo e di Hryhoriv, infatti, appiano scarne e minute, tali da agglutinare significati nascosti, accessibili solo dal versificare del poeta che cerca di attirarle mediante domande esistenziali. Holoborod’ko invece si lascia travolgere dalle costellazioni di significati che erompono con metafore ed analogie, per le quali l’io del poeta incarna ogni loro significato. Il poeta è l’albero e la pioggia che assieme al mondo crea una comune situazione estetica piena di luci, timbri, slittamenti semantici, ostili a qualsiasi criterio regolativo.

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Negli anni di Gorbaciov nasce il gruppo visimdesjatnyky cioè i “poeti degli anni Ottanta”, figli di famiglie di intellettuali, e studenti universitari con uno sguardo meno legato alle tradizioni e alla postura emotiva del periodo della Stagnazione, cioè di Breznev. Vivevano gran parte a Kiev ed essendo molti coetanei, frequentando l’università e luoghi di ritrovo come i bar, scrivevano dappertutto anche nei tovaglioli, scambiandosi citazioni, versi, idee, spunti, contrastando quindi il forte controllo quotidiano e la censura. L’altro polo del gruppo è nella città di Leopoli che usa la cultura carnevalesca come uno stile poetico di resistenza e agonistico verso il potere, attraverso l’ironia, il sarcasmo, il comico. Innovativi, ma con uno spirito che noi diremmo medievale, in cui le maschere di carnevale, e i giullari assolvevano a una funzione antiautoritaria. E qui questa poesia funge da ponte per gli anni novanta.

Hryc’ko  Ćubaj, scomparso nel 1982 a Leopoli, offre una lirica ermetica che si genera nell’istante di tempo, considerato infinito, in uno spazio per il quale qualsiasi oggetto di una stanza, o di un ramo visto dalla finestra, rappresenta l’occasione di esprimere un patimento cosmico. I corpi vengono descritti nelle relazioni che il poeta ha con l’amante, con il cielo, il Sole. Le sensazioni nel ritmo dei versi, attraverso le sinestesie e le metafore in una espressione progressivamente più intensa di aggettivi sostantivati, compongono l’io del poeta in quell’istante che è tutto. Tutto lui, tutto il mondo e l’integrale delle emozioni che si hanno rispetto a ciò che è innanzi. Le sue poesie sono un grande collettore di metafore, che, più complesse sono, più riescono ad abbracciare gli astri in un cammino aperto e infinito. 

Natalka Bilocerkivec’ (poetessa) tende lo stile in un passaggio conflittuale tra la realtà e la sua rappresentazione, componendo per ulteriore contrasto un’affinità tra i due poli, considerando la vita quotidiana e quindi anche sotto quella della censura, una recita teatrale, vera però e concreta, fertile comunque per il poeta. L’attività estetica è la memoria di questa ipotetica scissione, e il testo poetico ne è la rivelazione, indicando, in più, un vivere ulteriore e indefinitamente più ampio.

Oksana Zabuźko (poetessa) porta l’intero popolo ucraino nel tempo del novecento, mostrando come nel secolo del presente, il vivere e il respiro sia stata rubato e truffato da parole e idee che hanno ferito le città, i giardini, le terre. Il ritmo del poetare varia da strofa a strofa, in connessioni logiche ed entimematiche di più livelli, dove l’invocazione e la richiesta di attenzione verso il lettore, attraverso gli oggetti mancanti e quelli desiderati, proietta il futuro all’indietro in questo presente agro. Il collasso temporale è la stessa composizione poetica che permette la memoria, feconda e innovativa per chi sa e per chi voglia raccogliere le voci nostalgiche convertite nella speranza pudica, ma tenace.

Ihor Rymaruk   il poeta che nella prigionia, avverte l’impossibilità di porsi in relazione libera con l’ambiente, attraverso lo slancio poetico, decomponendo il suo io, per immergersi di volta in volta, e in concomitanza, con gli animali, con la risata di un bambino, con una rosa. Vi sono analogie che diventano legami corporei fino a fondersi nelle interiezioni che invece di troncare gli accenti e le consonanze, aprono ai suoni che compongono slanci ibridi di nuove forme estatiche, al di fuori dei manuali, delle regole, degli ordini, delle prescrizioni artistiche. La terra d’Ucraina è la pagina infinita di questo versificare.

Oleh Lyšeha La fuga come libertà, l’inversione simbolica che rompe il mare di ghiaccio e di violenza fredda e istituzionale. L’io è più libero e vero, quando si estrania, alienandosi da sé, nel senso non di negare concetti, idee e valori di vita, quanto nel riconoscere la loro limitatezza. Tutto ciò, essendo piccolo, non può inglobare il mondo inconosciuto. Non a caso il suo poetare è centrifugo, ma i versi che dileguano, le allitterazioni e le invocazioni che non si chiudono, i singoli predicati che offrono plurimi complementi oggetti in quanto astratti, quindi possibili di singole individuazioni, ecco tutto ciò non è sintomo di una demolizione. Lo stato apparente di vuoto riceve una costellazione di tracce timbriche lasciate dalle strofe, in modo tale che l’io del lettore abbia il suo sentiero biografico da percorrere.

Attyla Mohyl’nyj diffonde versi che invertono i tempi portando un passato non pienamente compreso e vissuto, che, diventando una mancanza, viene catapultato in un futuro anteriore, attraverso il ritmo poetico riferito alle assonanze predicative verbali del camminare, vagare, salire e scendere, tra vie e filobus, tra muri e periferie, tra tempi di lavoro e di svago. È una clessidra che dal centro proietta strofe verso le due basi in modo simmetrico, applicando un collasso temporale, in cui la linea del tempo narrato diventa un nastro circolare, e in esso s’emana l’abbraccio della speranza, dell’amore, dell’amata, e del canto. Un inno alla casa comune che è l’Ucraina.

Jurij Andruchovyč offre il gran pentolone degli stili che convergono in vortici di consonanze terminologiche e assonanze metriche che rimandano a canti dei cosacchi, alla poesia “importante” europea. A prima vista sembra un vestito di Arlecchino di citazioni, ma ognuna di loro è strettamente connessa nell’offrire una melodia tra le parafrasi che permette il gioco, in modo da rompere le catene della prosa lineare e carceraria. Non è un caso che i tratti biografici emergano, come la fuga in Italia, e la consapevolezza di esser straniero e clandestino, ma nella volontà di lasciarsi giudicare e parlare dagli italiani, lui e la sua compagna, in modo da assorbire i nuovi punti di vista e le estranee parole per tradurle nell’ultima struggente poesia pubblicata qui. Ed è questo lo spirito Ucraino: accogliere gli influssi altrui per riproporli in una sensibilità inedita.

Tra gli anni Novanta e Duemila appaiono i “poeti dell’Indipendenza”, coloro che nacquero tra gli anni Settanta e Ottanta. E si caratterizzano in primo luogo per le esibizioni orali al pubblico, più che comunicare prevalentemente con la carta stampata. Si moltiplicano i caffè letterari e gli ascoltatori. E partendo da un’impostazione orale, il verso libero ne è la matrice, per il quale all’interno della prosodia, fioriscono i neologismi, gli slang e il lessico quotidiano. L’io del poeta, passa in primo luogo attraverso il corpo, la materia, l’odore. Esplodono le assonanze e le allitterazioni. Le piazze sono il luogo di sintesi come nel 1990 per la “Rivoluzione sul Granito”, la prima Majdan, successivamente nel 2004 e infine nel 2013-2014. Il poeta non guarda all’istituzione, a un posto di docente, ma di vivere della propria libera professione di poeta che è quindi una pratica di vita.

Serhij Žadan

La presenza del proprio tempo. Qui la storia delle terre d’Ucraina e delle genti, del passato, delle loro confluenze tra i popoli, tutti convergono nel conflitto che inizia, non tanto per rivendicare una nazione libera, quanto per rivendicare l’autonomia che già esiste, nonostante sia malferma, per gli attacchi esteri, e per conflitti interni. Qui Žadan versifica nel confine e nei punti cardinali che orientano i vortici dei conflitti, ove i linguaggi, i tempi, e il mito sono concretamente confluiti nella sofferenza dei singoli. Si mantiene la propria aspirazione alla vita e alla libertà attraverso lo sguardo strabico che ha ogni cittadino. Est e ovest: i poli che conferiscono un senso ai confini del paese e che, nel contempo emanano spinte di opposta direzione. Il treno, la ricerca di uno spazio e di un lavoro, oltre a ingegnarsi ogni giorno con il fucile per sopravvivere a una guerra subita, sublimano in versi che diventano un memoriale. L’innovazione risiede nello scambiare il ritmo dei verbi che descrivono i patimenti dell’<io> ucraino, in un inno che celebra la normalità del quotidiano come un fine da perseguire, respirando arterie di ferrovie, globuli rossi di vagoni, tra le giunture dei capolinea. Un corpo che pulsa dolore e vita della terra.

Marianna Kijanovs’ka

Una poetessa che moltiplica il proprio io in tante donne, che, tutte assieme, rappresentano le anime delle genti d’Ucraina, dove ognuna di esse s’accomuna con le lacrime, la gioia, e la morte. Il corpo dell’io della donna diventa un amplificatore dei moti della natura, degli animali, della flora, in cui ogni verso utilizza aggettivi e attributi dell’ambiente vivo e inanimato, rendendoli soggetti che compongono le declinazioni di questo poetare. Questo versificare è lo stesso patimento del corpo e della voce della poetessa. Tra le esplosioni di metafore, di allegorie e di sinestesie, tutte però non fuggono, ma convergono in questa terra. Tra i magnifici versi, ne cito solo uno che dice tutto in una volta: “L’ambra e lo smalto di una pioggia calda”.

Halyna Kruk ci avvolge con spirali prosodiche nelle quale l’<io> del poeta si converte nelle strofe in un “noi”. Il patimento, il dolore, e la speranza, non è solo mia che li canto e li declamo, ma di tutti, e di tutte queste anime di questa terra, e di me stessa, Halyna : una pluralità di voci che hanno una relazione con ogni altra pluralità fuori di me.  Esplodono le allegorie, tra un arcobaleno di metafore tra sentimenti, unioni, corpi, nascite e morti.

Oleh Kocarev cammina tra versi di uno o due parole concatenate foneticamente e intrecciate semanticamente, in una struttura sequenziale che va di pari passo con il tempo. È un versificare che scandisce e riporta i secondi che viaggiano, trasformandoli in storia. Tutto ciò che appare e muta in modo concomitante, attraverso il poeta che raffigura e che prefigura, il mondo si sfila in un binario temporale. Attraverso una descrizione della terra, del popolo e della lingua, le strofe esprimono la tensione prosodica tra l’aria che disperde e la terra che sotterra, e qui nei tentativi di render senso alla memoria e scopo per il futuro, come due acciarini, la fiamma poetante crepita senza fine.

Olesja Mamčyč è il luogo della poesia che riporta un mondo reale come se fosse una favola. Ogni predicato è già una sintesi di significati, concreti e duraturi. Lo stare dell’io del poeta, si rivela attraverso gli entimemi e la sineddoche. Ogni luogo diventa un ambiente attraverso la prosodia, e quindi ogni relazione assume una funzione attraverso l’armonia delle consonanze. È l’infanzia che gioca e crea.

Dopo gli eventi cruenti del 2014, sull’onda della Rivoluzione della Dignità, l’ucraina ha cominciato a pensarsi in un’ottica di ricostruzione e in particolare anche per la cultura. I poeti risentono della violenza, dello scoppio della guerra come se d’improvviso la terra si rivelasse una zattera su un mare in tempesta, sotto le intemperie di un vento che riporta le urla ancestrali del giogo e del sangue. Gli strumenti espressivi risultano monchi rispetto ai nuovi e tragici avvenimenti, ma tantissimi poeti versificano e vivono sulla loro pelle ciò che di lirico riescono ad esprimere. Dal 2014 come per reazione alle bombe e agli spari che rimbalzano sul terreno, riverbera una montagna di polvere che muta in poesia e in un inno verso le genti che ora definitivamente si vedono ucraine. Ed infatti ora i poeti provengono da ogni zona del paese.

Iryna Cilik

Ella più di tutti all’inizio canta come gli elementi siano violati, di come le nuvole sporche e appesantite lottino contro il Sole, e che i vapori siano intrisi dei fumi di sangue di un cielo ferito. Il mondo urla alla primavera che sembra dileguata. L’io del poeta che si proietta come corpo nel mondo, si ricompone nel dolore, attraverso la domanda del perché di tutto questo e di come ogni speranza sembra convergere in un imbuto silente e interrato. Lo stile innovativo dispone versi di domande incastonate e descrizioni semanticamente disallineate, rimanendo però inscritte in forme canoniche come i sonetti. Ed è qui, anche nel grigio irrespirabile, che il canto riemerge e fornisce un nuovo sentiero temporale e melodico.

Ljuba Jakymčuk riprende i temi di Iryna Cilik e approfondisce la decomposizione squartata di Luhans’k, di Donec’k, di Debal, con sperimentazioni innovative in tratti grafici appositi. È un poetare che va letto e parlato. La ripetizione e le cantilene compongono una struttura bivalente e a più livelli, infattida canto funebre commemorativo, si passa al lamento e allo strazio, generando un ritmo che si trasforma in iati e troncamenti. Le concatenazioni vuote, però, demarcano strofe che agiscono in parallelo e che quindi risentono e si riconoscono nella mancanza di una unione vivifica. Come radici di un albero divelto, i versi si immergono nel terreno per trarre linfa da nuove ramificazioni di senso.

La poesia pubblicata di Anastasija Afanas’jeva sembra rispondere a Ljuba Jakymčuk: Sì. È possibile poetare dopo che la gente è divisa, dopo Donec’k, Luhans’k, dopo che lo stesso versificare è considerato un rumore di fondo indistinguibile. Sì: è possibile perché, anche nella flebilità più anemica di energie e speranze, rimane l’ultima fiammella cui attingere il tempo, il senso, lo scopo, l’immagine stessa del vivere.

Ija Kiva, Jurij Izdryk si avventurano nel territorio strappato, nelle lingue bucate e censurate, nella ricerca di un nuovo equilibrio, dove il privato e il pubblico tentano nuovi intrecci, perché costellati da burroni di tombe, e rattoppi dispersi sui frammenti di pelle delle terre d’Ucraina. I versi attraversano i verbi all’infinito che predicano le azioni che si dovranno intraprendere per cercare le radici di una vita che non ha ancora un nome. L’ambiente ferito sgorga ancora linfa vivificante dalle vene lacerate. Si è obbligati a concatenare le strofe tagliandosi le mani e la bocca, ma non vi è scelta, perché la strada stilistica del patimento del poeta è quella che può dissotterrare le puzzolenti parole umide, per rischiararle con fatica sotto un Sole ottenebrato dal cielo fumante di ferro e acciaio. Le trame prosodiche sono lise custodi del tempo futuro.

Oksana Lutsyshyna e Pavlo Korobčuk parlano del divenire tramortito, dei figli mai nati e nominati, alternandola la rabbia e la preghiera verso il padre e il signore. I versi incuneano una collana di eventi nel presente che, essendo luttuoso, tramuta la prosodia in una catena che immobilizza. Nella fissità temporale i predicati verbali collassano in attributi degli oggetti che descrivono i colori del canto del poeta. Le Invettive e le preghiere ritornano sul poeta stesso, perché, non essendoci una risposta trascendente e immanente oltre la linea di confine del dolore, i complementi oggetti mancanti lasciano una esortazione che suggella le strofe in liriche d’attesa.

Serhij Žadan già citato nelle righe precedenti, riappare nel tempo della guerra di questi anni e come Oksana Lutsyshyna e Pavlo Korobčuk, converge il suo stile in un tono d’esortazione lirica che descrive il destino dei popoli e di queste terre, nel fuggire momentaneamente e portare con sé ciò che vale: le lettere, il pane della rinascita, le verdure delle terra che risponde sì, e non solo attraverso il sangue avvelenato. Dato che ogni confine è un Limes di guerra, il poetare deve versificare non più camminando, bensì nuotando nell’oralità dei fiumi e nelle correnti cromatiche tra le stelle, per conservare il nucleo di ciò che stava nascendo di questi anni. Il pesce deve volare. Le metafore debbono diventare verticali. Le allegorie utilizzano temi marinari. È struggente ed indicativa il titolo di una sua poesia: “Non dire mai queste parole se non fosse possibile” in cui vi è un verso che risponde “Proprio per questo non smetto mai di parlare”. I testi del poetare mutano le loro strofe in branchie e le loro relazioni in ovuli in cui germina la speranza.

Kateryna Kalitko   si inoltra nelle strade della notte, nelle terre silenziose, nei cieli senza sole, e negli anfratti di un al di là, dopo la devastazione e la perdita, eppure il ritmo dei versi in questa discesa fredda e infernale, pone il suo canto, che riverbera in una prosodia evocante l’eco di un futuro che rinasce dal passato. Il cammino e la strada, la strofa e l’elisione connettono un sentiero, dove le tracce di coloro che vivi furono, segnano la presenza nelle mele d’inverno, nella terra nera che risplende, nelle ossa dei cadaveri che si offrono agli uccelli. Per il ciclo ritmico delle assonanze che ripromettono il pasto che trasfigura in una nuova comunione.

Iryna Šuvalova  e  Julija Musakovs’ka offrono i canti dell’amore che proiettano elegie, laudi, inni alla ricerca del contatto verso l’altro, la terra, il mondo. Da un trifoglio emerge l’apertura d’un abbraccio in uno stile che è proprio del clima mutevole delle terre d’Ucraina. Anche dal freddo, dal ghiaccio, e dal ramo d’acciaio argentato che batte su un letto di fiume sparso di ossa, tra le scritte doloranti sui muri, nuove carezze richiamano il viandante con suoni evocanti la comunione dei versi.

E anche Borys Chersons’kyj con la satira e l’invettiva e Alex Averbuch con uno stoico realismo, indicano le strade per una rinascita. Uno giocando con gli stili linguistici, per affermare una lingua che è uno strano miscuglio come quella ucraina, e lo fa con un tono da giullare, in una corrosiva rima antiautoritaria. Mentre  Alex Averbuch nella consapevole insensatezza di nascere tra una linea di morte e dolore che finisce come un chiodo di legno rinsecchito, trasfigura il versificare in una palingenesi che abbraccia il destino di ogni essere umano. Il terrore dell’esistenza informa che riconosciamo il dolore e che quindi esistiamo pienamente consci nello stare nel mondo. È una lirica che avanza a tentoni, incespicando nella violenza, ma è tenace nel richiamo e nell’ode verso il caos della vita. 

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Le poesie scritte dopo gli eventi del 2014 sono tronche, documentaristiche, con il precetto morale di assolvere anche a una testimonianza storica, perché accerchiata, dato che la lingua e la possibilità di versificare sono sotto attacco con la minaccia di essere entrambe obliate. Più che mai ora, dal 2022 fino a queste ore e le prossime, tale condizione è presente e sempre più concreta.

Iryna Šuvalova dai precedenti canti d’amore, ora è costretta a patire il tragico senso poetico della guerra, non in modo metaforico o allegorico, o con sinestesie. Qui l’io della poetessa è totalmente fisico: il rifugio, la perforazione e la decrepitezza sotto i colpi e i fendenti della morte che ora è presente, dura, antropomorfa. I baci sono di questa amante nera che aspira cuore e anima a tutti. Le rime e le assonanze rispondono all’andirivieni della mietitrice di arti e di sentimenti, con il contrappunto della consapevolezza. Le strofe iniziano per negazione, mostrando come la realtà sicura è flebile e decomposta, ma nel contempo allaccia nuove versificazioni nel voler parlare un secondo in più, perché il dolore è ancora un segno di vita, come indica Julia Musakovs’ka. 

Lesyk Panasjuk riporta il dolore e la morte in un memoriale che ha lo scopo di documentare ciò che i russi stanno compiendo. Eppure dai volti sparsi sulla terra fioriscono gambi e steli di resistenza che, nel canto poetico, imbrigliano le prose scarne e dirette dei russi. Una terra d’Ucraina che permane e cresce.

E si conclude con Oleksandr Irvanec’, Viktorija Amelina e Halyna Kruk che offrono la resistenza del poeta assieme a quella del singolo individuo. Vi è il cuore che ritma, rima e pulsa in assonanza con le terre martoriate e in consonanza con l’impegno e la declamazione della promessa che fonda il futuro di un’Ucraina più unita e salda. Pienamente consapevole di una lingua che tra l’orrore, il buio e la morte, parla, patisce, e tiene salda la sorgente poetica, la quale in una funzione germinale coltiva il senso del vivere e del sorridere.

§CONSIGLI DI LETTURA: IL DIARIO DI VIAGGIO DI ARTHUR GORDON PYM

di Edgar Allan Poe, Prima Edizione 1838

La trama del romanzo è ascendente, perché non vi pause. Sopraggiungono onde di pericoli: la morte a causa della mano amica che si tramuta in quella della morte. Il lettore avverte le sensazioni infantili relative al terrore di affogare, allo stimolo irato della fame, all’abbraccio gelido del buio, alla vertigine della caduta, all’oppressione della malattia. E quando sembra di aver percorso il girone infernale, si acquista la consapevolezza di aver compiuto il primo passo, perché l’altra gamba inciampa nel naufragio che porta allo scoramento della solitudine, liquefatto poi dalla tempesta, per arrestarsi infine nella voce che evapora dentro il gorgo della pestilenza. La nave incanutisce in una zattera, in cui vi è il cannibalismo. La crescita e lo scorrere del tempo è già la dichiarazione di osare per vivere, e questa è la porta che apre al pericolo. L’esperienza è il dolore e la conoscenza può richiedere il prezzo della propria vita.

Anche chi non ha letto il libro, in realtà lo ha già vissuto. I pericoli e le vicende le ritroviamo nei racconti antichi e nei libri a lui contemporanei, come il vascello fantasma e l’ammutinamento, cioè lo stravolgimento delle condizioni di fiducia. Il pericolo è intorno e dentro la barca, cioè la casa, che è la metafora del proprio vivere. Gli elementi della natura sono un pericolo. Ogni giorno nel ciclo del Sole e della Luna, scandisce il ritmo del morire.

È un romanzo di formazione, in cui si diventa adulti, attraverso gocce di sangue, tramutate in secondi. Non si può fare a meno di andare avanti ed osare, per evitare la stasi della morte, ma il cammino si alimenta del sangue e della sofferenza.

La paura è una delle conseguenze del pericolo, che introietta se stessi nella gabbia dell’orrore con le sbarre della solitudine e con il giaciglio dell’angoscia e il timore. La collaborazione con gli altri è un azzardo, perché è un salto nel buio, scaturito dalla fiducia che è sempre senza fondatezza.

Per Edgard Allan Poe la fiducia è una corda tesa sopra l’abisso che definisce ogni orientamento nel proprio vivere.

L’orrore e il dolore sono due piani che si intersecano nella linea sottile della sopravvivenza. È una concezione analoga alla “linea d’ombra” descritta da Joseph Conrad: l’orizzonte tra i due oceani dove naviga la propria biografia. La rotta si crede sia quella giusta, attraverso le vele della razionalità e che conducano ad un approdo sicuro.

La morale e il diritto sono generate dalla sublimazione della violenza e del sangue. L’esperienza acquisisce un senso compiuto, attraverso la scarnificazione delle proprie speranze e del proprio corpo. Questi sono gli effetti, forse in gran parte oscuri allo stesso Edgar Allan Poe che certamente aveva lo scopo di usare lo sgomento e il panico come strumenti narrativi per catturare l’attenzione e fornire dinamicità agli eventi. La vita è il fior di loto che emerge e galleggia precario sullo stagno del terrore che poggia su un fondale di morte.

L’intensità emotiva che regala questo romanzo, ci informa, nonostante tutto, di essere ancora vivi e di pulsare la volontà di sopravvivere. Il lettore non può fermarsi, perché deve proseguire la lettura.

§CONSIGLI DI LETTURA: LA CUSTODE DEI PROFUMI PERDUTI

Fiona Valpy, La custode dei profumi perduti, “The Beekeeper’s Promise” Text copyright © 2018. Traduzione di Clara Nubile e Nello Giugliano, Newton Compton Editori, Roma.

Il romanzo si compone di tre parti che poggiano su due piani temporali. Sebbene non vi siano molti dialoghi, i racconti interiori che snodano gli eventi tra il passato e il presente, hanno uno stile fluido che riesce a rendere dinamico il ritmo.

Le protagoniste sono due donne: Eliane che subisce l’occupazione tedesca in Francia durante la seconda guerra mondiale e Abi, in fuga da Londra, che ripercorre quei luoghi tragici e riceve simbolicamente il messaggio di speranza nel 2017.

Sono due donne ferite nel cuore e Abi ancor di più a causa di suo marito violento e aguzzino. Consumate dalla debolezza e dalla paura per sé e per gli altri, intorno all’assenza di futuro, nel buio della disperazione, vedono dentro se stesse la piccola fiammella che le fa resistere.

Il romanzo è costruito come uno scrigno, rappresentato da un castello della campagna francese.

Nel 1940, sotto i tedeschi, Eliane e la comunità tentavano di sopravvivere e contrastare la guerra. Lei era la custode delle api, coloro che insieme, seguendo il Sole, trasformano la terra in miele e aromi.

Abi è sola con il ricordo della madre alcoolista di cui si era presa cura fin da bambina. Soffre d’ansia e d’insonnia e convive con la sua incapacità cronica a mandare avanti la propria vita. Eliane, con la sua bontà e dolcezza, sa che in guerra può succedere di perdere tutto, ma non i profumi e le speranze, custodite come una piccola arnia.

Eliane e i suoi cari, furono costretti a confrontarsi con la fuga e la resistenza, senza mai perdere la solidarietà. Abi combatteva per rompere le catene del passato.

    “Io la conosco bene l’inerzia che si genera quando si vive in una perenne condizione di paura. È qualcosa che ti toglie le forze e risucchia ogni energia, finché non sei in trappola come una mosca nella tela del ragno. A quel punto più provi a ribellarti, più quei fili di seta ti si stringono addosso, e la fuga diventa impossibile.”

Il ritmo delle stagioni e lo scorrere impetuoso del fiume vicino al castello contrassegnano gli stati d’animo di ogni personaggio.

Due capitoli, due cuori, due donne. La Francia che collabora e la Francia che si ribella. Una donna che si innamora ed è malmenata dal suo presunto amato. Nell’amore che dona e seduce per annichilire, è quello cui si deve fuggire. Due donne che si raccontano in contrappunto tra la Francia e il battito di un cuore, tra i profumi che si schiudono e involano.

Il contrappunto di una grande madre nella veste della Francia aggredita dai nazisti e in quella di una donna dilaniata dal suo carceriere.

Il romanzo descrive la danza di due storie di resistenza impervie, dure, tra i ricatti, le sconfitte e le risalite.

259-260 Da dove veniva l’ondata di energia che mi attraversò il corpo? Ora so che il terrore e il dolore dovettero riversarmi nelle vene un fiotto di adrenalina, e che in realtà agii di riflesso. Ma credo che ci fosse anche altro. La rabbia per tutto ciò che mi aveva fatto, e la scintilla del Sé, a un tratto riaccesa; la resilienza dello spirito umano. Fu un atto di Resistenza. Poiché aveva schiacciato l’acceleratore a tavoletta, la cintura di sicurezza non mi impedì di girarmi e usare il braccio sinistro, ancora sano. Afferrai il volante e lo costrinsi a girare, mi opposi alla sua forza, ora che avevo finalmente trovato il mio vero potere. Sentii l’auto che si sollevava sull’erba, sfiorando il tronco grigio dell’albero di qualche millimetro appena, e poi si staccava da terra, un arco quasi aggraziato di metallo che volava in aria verso un camion in arrivo. Pronta all’impatto, sentii il ginocchio che si torceva con un dolore atroce che avvolse tutto in una sorta di foschia rossa e mi fece ribaltare lo stomaco. E poi non provai più nulla. Solo una calma strana e ultraterrena mentre l’auto implodeva intorno a noi due.

305  E poi, dopo un istante, alzo la testa e mi guardo intorno. Ripenso al giorno in cui sono arrivata qui. E mi rendo conto che non mi sono mai persa.

§CONSIGLI DI LETTURA: GLI INVISIBILI

Gli invisibili (De Usynlige – 2013) -di Roy Jacobsen, Traduttore: Maria Valeria D’Avino, Iperborea, 2022, Milano

89-90 A un tratto non si sentono più le grida degli uccelli. Nessun fruscio tra l’erba, nessun ronzio d’insetti. Il mare è piatto, il gorgoglio dell’acqua tra i ciottoli del bagnasciuga si è fermato, non c’è un solo rumore tra tutti gli orizzonti, sono al chiuso. Un silenzio così è molto raro. Ancora più strano è sentirlo su un’isola, dove fa più effetto di un silenzio che cali all’improvviso in un bosco. Che un bosco sia silenzioso capita spesso. Su un’isola il silenzio è così insolito che la gente smette di colpo di fare quel che faceva e si guarda intorno per capire cosa succede. Il silenzio li stupisce. È misterioso, quasi un brivido di attesa, un forestiero senza volto che percorre l’isola a passi felpati, avvolto in un mantello nero. La sua durata dipende dalle stagioni, il silenzio può essere molto lungo nel gelo dell’inverno, come quando il mare si era ghiacciato, mentre d’estate è sempre una brevissima pausa tra un vento e l’altro, tra l’alta e la bassa marea, o il miracolo di quel momento in cui si finisce di inspirare e si comincia a espirare.

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Poi di colpo un gabbiano ricomincia a gridare, una ventata arriva dal nulla, e il neonato cicciottello si sveglia urlando sulla sua pelle di pecora. Possono riprendere in mano gli attrezzi e continuare il lavoro come se nulla fosse accaduto. Perché è precisamente questo che è accaduto: nulla. Si parla di quiete prima della tempesta, si dice che il silenzio può essere un segnale, come quando si carica un’arma; può avere un senso di cui si capirà la portata solo dopo aver sfogliato a lungo una Bibbia. Ma il silenzio su un’isola è niente. Nessuno ne parla, nessuno lo ricorda né gli dà un nome, per quanto sia profonda l’impressione che suscita in loro. Un brevissimo spiraglio di morte mentre sono ancora in vita.

È un silenzio pieno. Si parla con il mare. Gli oggetti, che il mare fornisce danno le storie, le parole, che vanno e vengono. L’isola le pesca e loro come marinai raccolgono tempo nelle ceste della loro biografia. Gli elementi sono quelli norvegesi e la traduzione in italiano, nel normalizzare gli aggettivi, potrebbe dare l’impressione che il clima, il vento, il freddo, l’inverno, l’estate, il giorno, la notte, la luce e il giorno siano analoghi a quelli del Mediterraneo. No. Qui è tutto al superlativo. E il teatro è il paesaggio, non quello borghese e collinare nostro, ma quello lungo, ampio, e frastagliato dell’Oceano Atlantico che oscilla insieme alle correnti artiche. Vento e mare sono solidi e liquidi. Il vento li unisce e li trasporta nell’isola. Un’isola muta come quelle lì, tante e quasi invisibili dalla costa. Piena di questo popolo isolato ognun con l’altro nei giorni, se non in rade ore dell’anno, o per viaggi nel buio delle pesche artiche che durano mesi con il rischio di esser loro la preda delle tempeste. E quindi mai più di ritorno.

Il lavoro scandisce l’attività del vivere. Ogni oggetto è utile, ogni oggetto è strumento e materia, e serve per sé, per gli animali, per i pesci, e per le attività di sussistenza. Parlano tra nonni e figli. Inframmezzati dal freddo e dalla vecchiaia che trasporta tutti loro nelle correnti dei simboli e delle storie. Il loro tesoro. Dei dimenticati, del silenzio, dove terra e mare uguali sono: spazi altri, con cui si è in relazione, ma disgiunti. L’isolano ha la mente che spazia nel tentare di sopravvivere, ma sa che la direzione delle sue radici e nel tempo, è ancorato nell’isola. Le barche sono solo vele incastonate nella nave maestra, che è l’isola stessa, in viaggio tra le stagioni, gli elementi, la vita e -la morte.

Vi è un silenzio, che però è pieno e un oblio, che però non annulla, ma conserva e deposita, tra secoli di alghe, e volumi di vento. E tutto è lì. Pieno, denso, pronto a rivelarsi nell’orecchio di chi è pronto a viaggiare, lì, tra gli interstizi delle civiltà che fluiscono tra l’estrema luce e il fondo freddo.

UNO STRUGGIMENTO che porta nostalgia a chi non è mai vissuto in quelle zone d’assenza, ma che suggerisce una chiave dello scorrere di senso tra l’abisso e la memoria.

Il vivere e il morire trasportano il proprio ciclo attorno all’isola, e questa non lo abbandona. Resiste, lo accoglie nell’approdo. Ella sta: lì, piccola e tenace tra gli abissi.

La nostalgia irresistibile dello straniero che mai lì è vissuto, ma a cui tende nel suo tempo interiore.