@14 PoeticaMente: maschi davanti allo specchio

6 maggio 2013  

Sembra banale e noioso ripeterlo. Alcuni di questi omicidi sono già annunciati prima del loro triste compimento e accompagnati successivamente da giustificazioni che imputano la causa a squilibrati o ad emarginati.

E invece l’uomo nero è il parente o l’amico fidato. L’ipocrisia parla di amore e gelosia e traspone il tutto in una incapacità biologica a trattenersi da parte del maschio. Di sicuro è il corpo della donna che continua ad essere violato dopo la morte nelle immagini, nelle procedure giuridiche e nella ricostruzione degli eventi.

E si dice emergenza. Ma non è un fenomeno di oggi questo assassinio con la volontà manifesta di annichilire un essere vivente, ritenuto inferiore come un mero oggetto a disposizione.

Questi tragici eventi sono narrati con sgomento e paralisi, e si concludono con una generica esortazione alla comprensione e al contrasto del “fenomeno”.

I maschi rifiutano la questione e la rivoltano verso le vittime: si eclissano.

Ora, senza richiamare buon senso, onestà intellettuale, principi fondamentali di etica e del diritto, è sufficiente per i maschi ascoltare il proprio corpo.

Pensiamoci, maschi latitanti, riversi a terra, svestiti, con sangue e urina e faccia macilenta davanti a tutti, magari vicini di casa che si grattano la testa, il sedere e il naso e si scambiano frasi fatte nel guardarci per terra, con l’immancabile idiota che si colloca vicino alla telecamere di qualche giornalista. Pensate solo fisicamente al freddo, alla puzza nel vostro corpo. Solo questo.

E ovviamente tutti guardano con morbosità la vittima (per strada, nei giornali, nella tv) senza pensare all’omicida. Dove è l’assassino? È il marito? Il padre? Il fratello? La vittima davanti al pubblico senza compassione.

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Jakub Schikaneder, “Omicidio in casa”
– Immagine presa QUI

Perché la sicurezza non è ovunque: acqua, sole sfumato, spiaggia e mare, sono già un pericolo. E questa è la bugia: colei che genera vita è offesa dal complemento di generazione maschile che si crede principio unico e indefettibile.

Si è soli: pensate maschi a chiedere invano aiuto a parenti, amici e alle autorità giudiziarie. Immaginate di camminare per le strade e vedere tutti felici o irritati per i problemi di ogni giorno e sentirvi marchiati e passibili di essere presi e maciullati in ogni momento davanti a sguardi indifferenti. Sentitelo nello stomaco questo orrore. Sentitela nelle vene la consapevolezza di essere massacrati a breve, dove anche il pianto verrà punito.

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Jakub Schikaneder – Immagine presa QUI

Vi prudono le mani? Sentite la rabbia dentro che cresce vero? Ecco moltiplicate questa sensazione per mille dentro lo stomaco, sapendo di non poter fare nulla e che tutto questo vi esploderà dentro. Rimanendo come tronchi martoriati senza memoria in una spiaggia sporca e desolata. 

L’ombrello rosso con tratti così delineati, rispetto alle forme quasi liquefatte, raccoglie il calore del cuore e dell’animo e lo riflette verso l’ambiente circostante. Questa pioggia non ristora: affligge lentamente nella normalità come una inevitabile costrizione. Il corpo della donna e il suo cammino sono imposti da piogge che tagliano e non leniscono, come lacrime di acido. In un Sole finto e oscurato di prescrizioni culturali e di potere, spacciate come naturali ed eterne.

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Andre Kohn – Immagine presa QUI

Cari maschi pensiamo alla normalità di ogni giorno, fatta di grigio e oppressione, come il semplice camminare e il vestito imposto. Basta pensare solo a questo.  

#16 Contaminazioni: appuntamenti rubati

29 aprile 2013 

L’infanzia, la giovinezza e l’età adulta sono contraddistinte da riti e condivisioni con i pari che permeano e consolidano noi stessi e il passato che vive assieme a noi. Confidiamo che avvengano in modo analogo a quelli di poco più avanti di noi, accompagnando sicurezze e certe promesse per l’avvenire.

Non sempre è così per i popoli delle Terra, e per i singoli individui.

Coloro che promettono, possono mentire su momenti della nostra vita e condurci in vie beffarde e crudeli senza uscita, come se fossero appuntamenti rubati. Rispetto alle aspirazioni di ogni giorno, l’insoddisfazione è vincente. Se si basa l’avvenire e l’immagine del proprio vissuto in virtù di ciò che da soli si è promessi, il risultato sarà sempre limitato. Nonostante tutto non si può affermare in modo incontrovertibile di accontentarsi, perché l’ambiente e gli uomini possono arrecare comunque un danno.

Si soccombe, nonostante che l’amor proprio cerchi di reggersi con le dita sul dirupo calante nell’abisso dell’animo senza speranza. Un aiuto per continuare a immaginare nuove vite, può essere fornito dall’esempio di coloro che, anche vivendo agli antipodi, attraverso le debolezze e le sconfitte, sono riusciti a sopravvivere e infine a vivere.

Ko Un, Kunsan, 1 agosto 1933, è un poeta, scrittore, saggista, autore teatrale e pittore sudcoreano, tra le figure più rappresentative della Corea del Sud contemporanea.

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KO UN – Immagine presa QUI 

Costretto a imparare il Giapponese durante la dominazione dell’impero nipponico, e poi la lingua Cinese. Coltiva comunque l’apprendimento del Coreano. Quando nel 1950 scoppia la guerra, sconvolto per l’orrore tenta il suicidio. Si salva e si rifugia nel Buddismo, e tra elemosine e insegnamenti gratuiti di coreano e arte, scrive saggi e poesie. Nel 1962 abbandona il buddismo, deluso dalla corruzione del clero. Legge autori esteri, continua a scrivere, alternando periodi di prostrazione che lo portano per due volte a tentare il suicidio.

Ma all’inizio degli anni 70 riprende fiducia. Si occupa dei diritti umani e diventa un attivista contro la dittatura coreana e per questo fu imprigionato più volte e condannato all’ergastolo nel 1979, anche e principalmente per la sua attività letteraria e politica.

Nel 1982 ottiene l’amnistia. Si innamora e si sposa. Inizia una nuova fase di produzione artistica pubblicando numerose opere, spaziando in diversi stili, ricevendo premi di ogni tipo e ripetute candidature al premio Nobel. La poesia, tra saggi, opere teatrali, traduzioni, ha caratterizzato il suo sotterraneo percorso di caduta e rinascita.

Da “Fiori di un istante” di KO UN

L’animo di un poeta

Un poeta nasce negli spazi tra crimini,
furti, uccisioni, frodi, violenze,
nelle zone più oscure di questo mondo.

Le parole d’un poeta s’insinuano tra le
espressioni più volgari e basse,
nei quartieri più poveri della città,
e per qualche tempo dominano la società.

L’animo d’un poeta rivela il solitario grido di verità
che emana dagli spazi fra mali e bugie del suo tempo,
è un animo picchiato a morte da tutti gli altri.

L’animo d’un poeta è condannato, non v’è dubbio.

—-

E io ascolto e rispondo a te Ko Un .

Risposte dovute. – Lino Milita

Testimonianze del dolore patito,
richieste sono d’attenzione
per orecchie pigre d’orrore subito.

L’animo d’un poeta è obbligato a chiedere ascolto,
e se lo riceve, rivela interstizi di luce
tra muri senza riflesso, da nessuno raccolto.

E quindi ogni verso nel tempo frantumato,
riecheggia nelle flebili onde del vento ribelle
per rinascere dal dolore riesumato.

@13 PoeticaMente: Nati dal Vento

22 aprile 2013 

Talvolta ci lamentiamo dei venti e li consideriamo opprimenti e fastidiosi nel gelare il collo, oppure caldi e gradevoli nell’accarezzare le guance. Se poi riversano scrosci d’acqua, restituiamo contraccolpi di maledizioni ataviche.

Fenomeni scontati e quasi ovvi quelli accompagnati dall’aria in movimento. Il vento passa e offre analogie con ciò che è destinato a sparire. È di casa affermare l’analogia tra la parola e il vento. Noi siamo solidi, con i piedi nella salda terra. L’orizzonte è il riferimento che offre e indica il passaggio del Sole e della Luna, e la forma dei luoghi dove noi stessi transitiamo.

In Italia dipendiamo dai venti di luoghi lontani. L’avvicendarsi del caldo e del freddo, puntellato dai cicli stagionali, varia e assume connotati diversi ogni anno per i venti che vengono dalle Azzorre e dal Sahara.

L’anticiclone delle Azzorre e l’alta pressione africana giocano continuamente tra loro. Secco uno, umido l’altro. Appaiono in modo esclusivo, oppure accoppiati.

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Noi che disprezziamo l’aria e il veder le nuvole, dipendiamo da loro. Eppure una loro variazione o capriccio condiziona il nostro modo di vivere, con la pioggia o la siccità, o con l’umidità. Ritardano l’avvento della primavera, anticipano l’estate. Si attardano con l’autunno. Le nostre scelte di vita, dall’uscire o no, dall’idea del freddo e del caldo, del nostro umore, dipende dalle imprevedibili loro incessanti evoluzioni.

I venti freddi dell’est come il Burjan sono costanti, precisi, diretti come un treno, però abitano nella casa dell’inverno. E noi qui in Italia abbiamo percezioni diverse. Nel Tirreno gli Appenini frenano i venti dell’est e del freddo polare. Nella pianura padana l’anticiclone delle Azzorre e l’alta pressione africana, come in Sicilia e in Sardegna, si attardano e regalano cascate di umidità. Nella parte ionica questi due buontemponi bisticciano con i soffioni del Medio oriente, oscillando tra siccità o gelo come se ogni volta per noi fosse la prima.

Le stesse glaciazioni hanno avuto gioco facile quando i venti delle Azzorre si sono impigriti nell’Atlantico e l’alta pressione africana, timida, è rimasta nel Sahara. Ne traiamo i frutti e le spine, talvolta lo combattiamo. Ma è un incontro truccato. Noi siamo anche fatti di vento, dentro il cuore e nell’emissione della voce, e nel gioco tra timpano e tromba d’Eustachio.

E di tutti i dispiaceri e dolori, sentire il vento che accarezza o spintona i rami, o che viaggia e appare tra i vicoli e i muri delle case, ci informa del tempo, del nostro corpo che da lui è formato, e ci conduce nei luoghi ancora nascosti al nostro sguardo.

Ci nutriamo di vento, siamo nel vento. Perché lui è un indicatore del divenire e del tempo. Noi, uomini fatti di acqua e di polvere, nasciamo con il vento.

Di Rainer Maria Rilke


Il risveglio del vento

Nel colmo della notte, a volte, accade
che si risvegli, come un bimbo, il vento.
Solo, pian piano, vien per il sentiero,
penetra nel villaggio addormentato.

Striscia, guardingo, sino alla fontana;
poi si sofferma, tacito, in ascolto.
Pallide stan tutte le case, intorno;
tutte le querce mute.

La poesia è presa QUI

E il vento è sempre bambino, nasce ogni volta. Poco educato all’inizio. Vuole sempre giocare. Selvatico, irriverente, dispettoso, tremendo ogni tanto, ma porta sempre innumerevoli doni da una parte all’altra del globo.

Per ascoltare “Nella Pietra e nel Vento” di Aldo Tagliapietra premere QUI

#15 Contaminazioni: La corsa di Miguel

17 aprile 2013 

La corsa evoca movimenti primordiali di ogni essere umano….

Ma è un abbaglio! Fino a 150 anni prima dell’uso delle materie plastiche nelle scarpe, la corsa era intervallata con i passi, anche a piedi nudi. La concezione stessa della destinazione era intesa come una linea percorsa da una freccia scagliata verso un obiettivo definito. Ma non così immediato era il calcolo e le modalità del percorso.

La corsa come metodo ed espressione di vita e di una concezione rispetto al mondo è recente: non si corre ora per abbattere, uccidere, fuggire, razziare, giungere in un posto sicuro, portare al termine un ufficio inevitabile. Oggi si corre per esprimere nuove concezioni del corpo ed affermare la libertà in armonia con tutto ciò che si incontra. Le gare di podismo non sono marce che calpestano e battono i piedi.

Corre bene chi sfiora il terreno. Si gode nel sorriso della gara assieme agli altri. La Maratona è l’espressione massima della libertà e dell’uguaglianza in un solo gesto: dei primi che vincono la medaglia e degli altri che arrivano dopo, tutti assieme. Libertà di correre nella terra sicura di ogni paese, che è di tutti. 

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Miguel Sànchez immagine presa QUI

Miguel Benancio Sanchez nacque l’8 novembre del 1952,
 a Bella Vista, provincia di Tucuman, Nord 
dell’Argentina. Amava la vita, l’atletica, l’Argentina.
 Di mattina, all’alba, andava a correre. Treno, lavoro, ancora 
allenamento, scuola serale per completare quegli studi 
che non aveva finito. Era un poeta autodidatta. Il suo “Para vos 
atleta”, “Per te atleta”, fu pubblicato dalla Gazeta
 Esportiva di San Paolo, il 31 dicembre del 1977,

Per te che sai di freddo
e di calore 
di trionfi e di sconfitte
che sconfitte non sono.

Per te che hai corpo sano,
anima vasta e grande cuore.

Per te che hai molti amici 
e molti aneliti,
l’allegria adulta, 
e il sorriso del bambino.

Per te che non sai di gelo né di sole,
né di pioggia né di rancori.

Per te, atleta
 che traversasti paesi e città
unendo Stati nel tuo andare.

Per te, atleta, che disprezzi la guerra
e sogni la pace.

Amava la vita, il popolo argentino, la corsa, la libertà e la poesia. Troppo pericoloso per i dittatori argentini. Lo prelevarono nella notte fra
 l’8 e il 9 gennaio 1978.

@12 PoeticaMente: Panoramiche contemplazioni

15 aprile 2014 

Esiste una giovinezza immaginata e collocata in un tempo, forse mai accaduto, dove il cammino, e la stasi su un gradino di casa, o in una panchina nella strada, o di un locale all’aperto, era più di un semplice stare o riposare.

Vi era l’eccitazione di incontrare amici e persone care, dopo un giorno di lavoro o di minimi impegni formali. Camminare a zonzo, indugiare in circuiti appena percorsi nel parlare o nell’osservare i passanti, era già una risposta momentanea alle domande inespresse dei sonni della notte e delle albe tormentate. Sia nel clima umido, ma di più per le giornate miti con il Sole infastidito dai pizzichi delle nuvole, spinte da venti dispettosi, si sorrideva appena usciti dagli spazi murati della mente e del corpo.

Gli eventi del passato anche se così non sono accaduti, però comparendo nel presente, si trovano a loro agio. Si vestono di un’armonia assonante tra le sensazioni del proprio corpo rilassandosi nel compiere azioni primordiali e con le emozioni che invocano una visione panoramica dello spazio circostante.

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Jean Béraud, Avenue Parisienne

Le contemplazioni offrono attimi d’esser lieti con la sensazione fisica di stare semplicemente senza chiedere il perché e senza concentrarsi sul come. La sensazione di respirare sorridendo nell’osservare i posti familiari e sempre omessi nelle faccende di perseguimento di scopi ben delineati, offre una appagante visione estetica che si tramuta in un immediato benessere fisico.

Questa sensazione ritenuta normale quando appare, e sempre perseguita nei luoghi dell’isolamento e negli spazi dell’angoscia, è l’espressione della contemplazione di essere distinti ma in assonanza con ciò che ci accompagna nel divenire di tutte le cose.

Compagnie

Siedo assolato
d’ombra coperta
con bevanda
d’oro colato
dalla fonte infinita.

Assenti freddure
congedano arie
granulate da
ipocrite pretese
di compagnie
inutilmente contese.

Contemplo pieno
di buona indole
ogni orma accaldata,
che sfiora nell’ombra,
piani lasciti
riflessi da schegge
della mia armonia.

Per ascoltare Buena Vista Social Club— “Chan Chan” Premi QUI

*6 Special Guest: Corali allegorie

10 aprile 2013  

Il quadro di Jan Vermeer (Delft, 31 ottobre 1632 – Delft, 15 dicembre 1675) . Allegoria della pittura, offre molteplici piani nell’interpretare l’arte e la tecnica della pittura, oltre all’oggetto rappresentato. È una relazione che da millenni attraverso i mutanti supporti tecnologici, noi da sempre utilizziamo. Dalla caverna, al totem, alla televisione, al telefonino, al cartellone pubblicitario. È quasi naturale guardare e contemplare. Certamente il pittore compie un passo innanzi di ideazione e creazione.

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Il quadro mostra una concezione dell’uomo moderno consapevole di essere un soggetto autonomo di azione e giudizio, rispetto ad un ambiente esterno pronto ad essere evocato e immaginato, attraverso il gioco di luce e ombra.

Essendo una allegoria, ogni elemento raffigurato, invita un rimando ad una concezione del mondo, al ruolo dell’artista e di colui che osserva. Che allegorie vorreste?

Chi o cosa vorreste essere nel quadro? Oppure che vorreste fare? 

 

@11 PoeticaMente: La felice mezzaluna

8 aprile 2014 

La tradizione musicale siriana si caratterizza, come in generale quella dei paesi arabi limitrofi (Egitto, Libano e Iraq)e nella mezzaluna propriamente detta, per l’importanza conferita all’improvvisazione. La sua forma principale è il taqsim, preludio estemporaneo per uno strumento solista, in ritmo libero. Il suo equivalente vocale è il layali, un vocalizzo sulle parole «yālayl, ya ’aynī» («oh notte, oh miei occhi»).

Gli strumenti piū diffusi sono lo ud, o liuto arabo (importato poi in Italia nel 1400 e diede un contributo fondamentale per la musica rinascimentale).

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Oud — prelevato da QUI

 

Il qanun, una sorta di cetra trapezoidaleo o kanun, è uno strumento cordofono a 78 corde della tradizione classica araba. Consiste in una cetra trapezoidale, con numerosi cori di corde tesi su un piano armonico di pergamena. La lunghezza delle corde può essere modificata prima dell’esecuzione agendo su piccoli capotasti metallici, cambiando così accordatura in funzione della scala prescelta. Le corde vengono pizzicate tramite due grossi plettri di corno.

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Qanun – prelevato da QUI

Il qanun ha nella didattica musicale araba, greca e turca la stessa funzione che il monocordo ha rivestito in quella medioevale occidentale, di strumento pratico per l’apprendimento degli intervalli. Venne introdotto in occidente nel medioevo, con il nome di cannone.
Il nay, un flauto dritto (risale a 5000 anni fa: ne sono stati reperiti alcuni nell’antica città di Ur). Il ney (parola di origine iraniana) è un flauto di canna composta da 9 nodi e i suoi fori seguono rigide regole matematiche, utili per l’esecuzione dei diversi maqam (che in arabo significa luogo o posizione ).

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Nay – prelevato da QUI

Ogni maqam descrive il “fattore tonale-spaziale” o insieme di note musicali, compresi i modelli e lo sviluppo della melodia tradizionale, lasciando libera la “componente ritmico-temporale”, perché è aperto alla sensibilità di ognuno, anche dagli Andalusi dell’estremo occidente.

Dai millenari scambi tra Magreb (Marocco, Algeria, Tunisia;) e Makresh (Libia, Egitto, e Medioeriente) gli strumenti musicali si sono fusi, modificati e rigenerati, anche attraverso l’impero Romano e le Repubbliche Marinare, fino agli imperi dei giorni nostri.

E tutto passa ancora oggi in Siria, sotto il rumore delle bombe, nel paese dalle numerose vocalità, etnie e richiami sonori per tutta l’EuroAsia.

Siamo circondati da queste improvvisazioni millenarie, dove il Sole e la Luna giocano a nascondino in questa felice mezzaluna che abita nel Mediterraneo.

E una armoniosa commistione appare nella moderna chitarra siriana e in quella andalusa…. E nel cuore di chi le suona.
Per ascoltare la chitarra siriana e andalusa premere QUI

#14 Contaminazioni: Una risposta dell’Oriente

3 aprile 2014 

Da sempre il mondo visto come uomo e natura ha avuto denominazioni razionali con l’avvento del linguaggio. Però circa 2500 anni fa in Grecia, un modo di pensare oggi predominante e ora diffuso in ogni lingua, affermò l’Occidente. E immediatamente apparve anche l’Oriente, sebbene quest’ultimo non sapeva di esserlo.

Certamente l’Occidente nell’anticipare e prevedere il decorso degli eventi sulla terra disponibile è oggi considerato il più efficace e coerente modo di apparire. Talvolta però i problemi scaturiscono nel considerare l’Oriente, come l’India ad esempio, un residuo del nostro agire e sapere. Come se le terre dove sorge il Sole abbiano già detto tutto.

La poesia è produzione. Cosa rispondono le poesie dell’Oriente alle tecniche produttive delle emozioni e dei sensi proprie dell’Occidente?

Una delle tante risposte proviene da Rabindranath Tagore, nato nel 1861 e morto nel 1941, poeta premiato con il Nobel nel 1913, musicista compositore, pittore, educatore e filosofo indiano, protagonista primario insieme al Mahatma Gandhi, anche di movimenti religiosi e politico-sociali. Il quale utilizza comunque gli strumenti dell’Occidente ma tenta un linguaggio poetico che dal Buddismo toglie l’idea di una natura separata dal divino nirvana e che renda contraddittoria l’immagine occidentale della storia come lotta per la vita biologica.

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Rabindranath Tagore immagine presa QUI

 

Da i Gitanjali

Il mio canto ha deposto ogni artificio.
Non sfoggia splendide vesti
né ornamenti fastosi:
non farebbero che separarci
l’uno dall’altro, e il loro clamore
coprirebbe quello che sussurri.

La mia vanità di poeta
alla tua vista muore di vergogna.
O sommo poeta,
mi sono seduto ai tuoi piedi.
Voglio rendere semplice e schietta
tutta la mia vita,
come un flauto di canna
che tu possa riempire di musica.

Dove qui la canna vuota non è quella occidentale che, flebile corre il rischio di essere estirpata, o come la poesia “Ginestra” di Giacomo Leopardi che resiste e sempre in lotta contro l’oblio.

Qui la canna è già piena: acquista nuove forme e sostanze sonore.

@10 PoeticaMente: Spaesanti attrazioni

1 aprile 2013  

La paura della perdita talvolta scaturisce dalla dissoluzione delle cose e delle memorie. E ancora di più nell’incapacità di comprendere ciò che appare. L’assenza di una risposta e la fuga dei significati causano la paralisi. Nonostante tutto cerchiamo anche esteticamente di attribuire un significato che ci permetta di concepire un ventaglio di possibilità, per determinare uno spazio di esistenza nel futuro.

Abbiamo paura delle attrazioni del moto delle acque e della terra, che aprono le porte al vortice e al gorgo. Fuggiamo da essi, ma l’occhio ne è attratto.

La stasi risulta dalla consapevolezza dell’inutilità della fuga e dall’attrazione verso il pericolo massimo, perché avvertiamo la suggestione di una nuova forma di esistenza e di conoscenza del mondo.

E allora che si provi a sedere nel ciglio delle coste a ridosso del mare evocato dai gorghi. Si veda lo specchio di quel fondale infinito che è il nostro timore. Due abissi che si incontrano vorticando nel centro dell’angoscia.
E impietriti, lasciamo avvicinare il vento artico che indugia sulle nostre spalle, contrastato dalla calda corrente dei Sargassi, crepitando colori argento del nord con i corrispettivi viola del sud, nel nostro fuscello d’esistenza.

E si acconsenta a trasfigurarsi nella vela dei venti e abbracciare tutte le gocce del possibile. Come un marinaio che cerca la rotta nell’occhio dell’uragano. Dell’uragano che è il suo stesso occhio.

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“Viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich (1774-1840) – Immagine presa QUI

 

Per ascoltare “Into The Sea”  di Sivert Hoyem premere QUI

@9 PoeticaMente: Follia e celebrazione

28 marzo 2013 

Vogliamo, in genere, un senso compiuto che offra stabilità e che conferisca al divenire uno scopo che sia in linea con la causa, sebbene ciò che appare si manifesta in modi che il nostro linguaggio lo appelli come indefinito. La varietà e l’imprevedibilità costituiscono concetti che tentano di imbrigliare ciò che non vediamo e non intendiamo.

Immaginiamo solitamente una ricetta, un credo e una formula che sia da bastione all’infinito apparire e al timore della sua assenza. Abbiamo un’angoscia sublime verso il divenire e un tremore paralizzante verso il sospetto di cadere per sempre nel niente.

Tutto in regola, sia nel tempo, sia nella relazione che va dalla genesi alla fine. Nascita e morte del soggetto e del verbo, dell’anima e del corpo, invitano a considerarci in finte scissioni con una fede, agnostica, scientifica, religiosa che ci ricomporrà in modo senziente oppure in un indistinto apparire cui noi saremo senza dire e pensare e ricordare.

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Immagine presa da QUI 

E il silenzio dovuto al terrore, spinge la fantasia a elaborare altri linguaggi che non siano così meccanici nel credere che da una causa (genesi) si arrivi incontrovertibilmente all’effetto (dissoluzione). E vogliamo altre parole, altre sequenze e suggestioni. Altre forme di patire che non siano la razionalità della paura. Una follia che nel gioco, moltiplichi altre strade del divenire, per ulteriori sponde dell’esistenza.

Vogliamo la follia che tradotta anche in due note, regali la fede di moltiplicare differenti sonorità in un infinito comporre che renda sospeso il silenzio del nulla.

Per ascoltare “La Follia” Di Arcangelo Corelli, premere QUI