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§CONSIGLI DI LETTURA: IL POPOLO DELL’AUTUNNO

Il popolo dell’autunno di Ray Bradbury (Autore), Remo Alessi (Traduttore), Oscar Mondadori, Milano, 2013 (Prima edizione: Something Wicked This Way Comes, 1962)

Si piange e si ride, si immagina e si ricorda in questo scritto, perché la sua firma è la meraviglia del mondo e del cuore d’ognuno.

Questo romanzo, è l’ideale prosecuzione del precedente “L’estate incantata” del 1957 (per un’analisi premere QUI). Vi è la stessa città, e questa ruota attorno ai punti di vista di ragazzi quasi adolescenti. Ray Bradbury ha una capacità superlativa di rendere vivi i processi fisici ordinari, e i grandi agglomerati antropici e naturali. Non in un senso allegorico o metaforico, ma in modo diretto. Non è un caso che a tratti la prosa assume toni lirici, quasi di versi in prosa, quando descrive gli ordinari processi metereologici ad esempio. Le albe, e i raggi del Sole, che oltre a illuminare sono dotati di una fisicità tale da dipingere le foglie, sostenere i minuti e smuovere le ombre e i toni che si adagiano, corrono, si inabissano e riemergono dalla terra.

Una formica non è solo un insetto che si muove, cieca del suo destino. No: è un corpo senziente che vive in uno spazio vivo, mutante, dotato di fini nascosti ed obiettivi determinati. Gli insetti, come le foglie, i sassi, le anse dei fiumi, i grovigli dei rovi, i rami degli alberi, parlano tra loro, si muovono e si modificano. Pensano, dormono, riflettono, cantano: usano il vento come mezzo di comunicazione, e usano l’aria e il suono come frecce e faretre.

La narrazione è continuamente tesa a svelare che ogni ente classificabile come “oggetto inanimato” sia in realtà un soggetto dotato di nume, che respira aria, luce, suono, e comunica in piani che oltrepassano i sistemi di riferimento umani instillati nei cinque sensi.

Il linguaggio è mitico. Di prima impressione potrebbe rivestire uno stile favolistico, nello svolgersi degli eventi, il lettore quasi sedotto dal tono fantastico e immaginifico, che lo tranquillizza riportando in luce il suo passato ancestrale di sogno e incanto. Da una lettura più profonda, però, si ricava che il romanzo è tutto il contrario di una favola. Il luogo, il tempo, la coerenza disposta tra le gesta dei protagonisti sono intesi realmente. In modo verosimile.

Il mito qui, non è quello nostro che, in negativo, dilegua rispetto a una descrizione razionale e veritiera degli accadimenti, attraverso la suddivisione tra i principi, le cause, i momenti topici. La poetica ha la pretesa di offrire uno sguardo prospettico e multidimensionale del mondo, e in assonanza con l’universo interiore, che è personale per quanto riguarda le responsabilità delle proprie azioni e della legittimità dei propri scopi, ma che è comune a tutti gli esseri viventi.

Le stagioni scandiscono il ritmo degli avvenimenti, e offrono una idea di un prima e un dopo, ma queste sono destinate a ritornare, e quindi a permettere una partecipazione all’unisono dei giovani e degli adulti, dei figli e dei padri, delle madri e di chi nascerà, dei vecchi e della loro compagna finale: la sorella nera. Ognun di loro cresce, passa da uno stadio all’altro e insieme rispetto al momento di crisi, che vi è sempre, perché ogni stagione ha un limite del prima e del dopo, caratterizza il proprio vivere.

È un autunno che è destino di ogni vivente: dall’uomo, agli animali, alle piante, alle rocce, si interroga, si dispera, ha il timore della propria finitezza e la speranza di comprendere il proprio stare nel tempo che scorre e in ciò che permane mutando.

E quindi ritornano, e son presenti, gli intenti volti a un vivere pieno, e quindi al desiderio d’amare e di gloria, assieme ai corrispettivi volti della decadenza, della malattia, fino alla vecchiaia e alla morte. All’interno della dialettica tra il bene e il male, tra il voler cedere all’arroganza e all’ignoranza, vi è il rischio di voler ignorare i propri limiti e di confondere la propria volontà con ciò che si presume siano gli scopi e gli obiettivi del vivere di ognuno.

Ray Bradbury è abile a definire un equilibrio quasi trasparente tra un approccio arcaico e rituale, a quello di un romanzo di formazione, con un trattato di etica che ha il contrappasso nella pena, e nella personale e conseguente redenzione. Le vicende hanno uno stile d’avventura, ben delineato da uno stile di avventura, che assume caratteristiche quasi etologiche.

Vi sono luoghi retorici che invitano il lettore a colorare gli ambienti con i propri ricordi. Ci si sente pittori nel comporre la narrazione mitica del testo, con la singola vita irripetibile di noi che scorriamo gli eventi di questi due ragazzi, dei loro genitori, dell’intera città, e di ciò che sta ai confini e che entrando, muta gli equilibri ed evoca le paure e gli orrori e ciò che è voluto tenere nascosto dagli stessi cittadini.

Il libro richiama le atmosfere degli scritti dell’ottocento e del primo novecento degli Stati Uniti: il circo è il luogo della scoperta, della magia, e della tentazione. Ne sappiamo qualcosa con il nostro Pinocchio. Vi è un senso della colpa puritana, e una voglia di avventura che dai picari spagnoli, ai guasconi francesi, ai nuovi adolescenti di inizio novecento, che offrono una sedia dove noi, accasandoci, ritroviamo gli stadi precedenti del nostro vivere.

Vi è un tentativo di riavvicinamento tra un padre e un figlio, e una voglia irresistibile di dire sì alla vita, e quindi di riconoscere i propri limiti, per determinare le possibilità di migliorare la propria esistenza. Si ride delle proprie sconfitte, incapacità, e fallimenti. La risata che salva, quella che fa riconoscere il cuore di chi sta vicino. L’autocritica salace previene l’assalto della menzogna e della terra di autunno che disperde i colori dell’estate, e che non vuole mutare per i nuovi impegni dell’inverno che sono faticosi e freddi, ma necessari per custodire un nuovo universo ancora da venire.

Non ho voluto dire nulla sulla trama: è un libro di avventura che va letto senza sapere nulla in anticipo. Si gusta ogni avvenimento, perché chiede il coinvolgimento di tutti noi. E ci fa pensare, commuovere e ridere. Già la sapete: è la storia del v(n)ostro vivere.

§CONSIGLI DI LETTURA: HAIL MARY

Project Hail Mary di Andy Weir (Autore),
Vanessa Valentinuzzi (Traduttore),
Prima edizione 2021, Edizione Italiana 2023,
Mondadori, Milano

Il romanzo di Andy Weir segue lo stile dei due precedenti come Martians (Premere qui per leggere un consiglio scritto di lettura) e (Premere qui per leggere un consiglio scritto di lettura) Artemis. Vi sono protagonisti, maschile nel primo, femminile nel secondo, che hanno un rapporto conflittuale con le autorità. Mostrano una distonia tra ciò che il potere e il diritto pretendono per il mantenimento dell’ordine sociale e per risolvere problemi scaturiti da pericoli incombenti, a fronte dei valori di libertà e democrazia che conferiscono a loro autorità.

Le esigenze del collettivo, o delle élite, se sopravanzano le richieste e le aspirazioni del singolo, spingono il protagonista del romanzo a opporsi a seguire una accondiscendenza formale ed acritica, fino a incorrere in reati penali come in Artemis. Il protagonista, come qui, in Hail Mary, cioè Randy Grace è una reincarnazione del Cow Boy Usa che è si fedele ai valori della comunità tutta, ma che è capace di azioni di rivolta, di rinuncia, di conflitto. Intraprende una vera ribellione, non tanto per sovvertire l’ordine costituito, quando, secondo la sua ottica, di renderlo più aderente e non contraddittorio nell’esercizio del suo potere, rispetto a ciò che dichiara e a ciò cui si appella in ordine all’etica, alla morale e al diritto.

A fronte di un pericolo mortale per l’intero pianeta Terra, Randy Grace accetta di collaborare mantenendo un atteggiamento da battitore libero sia nell’effettuare una ricerca di biologia e di ritrovarsi poi coinvolto in una missione spaziale, a dir poco suicida.

Lo scrittore Andy Weir, qui, affina sempre più, come nei due romanzi precedenti, il suo stile ironico e avvincente, per coinvolgere il lettore come se stesse seguendo un serial in tv. Offre una rappresentazione scenica in cui si ha la sensazione di essere immersi accanto ai personaggi. Anche qui, in modo mirabile, segue il filone della Hard Fiction, ovvero la scrittura di fantascienza che ha sì una idea attualmente irrealizzabile, ma che, se presa per vera, tutto il contorno tecnologico e le nozioni di fisica, chimica e astronomia, sono vere e coerenti nella loro relazione. Vi è una attenzione maniacale dei moti dell’astronave. Si rileva che ha studiato molto di microbiologia, e delle relazioni tra la luce e lo scambio di energia negli organismi viventi.

È uno scrittore superlativo, e non è un caso il suo successo, anche nella riproduzione filmica dei suoi romanzi, in merito a una narrazione attenta ai ritmi di comprensione di ciò che è esposto. Non è un caso che ci si senta portare per mano nel comprendere l’ambiente ipertecnologico che fa da contesto. Anche qui ha frasi “slang” che possono essere comprese in modo compiuto solo da chi vive negli USA, anche per i riferimenti a particolari modi di dire riferiti a luoghi e a persone specifiche. E questo è un limite delle traduzioni di tutta l’opera di Andy Weir: sarebbe il caso di corredare con note esplicative, quella massa di riferimenti quotidiani che è offerta. Si dovrebbe avere la capacità, la voglia, e il tempo, come solitamente il sottoscritto compie, di avviare ricerche laterali per quei termini e per quei rimandi oscuri, che in realtà però sono rivelatori di analogie e di riferimenti che offrono nuove chiavi interpretative circa lo sviluppo della narrazione.

È un peccato che non siano esplicitate, perché queste rendono più concreti i personaggi, e in particolare il loro vissuto. Senza contare poi, che lo stile è comico, con battute e motti di spirito, che potrebbero essere più ficcanti, nell’inquadrare i contesti in modo meno approssimato.

Nei romanzi di Weir, come in questo, il monologo del protagonista la fa da padrone: scandisce l’intervallo con i dialoghi con gli altri personaggi. In Martians il soliloquio mentale traccia il prima e il dopo con i dialoghi e spiega lo svolgersi dei momenti topici nell’atto del loro svolgersi. In Artemis si riprende tale stile, aggiungendo un doppio dialogo che la protagonista ha con gli eventi del passato, in modo che siano incasellati nelle scelte dell’azione presente. Anche in Hail Mary vi sono queste due caratteristiche, ma il ricordo qui, non è solo un elemento per coordinare il monologo interiore, quanto un vero e proprio antagonista. Randy Grace all’inizio del romanzo è smemorato, e i ricordi arrivano goccia a goccia, non soltanto come elementi inerti, ma come un groviglio di situazioni reali che si accostano nelle vicende del presente.

Il passato viaggia in parallelo con il presente, e la riflessione, e la chiave dell’interpretazione viaggiano entrambe nel participio passato. Il futuro, invece, si ritrae continuamente. Tutto ciò rende dinamica la storia. Va vissuta fino all’ultimo senza farsi prendere dalla voglia di sapere immediatamente la fine. Una chiave dei successi di questi libri, risiede nell’abilità dell’autore di moltiplicare il personaggio principale in tanti se stessi sia nei dilemmi morali sia nel corso della narrazione, in modo che tutti siano presenti, offrendo quindi una riflessione autoironica, disincantata e briosa.

È facile immedesimarsi con i protagonisti, perché, nonostante le avversità, i disastri, i propri limiti, hanno comunque uno spirito positivo. Cercano di capire l’oscura minaccia che si avvicina e affrontano il pericolo nel tentativo di elaborare tattiche e strategie di risoluzione. Si rimane stupiti di quante risorse emotive e cognitive i protagonisti tirino fuori dal cappello, ma Andy Weir è abile nel mostrarcele nei momenti di massima tensione, offrendo quindi l’immagine che anche noi, in condizioni di necessità, saremmo capaci di reagire in modo proficuo ed adeguato.

Per questo stile che definirei fresco e corroborante, questo libro andrebbe vissuto e sperimentato nel chiedersi quali siano i propri limiti, e nel pensare le soluzioni più adeguate per risolverli o perlomeno ridurli.

Dietro l’apparente comicità del romanzo, però sono trattati temi capitali, come l’ambiente, il senso della propria esistenza qui in questo pianeta, e l’anomalia stessa che è la Terra rispetto agli astri. Vi è un tributo alla volontà di vivere associata a una genuina sete di conoscenza.

Come in ogni sua opera Andy Weir si documenta in modo minuzioso chiedendo la collaborazione di esperti e di scienziati circa gli argomenti e gli ambiti scientifici e tecnologici in cui la narrazione è intessuta. Vi sono descrizioni della biologia molecolare e quella dei batteri. Vi è anche una ideazione comparativa riguardo le diverse forme ucroniche di evoluzioni della vita in pianeti diversi. Vi è un’ottima applicazione dei modelli delle teorie dell’evoluzione. E alla base di tutto, vi è una descrizione precisa ed attendibile dei fenomeni astrofisici e delle leggi di rotazione e di spinta per i viaggi interstellari.

La lettura di questo libro offre un’occasione per approfondire l’ostico concetto delle teorie della relatività, in particolare per le relazioni tra lo spazio e il tempo in funzione di velocità quasi prossime a quella della luce. L’esposizione, infatti, è accessibile, lineare, senza scorciatoie “gergali” o ad “effetto” che mascherano eventuali incongruenze fisiche e astronomiche.

È uno scrittore onesto: parte da una idea che è fantascientifica, ma l’ambiente e lo sviluppo della narrazione è coerente con le nostre effettive conoscenze teoriche e con le possibilità tecnologiche di oggi.

Per questo l’autore può essere considerato un rappresentante dei nostri giorni degli approcci dei grandi scrittori di fantascienza della “Età dell’oro” che oggi si definisce tra gli anni quaranta e metà anni sessanta del secolo scorso.

Vi è un elemento ulteriore che è più strettamente estetico. All’interno della trama, vi sono due grandi proiezioni dei modelli dei cicli vitali qui nella Terra e delle diverse forme di un paradigma finalistico di ciò che è il futuro e delle responsabilità delle specie più evolute. Qui siamo in un campo in cui è lo scrittore che si confronta con l’etica e la speranza.

È un’opera a tutto tondo che riempie i polmoni d’aria fresca e pulita e si sorride con piacere nell’adagiarsi a una lettura avvincente, onesta, e tutt’altro che superficiale.

§CONSIGLI DI LETTURA: I PICCOLI MAESTRI

I piccoli maestri di Luigi Meneghello, 2013,
prima ed. 1964, Rizzoli, Milano

Tanti lati nascosti ha quest’opera. Racconta i luoghi e gli eventi, immersi in un processo storico in cui l’incanto della natura antropizzata unisce l’antico e il mito. L’autore è anche il protagonista che incarna il mito di Ulisse, ma verso se stesso. Il suo “io” è Itaca. Tutto converge nel suo monologo.

I fantasmi, coloro che sono rimasero adolescenti a metà, li riporta in vita affinché il loro destino sia compiuto in un appuntamento della memoria. Ognun di loro inizia il viaggio per ricongiungersi nella voce di Luigi Meneghello.

L’autore rinnova quelle gesta, scrivendo da adulto, le parole e gli atti della gioventù. Si fa da parte, in modo che i morti riassumano un articolo determinativo. La cornice ha lo scheletro della resistenza dei partigiani tra l’armistizio del giorno 8 settembre 1943 e la fine della seconda guerra mondiale e la cornice dei racconti dei comunisti, dei cattolici, dei libertari, secondo gli inni degli anni cinquanta, degli anni sessanta, e negli anni di “piombo”.

Vi è l’intento di ricollocare la biografia e la cronaca in un quadro depurato dalle retoriche derivate dalla guerra fredda. Ed ecco, quindi, che il mito assume una posa lirica, in cui il protagonista, parla con le montagne e con le valli del Veneto, nella speranza di colloquiare con gli dei, con la natura e con il tempo dei cicli e dei riti. Tutti coloro che furono maestri a metà, perché morti, o fermati dal loro percorso originario di scopi e di speranze, verso di lui si approssimano e si abbeverano alla fonte del suo scritto.

La versione di quest’opera è degli anni settanta, dieci anni dopo la prima pubblicazione. E inizia nel momento in cui lui, ventiduenne, assieme ad altri amici universitari, lascia tutto e va nelle montagne per assumere il ruolo di partigiano.

È una formazione in itinere. Ognuno di loro aveva una razionalità limitata riguardo alla guerra, alle tecniche di resistenza, e alle modalità di organizzare azioni contro i tedeschi e contro i fascisti della Repubblica Sociale. Lo stile all’inizio è quasi simile, all’inizio, a un resoconto di cronaca. È preciso nei dettagli dei luoghi, nella descrizione puntuale dei paesaggi e dei personaggi, fino alla singola piega o strappo di un vestito. Eppure, ed è qui l’effetto caleidoscopico, è anche un romanzo di formazione, perché narra una crescita che parte da una istanza morale: darsi una dignità per sé e per le proprie comunità, dopo il disonore fascista, la vergogna della disfatta, la guerra civile, e l’abbraccio fraterno al sanguinario tedesco.

È delineato un approccio antitetico alle mitopoiesi partigiane e a quelle dei fascisti “buoni” che si scontrarono, si ritrovarono in quel periodo, tra i lutti, le vendette, gli orrori, e le lacerazioni presenti fino ad oggi. I libri e la retorica diaristica e politica negli anni cinquanta e sessanta ponevano sì uno scontro duro, e di rivendicazione, ma ammettendo, nonostante tutto, il valore di chi resisteva e anche di quei pochi, pochissimi che mantennero l’umanità stando dalla parte “sbagliata”, siano stati essi compagni confusi o fascisti.

Luigi Meneghello narra le sue vicende e di quelle dei partigiani di area comunista, liberale, cattolica, o semplicemente di comunità e locale, in una progressiva acquisizione di strategie e tecniche di guerra, di maggiore consapevolezza ideologica, e di un maggiore affinamento delle proprie valutazioni morali, MA non attraverso il mito dell’eroe partigiano, del grande guerriero, della gioventù gloriosa.

Gli eventi topici sono contraddistinti da dubbi, errori ed atteggiamenti goffi quasi comici, all’interno degli epiloghi tragici in cui i suoi compagni morivano così, quasi per sbaglio o incuria.

Tutte quelle persone furono piene di dubbi, di limiti, di pregiudizi, analfabete quasi, neanche tanto intelligenti, piagate dalle malattie, e con disabilità varie. Eppure resistettero nel rifugiarsi nelle montagne, negli attentati, nel sopportare la fame e il freddo, nel morire malamente e nell’attuare una lotta clandestina in pianura, dentro le città. Nel litigare tra comunisti, socialisti, comunisti antisovietici, liberali, repubblicani, realisti, cattolici proto ecumenici, e quelli ortodossi, e contro la grande maggioranza amorfa, suddivisa nelle preoccupazioni quotidiane e in un fascismo di convenienza, pronta ad aderire al potente di turno.

La narrazione assume toni comici, nonostante il racconto si snodi tra tragedie e toni lirici e commoventi, nel recepire il senso ancestrale delle comunità in rapporto al paesaggio natio. E qui vi è un nostro errore prospettico di lettori. Luigi Meneghello non voleva risultare comico mentre scriveva, perché siamo noi oggi, ad avvertire lo scarto delle retoriche del valore, degli eroi, e di come queste siano piccole, semplici, tronfie rispetto all’oceano degli eventi che accaddero. Un popolo debole, corrotto dalle proprie bugie, che si trova ad affrontare una realtà che consapevolmente contribuì ad evocare.

Eppure, nonostante le avventure maldestre e picaresche, Luigi Meneghello è indulgente verso il giovane che fu e verso tutti gli altri, gran parte uccisi e rimasti giovani lì, per sempre. È un padre che si avvicina e li abbraccia, perché, nonostante tutto, in modo irriflesso, inconscio, rozzo ebbero una caratura etica, tesa all’estremo sacrificio per di mantenere una postura dignitosa nella tensione verso la libertà con le mani aperte, callose, ma pulite.

§CONSIGLI DI LETTURA: MUSICA ROCK DA VITTULA

Musica Rock Da Vittula di Mikael Niemi,
(Populärmusik från Vittula, 2000),
K. De Marco (Traduttore),
2010, Iperborea, Milano

È un romanzo di formazione semi autobiografico, dove le vicende del passato si miscelano con le riflessioni nel presente che l’autore fa di se stesso di quel periodo con i suoi compagni, considerando l’evoluzione e i contrasti di quella zona della Finlandia dove convivono i Lapponi, comunità svedesi con diverse forme di interpretazione del luteranesimo.

L’interiorità del protagonista costituisce il sistema di riferimento per inquadrare lo spazio e il tempo narrativo. La visione animistica del cosmo e della natura offre uno stile narrativo che facilita la commistione tra il passato e il presente.

12-13 “[…] Nel gergo popolare il nostro quartiere veniva chiamato Vittulajänkkä, che tradotto vorrebbe dire la Palude della Passera. L’origine del nome non era chiara, ma doveva avere a che fare con il gran numero di bambini che ci nascevano. In molte case si arrivava a cinque, se non di più, e il nome rendeva una specie di crudo omaggio alla fertilità femminile […]”

16-17 “[…] Smisi di spingere e lasciai che l’altalena perdesse a poco a poco velocità. Alla fine saltai sul prato, feci una capriola e rimasi sdraiato a terra. Guardai il cielo. Le nuvole rotolavano bianche sopra il fiume. Sembravano grosse pecore lanose che dormivano nel vento. Se chiudevo gli occhi vedevo degli animaletti muoversi sotto le palpebre. Dei puntini neri che strisciavano su una membrana rossa. Se li stringevo ancora più forte riuscivo a vedere degli omini viola nella mia pancia. Si arrampicavano gli uni sugli altri e formavano delle figure. Anche lì dentro c’erano degli animali, anche lì c’era un mondo da scoprire. Mi prendeva un senso di vertigine, capivo che il mondo era una serie infinita di sacchetti infilati uno nell’altro […]”

I titoli dei paragrafi spiegano le gesta, in modo analogo a un racconto a quelle d’arme e d’amore di un tempo. Il mito del passato intesse una narrativa lirica. La memoria costituisce una storia che snoda il romanzo di formazione in una sequenza di Odissee per le quali il lettore possa partecipare emotivamente, attraverso una descrizione del mondo visiva, odorifera e tattile. Le immagini risultano concrete, olografiche, come quelle di un bimbo, contraddistinte da olografie antropomorfe. Gli oggetti rappresentano significati spirituali ed etici (buono, giusto, repellente) o caratteriali (eroico, pavido, fermo).

71 “[…] Quel pomeriggio stesso cominciò la lite per l’eredità. Si attese che finissero i riti funebri e che vicini e predicatori se ne fossero andati. Poi le porte della fattoria si chiusero agli estranei. I vari rami, escrescenze e innesti della famiglia si riunirono nella grande cucina. I documenti furono disposti sul tavolo. Gli occhiali furono estratti dalle borsette e messi in equilibrio su nasi lucidi di sudore. Si schiarirono le voci. Si inumidirono le labbra con lingue affilate. Poi scoppiò il finimondo […]”

178 Durante la gara di bevute clandestina dei ragazzi, il narratore interpretando se stesso da bambino, riveste le vicende con uno stile fiabesco, ma nella sostanza coerente nel descriverle in modo estremamente razionale per analizzare i fenomeni della natura, le leggi morali e il loro impiego. Per il contrasto comico sapientemente dosato, mostra l’assurdità e il ridicolo delle imprese dei suoi coetanei e di quelli di poco più grandi nell’imitare i comportamenti degli adulti. Ridicoli perché goffi e impotenti non avendo la cognizione, l’esperienza e il fisico per le imprese, e assurdi perché riuscivano benissimo a imitare i miserevoli comportamenti degli adulti. Mentre in alcuni romanzi di formazione i ragazzi e le ragazze (Tom Sawyer o Pippi Calzelunghe) mostrano l’ipocrisia e la violenza degli adulti attraverso il loro comportamento conflittuale e di sfida, contravvenendo sistematicamente alle regole, qui i giovani disubbidiscono alle prescrizioni, ma per uniformarsi allo stile di vita dei più grandi.

Le comiche e malriuscite imprese dei ragazzi, costituiscono una accusa indiretta all’ipocrisia dominante. Nonostante tutto, vi è da parte del protagonista, e quindi dell’autore, un moto di compassione e di affetto per tutti. Se i ragazzi intraprendono imprese impossibili destinate al fallimento, gli adulti raccontano e si magnificano del loro passato in modo così iperbolico, da risultare esilarante.

Il romanzo offre l’occasione per studiare la storia e il modo di vivere dei finlandesi di confine con la Lapponia, la Russia, i rapporti di inimicizia e di ammirazione nascosta per gli svedesi, il conflitto tra la città e la campagna, il campanilismo tutto particolare tra i quartieri e le zone rurali più isolate di questa comunità che parla una lingua semi finlandese, mischiata a quella lappone. È estremamente interessante osservare il rapporto quotidiano con le prescrizioni della religione luterana, dei riti pagani ancestrali, e dagli influssi della visione ortodossa russa. Il utto immerso in una visione magica della natura.

Vi è anche la cronaca della trasformazione sociale di questa comunità che subì la guerra più volte e le invasioni di Svedesi, Prussiani, Russi prima e poi ancora Svedesi, Tedeschi e Sovietici dopo. Bellissime e toccanti sono le descrizioni della natura e dei moti delle stagioni e qui i lettori italiani dovrebbero porre maggiore attenzione a comprendere gli aggettivi riferiti alla notte, al buio, al freddo, alla tempesta, al ghiaccio, all’afa. Quello che nel testo è scritto in modo normale, per noi popoli del clima mediterraneo l’intensità di tutto ciò sarebbe superlativa: dalla distesa delle foreste, dei laghi, dal vento che taglia e ghiaccia, dalla notte artica del nord che è buio completo, dal freddo che significa meno di dieci gradi in giù.

È una narrazione autobiografica introspettiva che rivolge un atto di accusa e un atto di amore per il proprio passato, per i famigliari, per una terra che mantiene una memoria sotterranea, condita da un umorismo che tende a esprimere fanfaronate, ma in un modo così discreto che rende disponibile il lettore ad avvicinarsi con affetto.

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245 “[…] Tutti abbassarono i bicchieri e si sedettero. La festa aveva ormai raggiunto lo stadio della malinconia, e la musica arrivava a puntino. Cantavo guardando il nonno, che abbassò timidamente lo sguardo. “Oi Emma Emma, oi Emma Emma, kun lupasit olla mun omani…” Proseguimmo con Matalan torpan balladi. L’atmosfera divenne così triste che si appannarono i vetri alle finestre. E per finire attaccammo Canzone d’amore di Erkheikki, un valzer lento in minore con un assolo lamentoso di Holgeri che avrebbe commosso una pietra. Poi gli uomini vollero brindare con noi. Come si usa nel Tornedal, nessuno disse una parola di commento sulla nostra prestazione, perché gli elogi inutili alla lunga non portano ad altro che a progetti smodati e al fallimento. Ma si vedeva dai loro occhi cosa sentivano […]”

247-248 “[…] Com’è bella l’estate, così perfetta, così eterna! Il sole di mezzanotte sul limitare del bosco, nuvole rosse che risplendono nella notte. Calma di vento assoluta. L’acqua ferma liscia come uno specchio, senza un’increspatura. E poi all’improvviso un cerchio che si allarga lentamente su quella calma sublime. E lì, in mezzo al silenzio, si posa una farfalla notturna. Resta impigliata sulla superficie dell’acqua con la polvere delle ali. Scivola giù nelle rapide, vortica tra le pietre e la schiuma. Sopra le cime dei pini le zanzare sciamano leggere come piume nel caldo sempre più intenso. Ecco cosa si vede quando ci si trova in quel sottile interstizio che è una notte d’estate, fluttuando sulla fragile membrana tra due mondi […]”

§CONSIGLI DI LETTURA: ARTEMIS. LA PRIMA CITTA’ DELLA LUNA

Artemis. La prima città sulla luna, 2017, di Andy Weir, Newton Compton Editori, Titolo originale Artemis, 2017 di Andy Weir, Crown Publishing Group, a division of Penguin Random House, LLC.
Traduzione dall’inglese di Marta Lanfranco. 

Le questioni relative al Diritto e alle interazioni sociali riguardano anche la convivenza in piccole comunità umane fuori del pianeta Terra. Già oggi esiste un diritto astro spaziale, e anche di proprietà, simile al diritto navale e internazionale. Gli organismi nazionali e internazionali, veramente e non nei libri di fantascienza, da decenni stanno stabilendo protocolli, intese, linee guida per stipulare codici e leggi adeguate, riferite ad agglomerati stabili in ambienti ostili, dove l’ossigeno è una risorsa scarsa, così come il cibo e il territorio. Il calore è un lusso, così anche un posto per dormire.

Esiste la possibilità che per gli sconvolgimenti ambientali e per la lotta di nuove risorse si avranno nuovi tipi di interazioni sociali insospettate che mutueranno nuove definizioni di “crimine”. Pensiamo solo al 2021 in riferimento alla nuova lotta geopolitica per l’appropriazione delle risorse energetiche e delle terre rare, che può causare disallineamenti tra l’offerta e la domanda, quindi l’inflazione, la recessione. La guerra. La fame.

Quando anche lo spazio è considerato integralmente un bene, i luoghi in cui si cammina (e si respira) divengono un oggetto di contesa. Già oggi emergono nuove domande circa la definizione di nuovi soggetti giuridici. Questo romanzo di fantascienza, seppure nella sua trama avvincente e di fantasia, indirettamente, e forse al di là delle intuizioni dell’autore, mostra che:

NON SAREMO NOI A CREARE LE CITTA’ LUNARI, MA è LA LUNA CHE VERRA’ DA NOI QUI SULLA TERRA. ED è già così NELLA CONTESA DELLO SPAZIO PER LE ROTTE DEI SATELLITI, per controllare il traffico dei dati, ovvero della ricchezza, della vita stessa, del controllo meteorologico, e di una nuova definizione della guerra e degli assetti (astro)geopolitici.

In Artemis sono riprodotte le differenze di ceto e di classe. Nella cupola “Armstrong” lavorano gli operai, i saldatori, gli inservienti. Nella cupola “Aldrin” vi sono i turisti con gli hotel e i mega negozi di lussocostosi. Nella Conrad, il tugurio, dormono gli operai e i poveri.

“[…] Facciamo del nostro meglio per evitare che la polvere lunare entri in città. Non ho saltato la decontaminazione nemmeno quando stavo per morire per la valvola rotta. Come mai tanta fatica? Perché la polvere lunare, se respirata, è estremamente nociva. È composta da minuscole particelle di roccia, che non sono mai state erose dalle intemperie, perché sulla Luna non esistono mutamenti climatici. Ogni pagliuzza è pronta a lacerare i polmoni come se fosse filo spinato. Credetemi, è meglio fumarsi un pacchetto di sigarette all’amianto che respirare quella roba. […]”

Nella Cupola Shepard vivono i ricchi con un arredamento Extralusso pieno di lampadari di vetro con legno. Il vetro costa poco ed è lavorato dai soffiatori di vetro, dato che la Luna è piena di Silicio.

L’aria della Terra è composta per il 20% di ossigeno. Per il resto è costituita da gas di cui i corpi umani non ne hanno bisogno, tipo l’azoto e l’argon. Invece l’aria di Artemis è ossigeno puro a bassa pressione (il 20% di quella terrestre), affinché gli organi interni del corpo umano non ne siano danneggiati. Non è una trovata recente, risale ai tempi delle spedizioni Apollo. Il problema è che, per via della bassa pressione, l’acqua ha un punto di ebollizione più basso. In pratica bolle a 61° Celsius, che è la temperatura massima che possono raggiungere un tè o un caffè.

Il discorso indiretto libero non è scritto in prima persona dall’autore, perché sono gli stessi protagonisti che spiegano l’ambiente rivolgendosi al lettore. Quando rimuginano su di sé, richiamano eventi del passato per svelare la propria personalità o quella degli interlocutori, mostrando la città e i suoi problemi di vivibilità, all’interno di una penuria dei materiali, stando permanentemente in condizioni diverse di gravità

I cibi sono freddi. I liquidi come il caffè non arrivano all’ebollizione: sono imbevibili per i terrestri. Si mangiano alghe: almeno i poveri e gli operai. Il contrabbando è la sopravvivenza e il motivo di rimanere lì, oltre al turismo. L’ossigeno è la materia più preziosa, e il nemico più infido, perché è un comburrente.

Chi parla in prima persona e dirige gli eventi è Jazz, la protagonista proveniente dall’Arabia Saudita, dall’età di sei anni. I bambini non possono essere partoririti sulla Luna, a meno di deformazioni e rischi di sopravvivenza. Si diventa madri sulla Terra.

La città di Artemis è retta dallo stato del Kenya. L’ora della Luna è sintonizzata all’ora terrestre di Nairobi (Kenia). La reggente è Fidelis Ngugi: la ex ministra delle Finanze in Kenya. Il Kenya offriva l’equatore. I razzi che partono da lì, costano di meno per la rotazione della Terra e perché secondo Ngugi, il Kenya era un paradiso fiscale. Gli altri paesi esigono tasse onerose alle agenzie spaziali. Il Kenya no.

La proposta: “<<Jazz, sono un uomo d’affari>>, disse. <<Il mio lavoro è valorizzare le risorse sottovalutate e tu decisamente lo sei>>.

Il concetto di spazio è relativo: un garage è considerato quasi una piazza di una città.

Jazz parla indietro nel tempo con Kelvin., il suo amico epistolare in Kenya e da qui si snoda una storia parallele con le vicende lunari. La narrazione bipartita in due serie temporali dove quella epistolare è antecedente, permette il climax, nel punto di incontro logico delle azioni.

Andy Weir scrive con un linguaggio molto meno diretto e volgare, rispetto all’altro suo famoso romanzo su Marte (Martians). Quest’ultimo aveva uno stile corredato di termini meccanici, astrofisici, Artemis invece è impregnato di chimica, fisica e metallurgia (è l’apoteosi dei saldatori).

L’autore è meticoloso nel rendere la trama verosimile. I protagonisti, infatti agiscono sfruttando le conoscenze fisiche e chimiche degli ambienti non terrestri.

Loretta è una antagonista donna e qui si vede che la moralità di tutti è sfumata.

4614-4619 «Non è solo colpa tua. Ci sono state molte mancanze ingegneristiche. Per esempio, perché i sensori nelle tubature dell’aria non sono stati tarati anche per individuare le tossine complesse? Perché la Sanchez teneva metano, ossigeno e cloro vicino a un forno incandescente? Perché nel Centro di Supporto non hanno dei serbatoi d’aria separati in modo che, in caso di problemi nel resto della città, possano rimanere svegli a risolverli? Perché il Centro di Supporto è centralizzato invece di avere una succursale in ciascuna bolla? Sono queste le domande che le persone si stanno ponendo».

4760-4767 «Ma lo fanno già sotto forma di affitto alla ksc. Introdurrò un modello basato sulla proprietà privata e le tasse, così il benessere della città sarà strettamente legato all’economia, ma non da subito». Si tolse gli occhiali. «Fa parte del ciclo vitale dell’economia. Prima viene il capitalismo senza regole, finché non blocca la crescita. A questo punto subentrano le leggi, la loro applicazione e le tasse. In seguito, benefici pubblici e diritti. Infine, eccessiva espansione e collasso». «Un momento. Collasso?» «Sì, collasso. L’economia è un essere vivente. Nasce piena di vitalità e muore rigida e spolpata. A quel punto, le persone formano dei gruppi economici più piccoli e il ciclo ricomincia daccapo, ma con più sistemi economici, con delle economie neonate come quella di Artemis». «Mmm…», mormorai. «Insomma, per far figli devi farti fottere». Scoppiò a ridere. «Tu e io c’intendiamo alla perfezione, Jasmine».

E da qui consiglio la lettura del libro, senza anticipare gli avvenimenti, perché il ritmo è avvincente con molti colpi di scena.

Una nota finale, Andy Weir alla fine del romanzo nella parte relativa ai ringraziamenti cita coloro che lo hanno aiutato a realizzare l’opera. Sono quasi tutte donne che lo hanno supportato per migliorare la scrittura, per conoscere l’Islam, e per scrivere fingendo di stare dentro un punto di vista femminile.

4820-4829  Persone che vorrei ringraziare: David Fugate, il mio agente, senza il quale starei ancora scrivendo sui blog di notte e nei fine settimana. Julian Pavia, il mio editor, per essere un rompiballe quando ce n’è bisogno. L’intera squadra della Crown e della Random House per il loro lavoro e supporto. Siete troppo numerosi e qui non posso citarvi individualmente, ma, per favore, sappiate che sono incredibilmente grato di avere così tante persone intelligenti che credono nel mio lavoro, tanto da diffonderlo nel mondo. Un ringraziamento speciale va al mio agente pubblicitario di lunga data Sarah Breivogel, i cui sforzi sono stati essenziali nel farmi rimanere lucido negli ultimi anni. Per i loro intelligenti commenti in varie aree, ma soprattutto per avermi aiutato a superare la sfida di scrivere “al femminile”: Molly Stern (editor), Angeline Rodriguez (l’assistente di Julian), Gillian Green (la mia editor inglese), Ashley (la mia compagna), Mahvash Siddiqui (un’amica, che mi ha dato una mano a rendere accurata l’immagine dell’Islam), e Janet Tuer (mia madre).

§CONSIGLI DI LETTURA: LE FONTANE DEL PARADISO

Questo capolavoro è un inno al nostro bisogno di elevazione.

Il romanzo di Arthur Charles Clarke parte da una idea iniziale corrispondente a quella dell’ascensore spaziale. Questa idea in realtà è molto antica, e fu presa in seria considerazione agli inizi del 1900, in corrispondenza alla effettiva realizzazione del volo aereo che ha bisogno di energia per raggiungere le zone sempre più estreme dell’atmosfera.

L’energia costa ed è un problema immagazzinarla. Gli scienziati si posero il problema di realizzare un ascensore che arrivasse fino alle zone estreme dell’atmosfera e, dalla seconda metà del ‘900, che fosse anche una piattaforma di lancio per le rotte orbitali esterne al nostro pianeta.

Nel 1894 il fisico e scienziato russo Konstantin Ciolkovskij, si ispirò alla Torre Eiffel per ipotizzare un’analoga struttura capace di raggiungere il limite dell’orbita geostazionaria. Nella sommità della torre, un qualsiasi oggetto in movimento sincrono avrebbe avuto una velocità angolare sufficiente a sfuggire all’attrazione terrestre e a essere lanciato nello spazio. Tuttavia lo stesso Ciolkovskij la ritenne irrealizzabile perché secondo il suo progetto, qualsiasi corpo capace di raggiungere l’altezza di circa 36 000 km, avrebbe dovuto prevedere un diametro di base di centinaia di chilometri. Senza contare il problema del peso e della resistenza del materiale d’uso.

Nel 1957 lo scienziato sovietico Yuri Artsutanov ipotizzò l’uso di un satellite geosincrono come base da cui costruire la torre, nel quale fosse utilizzato un cavo come contrappeso, abbassato dall’orbita geostazionaria fino alla superficie della Terra, mentre il simmetrico sarebbe stato esteso dal satellite allontanandolo dalla Terra, mantenendo il centro di massa del cavo immobile rispetto alla Terra. Insomma una forma sferoide con due lunghissime antenne perpendicolari rispetto a un punto del pianeta terra, ognuna propagantesi in direzione opposta all’altra. 

E qui venne l’altro problema, perché non si conoscevano materiali adatti a produrre cavi lunghi oltre 36.000 chilometri. Nel 1966 quattro ingegneri statunitensi calcolarono che il carico di rottura avrebbe dovuto essere il doppio di quello del diamante.

Nel 1975 lo scienziato americano Jerome Pearson progettò una sezione nastriforme nella quale il cavo completo sarebbe stato più spesso al centro di massa, dove la tensione era maggiore, e sarebbe stato più stretto alle estremità per ridurre la quantità di peso che la parte centrale avrebbe dovuto portare. Egli suggerì di usare un contrappeso che avrebbe dovuto essere esteso lentamente verso l’esterno, fino a 144.000 km (poco più di un terzo della distanza tra Terra e Luna) mentre la sezione inferiore della torre veniva costruita. E pensò che sarebbe stato possibile trasportare parte del materiale usando la torre stessa, non appena un cavo con una minima capacità avesse raggiunto il terreno o avrebbe potuto essere prodotto nello spazio utilizzando minerali lunari o asteroidali.

Dal progetto verosimile di Jerome Pearson, Arthur C. Clarke scrisse questo romanzo nel 1979, in cui gli ingegneri costruiscono un ascensore spaziale sulla cima di un picco montano sulla fittizia isola equatoriale di Taprobane, ispirata al Picco di Adamo nello Sri Lanka.

Anche questo romanzo, come tutti i suoi scritti, sono coerenti, ben strutturati, e corroborati secondo le conoscenze scientifiche a lui contemporanee. Questo romanzo non è fantascientifico per la trama e la possibilità di realizzazione di un’impresa del genere, ma è attualmente irrealizzabile dal punto di vista pratico, sia per i costi previsti sia perché non si hanno materiali così resistenti, anche se dal 1979 ad oggi, grandi passi in avanti sono stati compiuti per realizzare filamenti elastici e resistentissimi.

Il romanzo non è un solo un trattato di ingegneria aerospaziale: si snoda attraverso una storia accaduta realmente millenni fa proprio a Sri Lanka, dove le gesta sono intrecciate con il mito. Lì nella montagna sacra dove Kalidas uccise suo padre divenendo il re, e scacciò il fratello, parte una saga, comune a tante culture, nella quale proseguì la costruzione del palazzo di suo padre fino a toccare il cielo. E ci riuscì per i parametri del tempo, in cui le acque, le strade e l’ingegneria edile compirono un miracolo fino ad allora inaudito. La costruzione, il lago artificiale, i graffiti sulla montagna, le irte e impossibili scalinate e tradotte, riemersero dalla foresta dopo secoli fino ai giorni nostri.

Le vicende percorrono un ritmo parallelo a quello dei protagonisti nel presente, che si intreccia con sprazzi del futuro. Un gradino temporale dopo l’altro, avanti e indietro tra cielo, terra e astri, e il mito. Il presente prosegue un discorso aperto dal passato, mentre il futuro gravita come un satellite geostazionario, rispetto al tentativo dell’umanità di domandare il senso del proprio stare e all’irresistibile tendenza a rendere plausibile la possibilità di oltrepassare il limite.

Le vicende del sogno di un uomo intrecciano le conseguenze degli incubi di un altro, attorno ai desideri e alle paure, nello stupore di ciò che si può realizzare, attraverso la volontà di intendere l’immaginazione: il combustibile primo del viaggio verso l’orizzonte interiore e astrale.

E non da ultimo, come in ogni capolavoro di Arthur C. Clarke, il lettore si sente fisicamente immedesimato nei protagonisti. Si provano le fatiche, il dolore, lo spasimo, la gioia: tutte le tensioni dei personaggi, mentre vivono in ambienti tecnologici per noi impossibili, agendo in ambienti astrali.

Al netto di un elemento fantastico, tutto è di una superba verosimiglianza:  il marchio distintivo di questo gigante della letteratura scientifica e di fantascienza.

§CONSIGLI DI LETTURA: The Martian

The Martian (Crown Publishers, an imprint of the Crown Publishing Group, a division of Random House LLC, a Penguin Random House Company, New York, 2011, tradotto da Tullio Dobner © 2014 Newton Compton editori s.r.l.)

È un romanzo di Andy Weir, dal quale è stato tratto un film di Ridley Scott “The Martian” (2015), in italiano “Sopravvissuto”. Il romanzo narra dell’impresa di un gruppo di astronauti USA nell’intraprendere uno sbarco e un soggiorno su Marte. Accade un imprevisto e cinque componenti dell’equipaggio lasciano su Marte il sesto credendolo morto, l’ingegnere botanico Mark Watney. La trama si sviluppa narrando le vicende di Watney nel tentativo di sopravvivere su Marte, e nel contattare la Terra, affinché lo vengano a riprendere.

È un libro avvincente. Il lettore è risucchiato da un ritmo che avvinghia lo stomaco. Oggettivamente il protagonista è sempre al limite di un disastro. E non può che essere così nell’atmosfera marziana, con poco cibo e con la costante paura di dover tenere in assetto i regolatori di ossigeno, di anidride carbonica, e del calore. Senza contare i problemi causati dalle tempeste di sabbia.

Lo stile è alternato sapientemente dal monologo del novello Ulisse – Robinson Crusoe ai resoconti del diario di bordo, anzi è proprio in essi che il protagonista comunica su due livelli discorsivi. In uno a se stesso e all’altro alla NASA. L’espediente permette ad Andy Weir di variare il registro linguistico che spazia da uno stile amministrativo, allo scientifico ingegneristico, fino a quello colloquiale. Il protagonista e non solo lui, utilizzano modi di dire tipicamente USA, in particolare per gli insulti, le battute, le parolacce. Nella tensione del racconto, quindi, vi sono fasi di rilassamento per i giochi di parole, i riferimenti a serie di telefilm, musiche, vicende sportive che producono un effetto comico. Anche greve.

È un libro che ironizza anche verso le autorità amministrative e scientifiche, ma la sottigliezza delle critiche corrosive, proprio perché nascoste nel linguaggio colloquiale USA, renderebbe di più in una lettura in lingua originale. A latere si nota come in alcuni passi, la traduzione non sia ottimale, perché vi sono errori di coniugazione dei verbi e un uso di termini che facilmente avrebbero potuto essere sostituiti nella lingua italiana. Anche per la costruzione delle frasi volgari e quelle relative ai monologhi interiori. La nostra lingua ha un ampio spazio di registri linguistici atti a permettere la coesistenza di un livello formale e uno volgare all’interno di uno stesso periodo.

All’inizio il libro è impegnativo per color che sono a digiuno di fisica, di ingegneria aerospaziale, di astronautica e di astronomia. Per poter apprezzare la densità concettuale e per distaccarsi dalle immagini del film, per coloro che lo avessero visto preventivamente, è consigliata una lettura lenta e inframmezzata da ricerche, eventualmente in rete web, circa i termini e le sigle utilizzate. È anche una piacevole esperienza per dotarsi di un vocabolario non usuale per la maggior parte di noi. Inoltre il libro fa riferimento a sonde, basi spaziali, robot, satelliti che negli anni sono stati inviati su Marte e sono ancora lì residenti. In più, il protagonista nel cercare di risolvere i problemi che via via appaiono, riflette sulle soluzioni praticate dalle missioni spaziali USA e URSS, poi russe, condotte nei decenni passati, anche con riferimento a stazioni e satelliti attualmente in orbita.

È un libro verosimile. Ed è ingegnoso. La spiegazione dei veicoli da viaggio (i rover), le basi di atterraggio e di soggiorno seguono regole fisiche ed astronomiche coerenti e rigorose. Il lettore può leggere il libro non soffermandosi troppo su questi spunti, ma per chi abbia interesse, tutto ciò è una formidabile occasione della messa in pratica delle leggi della fisica, della chimica, della biologia e del loro impiego nella ingegneria aerospaziale.

Essendo un romanzo di fantascienza vi sono elementi non realistici per noi, infatti è troppo semplice come su Marte il protagonista riesca a muoversi con una gravità minore di quella terrestre sui rover, sulla stazione spaziale, sulle rampe di partenza. Lo stesso discorso vale per l’astronave Hermes, seppure sia dotata di un disco rotante perpendicolare al proprio asse che permette una accelerazione centripeta. La potenza dei motori e la loro tenuta è attualmente ottimistica. In ogni caso, l’esercizio immaginativo è plausibile dal punto di vista scientifico. Le limitazioni sono tecnologiche.

È un romanzo avvincente, comico e tragico nello snodarsi degli eventi, scientificamente e tecnologicamente chiaro, coerente e rigoroso, ma il nucleo dell’opera è famigliare per l’intera umanità: il mito di Ulisse, cioè il nostro inconscio più profondo. 

§CONSIGLI DI LETTURA: I TRE MOSCHETTIERI

TRATTO DA: I tre moschettieri / di Alessandro Dumas ; versione di Angiolo Orvieto. – Napoli : G. Rondinella, 1853. 4 v. ; 16 cm.; vol. 1 216 p., vol 2 216 p., vol 3 180 p., vol. 4 211 p.

***

“I tre moschettieri” (Les trois mousquetaires) è un romanzo d’appendice scritto dal francese Alexandre Dumas con la collaborazione di Auguste Maquet nel 1844 e pubblicato originariamente a puntate sul giornale Le Siècle. È uno dei romanzi più famosi e tradotti della letteratura francese che ha dato inizio ad una trilogia: Vent’anni dopo (1845) e Il visconte di Bragelonne (1850).

I tre moschettieri del titolo sono Athos, Porthos e Aramis, a cui poi si aggiunge il protagonista del romanzo, D’Artagnan.

I “Tre Moschettieri” in questa traduzione del 1853 a cura di Angiolo Orvieto offre un’occasione per comprendere lo spirito dei contemporanei a sognare e a vivere le gesta di questi intrepidi nei primi decenni del 1600 in Francia presso la corte di Re Luigi XIII assieme al cardinale Richelieu.

Il testo nela traduzione in italiano è un ottimo indicatore nel rilevare i termini in lingua italiana “alta” in uso nella prima metà dell’ottocento, quando ancora l’unità d’Italia era in divenire. Vi è una doppia lettura riferita allo stile di Alexander Dumas e a quella del romanzo moderno italiano che proprio in quei decenni Alessandro Manzoni stava tessendo.

La traduzione non è una semplice trascrizione, ma è una vera e propria interpretazione stilistica e produttiva di nuovi stili in prosa nella lingua italiana.

Alexander Dumas scriveva i romanzi a puntate per pubblicarli via via nelle riviste di uscita bisettimanale o mensile. Vi sono ridondanze e richiami tra i capitoli e addirittura tra un romanzo e l’altro. Le riviste costavano poco ed erano facili da stampare e diffondere. Erano grandi faldoni di carta grezza piegati in quattro parti circa, da ritagliare e ricomporre mediante le pagine numerate. Era un lavoro lungo, ma piacevole: si pregustava l’arrivo per posta o la compera nell’edicola, se si abitava nelle grandi città vicino alle tipografie. E si aveva l’idea al tatto e all’odore della consistenza dell’episodio o del racconto. Lo si percepiva nelle proprie braccia, prima ancora degli occhi.

Come nel “Conte di Montecristo”, o nel romanzo “La Sanfelice”, Alexander Dumas è abilissimo a incasellare gli eventi e i personaggi storici con quelli di fantasia, e riesce a presentare scenograficamente gli ambienti e i modi di fare dell’epoca. Le digressioni accompagnano il lettore nello spiegare il modo di agire dei protagonisti, i loro pensieri e i modi di concepire il mondo. E il bello è che noi riusciamo anche a comprendere il modo di sentire e di vivere dei contemporanei dello stesso autore.

Alexander Dumas, massone e repubblicano, filo garibaldino, era abilissimo nel ridicolizzare indirettamente i re, i cardinali, i nobili in tutte le loro piccolezze. Paterno del mostrare le debolezze dei protagonisti con simpatia e talvolta con severità. Aveva una memoria prodigiosa che rendeva leggera la descrizione degli eventi storici passati, i nomi degli strumenti della vita quotidiana e l’organizzazione sociale. Il lettore si sente a suo agio nell’essere guidato nel contesto degli avvenimenti.

I “Tre moschettieri” è un romanzo che è utile leggere oggi perché, oltre a essere un capolavoro e una figura topica del nostro immaginario, prospetta una nuova fonte cui attingere esempi per la nostra capacità di immedesimazione, emulazione, e creatività, in particolare del nostro futuro. I tre moschettieri e D’Artagnan anche  provenendo da classi sociali e storie radicalmente diverse, diventano amici. Vivono assieme, non formano solo un gruppo, ma una vera e propria comunità di apprendimento, e ciò è valido anche per i loro lacchè. Crescono assieme dichiarando le proprie debolezze, cooperando lealmente e a viso aperto.

Nonostante che alcuni di loro fossero già più che adulti per l’epoca, mantengono una disponibilità ad apprendere, giocare, progettare, agire con risolutezza, in modo giovanile, cioè fresco, creativo e innovativo. La lealtà, la comunanza, l’affidamento, costituiscono la spinta per migliorare dal punto di vista morale, relazionale (ed anche economico), nonostante i vizi e le debolezze.

È importante leggere questo romanzo, perché, a differenza dei lettori contemporanei ad Alexander Dumas e ai tempi dei nostri padri, qui in Italia siamo ora un popolo con pochi giovani e con figli unici. La capacità di cooperare e di giocare assieme, accettare gli errori e le ignoranze altrui, per farle proprie nel condividere un comune percorso di apprendimento, non è più scontata. Fratelli e sorelle si alimentano l’un l’altro di creatività, di idee, e di progetti per il futuro, anche improbabili e fantastici e di lì verso il gruppo dei pari.

Oggi non vi sono tanti fratelli e sorelle, e i gruppi dei pari sono asfittici. La chiusura di sé rende povero e pigro il proprio bagaglio emotivo.

I “Tre moschettieri” sono un giardino nel quale è possibile entrare sorridendo nel mirare la bellezza e la mutevolezza dei colori, oltre ai profumi, intensi alcuni e leggeri altri. E da questi rivedere il nostro corpo nel fantasticare nuove immagini di ciò che potremmo essere, che è appunto la spinta naturale di chi è giovane mentre cammina verso il suo futuro.

§CONSIGLI DI LETTURA: La sanfelice

Alexandre Dumas. LA SANFELICE.

Adelphi Edizioni, Milano 1999 (gli Adelphi 144).

Titolo originale: “La San Felice”.

Traduzione di Fabrizio Ascari, Graziella Cillario e Piero Ferrero. Cura editoriale di Emma Bas.

Cura redazionale di Pia Cigala Fulgosi e Stefano Zicari.

Alexandre Dumas era considerato uno scrittore “classico” già prima che i nostri nonni fossero nati. Senza aver letto alcunché delle sue opere, alla fine del 1800, alcuni personaggi dei suoi romanzi erano riconosciuti dai letterati e dal pubblico, archetipi dei tipi e dei comportamenti umani. Si pensi ai “Tre moschettieri” e al “Conte di Montecristo”. Vi sono altri romanzi meno noti, ma incisivi nel delineare tratti universali del nostro animo.

Era uno scrittore dotato di una memoria eccezionale, di una capacità investigativa e di ricerca superlativa e di una creatività inesauribile. In più, oltre a saper descrivere in modo minuzioso il contesto attraverso i dialoghi dei personaggi, caratteristica che discrimina la grandezza di un romanziere, è un antropologo moderno. L’osservazione degli usi, dei costumi, dei tratti fisici delle persone e dei luoghi, è di un livello pari agli etnologi, agli antropologi culturali moderni.

Viaggiò molto, massone e repubblicano. Amico di Giuseppe Garibaldi, fedele ai principi della rivoluzione francese, affine alla visione di Mazzini per una “Giovine Europa”, cementata dalla fratellanza e dalla libertà dei popoli.

“La Sanfelice” parla dei popoli e delle genti dell’Italia del sud. Del Regno delle due Sicilie, e in particolare di Napoli. Alexander Dumas visse a Napoli dal 1860 al 1864 circa, esule dalla Francia, e poi ancora dalla stessa Napoli e dai napoletani. Duramente critico, eppure di loro innamorato. Agì da “ministro dei beni culturali”, adempiendo con scrupolo al suo ufficio.

“La Sanfelice” apparve a puntate sul quotidiano parigino «La Presse» fra il 15 dicembre 1863 e il 3 marzo 1865 – e, con uno scarto di qualche mese (10 maggio 1864 – 28 ottobre 1865), sull’«Indipendente», il giornale che proprio a Napoli Dumas aveva fondato e diretto. Pressoché contemporanea l’edizione in nove volumi di Michel Lévy, Parigi, 1864-1865.

Suo padre partecipò alle guerre napoleoniche in Italia, e qui fu imprigionato per 25 mesi. Recarsi a Napoli fu anche un’occasione di riflessione sulla rivoluzione francese, sulla degradazione dei principi repubblicani per opera di Napoleone, sulle monarchie repressive europee, e in particolare con i Borboni e con gli stessi napoletani, che nel periodo tra il 1798 e il 1799 uccisero e si uccisero tra di loro, in modo che noi diremmo oggi barocco, esagerato, arrivando ad atti cannibalici contro i propri avversari. Un popolo di vinti perenne, tenuto a bada e volutamente diviso dai potenti, timorosi dai suoi scoppi improvvisi di ira, pieni di voluttà di sangue. Vi sono descrizioni truci, quasi da film dell’orrore, purtroppo verosimili.

Di prima lettura sembra che Alexander Dumas abbia scritto “La Sanfelice” per pareggiare il conto nei riguardi di quel regno che già allora era disprezzato per la sua arretratezza dalle coorti europee e dai suoi regnanti. Nel libro vi è una descrizione dei potenti, carica di ironia a tratti. La grandezza di quest’opera emerge dalla capacità di squadernare in modo quasi fotografico l’ambiente e le trame e le piccolezze dei potenti e del popolo.

Sarebbe limitato però fermarsi alla prima impressione, perché vi è anche una esaltazione della generosità degli stessi napoletani e degli altri personaggi del sud d’Italia, anche nel combattere tra di loro. Alexander Dumas l’avverte ed è rispettoso di queste terre, ricche di passato, e in realtà complesse, impossibili da qualificare con sguardi affrettati dai propri pregiudizi.

Fa bene leggere quest’opera perché immedesimandosi nei protagonisti realmente esistiti e in quelli inventati, ma verosimili nelle loro gesta ed azioni, storicamente determinate giorno per giorno, si sentono nel proprio animo, i dolori, le speranze, le paure, lo strazio, l’amore provato. È un romanzo lungo, ma ricco di sentimenti ed emozioni.

Vi è l’onestà intellettuale di comunicare al lettore la veridicità dei fatti storici attraverso i documenti realmente esistenti, e alcuni eventi delle scene, dispiegati attraverso la fantasia dello scrittore. E fu questo il successo iniziale da parte del pubblico, perché si sentiva partecipe di questo appuntamento bisettimanale, e mensile, pari a una telenovela brasiliana per la lunghezza dei mesi, nonostante si sapesse già la fine e la sorte dei protagonisti.

“La Sanfelice” nasce da esigenze personali, politiche, di lavoro ed estetiche, ed è un libro pianificato, e scritto passo passo per 18 mesi, attraverso ricerche storiche correlate, testimonianze e controlli in loco dei luoghi descritti. È una creazione estetica mediante un lavoro da storico e da antropologo. L’autore interviene direttamente nel testo per serrare le fila e precisare al lettore ciò che è scaturito dalle ricerche e dalle sue valutazioni.

Allora ed oggi, il lettore si sente a suo agio e ha fiducia nell’autore, perché mostra senza giri di parole, i suoi intenti e li delimita, permettendo al pubblico, il godimento nell’approccio di lettura.

Alexander Dumas offre un quadro del nostro passato e di quello che ancora di esso abbiamo, da osservatore partecipante, addolorato, critico, ma in fondo innamorato dell’Italia e di Napoli.

“La Sanfelice” è un tesoro cui attingere le tecniche di scrittura dei dialoghi, e della ricchezza nel mostrare l’animo umano, le caratteristiche morali e fisiche delle persone, dei luoghi e le tracce di ricostituzione della nostra memoria inconscia, all’interno di processi storici ben determinati.

Ed è utile per esercitare le capacità di analisi quasi sociologiche. Un esempio tra tutti:

Pgg. 334-35

“[…] Ma a che è dovuta questa differenza fra gli individui e le masse? Perché a volte il soldato fugge al primo colpo di cannone e il bandito muore invece da eroe?

[…]

Ecco i princìpi essenziali:

Il coraggio collettivo è la virtù dei popoli liberi.

Il coraggio individuale è la virtù dei popoli che sono soltanto indipendenti. Quasi tutte le popolazioni di montagna – gli svizzeri, i corsi, gli scozzesi, i siciliani, i montenegrini, gli albanesi, i drusi, i circassi – possono benissimo

fare a meno della libertà, purché si lasci loro l’indipendenza.

Passiamo a spiegare che differenza enorme ci sia fra queste due parole: LIBERTA’

e INDIPENDENZA.

La libertà è la rinuncia da parte di ogni cittadino a una porzione della sua indipendenza per costituirne un fondo comune che si chiama legge.

L’indipendenza è per l’uomo il godimento completo di tutte le sue facoltà, l’appagamento dei suoi desideri. L’uomo libero è l’uomo che vive in società, che sa di poter contare sul suo vicino, il quale a sua volta fa affidamento su di lui. E, essendo disposto a sacrificarsi per gli altri, ha il diritto di esigere che gli altri

si sacrifichino per lui. L’uomo indipendente è l’uomo allo stato naturale. Si fida

soltanto di se stesso. I suoi unici alleati sono la montagna e la foresta. La sua difesa, il fucile e il pugnale. I suoi aiutanti sono la vista e l’udito.

Con gli uomini liberi si costituiscono degli eserciti.

Con gli uomini indipendenti si formano delle bande.

Agli uomini liberi si dice, come Bonaparte alle piramidi: «Serrate le file!».

Agli uomini indipendenti si dice, come Charette (85) a Machecoul: «Divertitevi, figlioli!».

L’uomo libero si leva alla voce del suo re o della sua patria.

L’uomo indipendente si leva alla voce del proprio interesse e della propria pass ione.

L’uomo libero combatte.

L’uomo indipendente uccide.

L’uomo libero dice: «Noi».

L’uomo indipendente dice: «Io».

L’uomo libero è Fraternità.

L’uomo indipendente non è altro che Egoismo.

Ora, nel 1798, i napoletani erano ancora nella fase dell’indipendenza. Non conoscevano né la libertà né la fraternità. Ecco perché furono sconfitti sul campo da to cinque volte meno numeroso del loro.

Ma i contadini delle province napoletane sono sempre stati indipendenti.

Ecco perché, alla voce dei monaci che parlavano in nome di Dio, alla voce del re he parlava in nome della famiglia, e soprattutto alla voce dell’odio che parlava

in nome della cupidigia, del saccheggio e della strage, si sollevarono tutti.

[…]”

Oggi noi potremmo criticare questa divisione così netta, ma quello che interessa osservare è che, in base agli eventi descritti precedentemente, Alexander Dumas fornisce la sua chiave interpretativa nel delineare gli eventi.

Il lettore è coinvolto in prima persona e sente di essere rispettato nella sua intelligenza e nella sua capacità di riflessione.

Alexander Dumas mentre parla del passato della sua famiglia, di sé e delle sue convinzioni, ha la mirabile capacità di costringerci in modo inconscio a guardare a noi stessi, alla nostra storia e a riflettere sul presente di oggi.

§CONSIGLI DI LETTURA: IL CONTE DI MONTECRISTO

Il Conte di Montecristo – Alexandre Dumas Pubblicato su www.booksandbooks.it

Grafica copertina © Mirabilia – www.mirabiliaweb.net

Un capolavoro che ha viaggiato nei secoli. Di tutto è stato scritto per temi comuni dell’animo umano: la vendetta, l’avidità, l’invidia, la brama, la voglia del potere, la disperazione, la compassione, la timida richiesta d’amore.

Il tentativo di scrivere qualcosa di nuovo in merito è a dir poco contraddistinto da una goffa presunzione.

Può essere invece utile approfondire qualche elemento che risulta urticante in questi giorni di isolamento forzato.

Essendo un libro scritto a puntate per le riviste, l’autore richiama gli eventi ad ogni capitolo. I personaggi sono generosamente caratterizzati con un’abbondanza di aggettivi. Frequentemente si ha la sensazione di leggere un copione di teatro in cui l’inizio vi è l’illustrazione della scena da interpretare. Vi è la spasmodica volontà di far percepire i luoghi in carne ed ossa. Con gli strumenti multimediali la lettura è divenuta un accessorio, scarno nella sintassi, perché deputato a riferire immagini, legami, suoni, strutture relazionali. Per noi contemporanei risalta molto di più di un tempo il ritmo narrativo denso e corposo, sovrabbondante di segni e di significati.

Il tema dell’isolamento carcerario è il perno che determina i vettori della trama che si snoda per decenni. Sebbene il protagonista riesca ad evadere dall’antro del Castello d’If, la cella rimane nell’animo, risaldata dal dolore, dalla consapevole disperazione di aver avuto una vita sottratta, da una volontà di vendetta che acquisisce il ruolo di guardiano della gabbia del cuore. L’ossessione di perseguire la restituzione di ottener memoria di ciò che si è stati e del proprio dolore verso i carnefici e quindi verso il mondo, è il motore che snoda gli eventi e i pensieri, energico e inarrestabile, ma vorace dei sentimenti e dei moti emotivi di chi fu violato ed oltraggiato.

Il Conte di Montecristo intraprende un progetto che lo coinvolgerà totalmente per anni e anni quasi a eguagliare quelli di prigionia. Ritorna nei luoghi passati e cerca i protagonisti cari e i suoi carnefici. In più si pone in relazione con i loro figli. Nel libro vi è una simmetria che denota uno stile di contrappasso, perché ogni protagonista nelle fortune e nelle ascese in società, oppure nelle sconfitte, è costretto a negare il suo passato. Ognuno si separa dalle proprie memorie, isolandosi in una gabbia del presente per non vedere ciò che fu e per negare le proprie bugie e le correlative meschine brame.

Il paradigma carcerario è sovrano, perché scandisce gli eventi e orienta il destino dei personaggi. Proprio perché isolate nel carcere delle proprie omissioni, le relazioni assumono parvenze di significati, ambigue come fuochi fatui che esalano da una finestra di una cella.

Il protagonista separa gli antagonisti da se stessi, togliendo anche il loro presente, nel negare le possibilità di poter continuare in quella stasi.

Nel momento in cui si arriva al culmine della perdita di senso tra il passato e il presente, la vita scarnificata mostra la ferita che da sempre lì rimase: incatenata alla lugubre paura dell’oblio.

Il tentativo di uscire dalla caverna fredda dell’odio, comporta il pegno da pagare che è il dolore. Il farmaco che cura è quello che dispera di sé e di tutto. Si rimane nel carcere se si tenta di fuggire da esso, perché la cella del proprio animo è creduta il rifugio sicuro che, però, come una spirale, esige il tracollo della propria dignità.

E alla fine rimane il tentativo di lasciar uscire la propria umanità, attraverso il gigantesco atto eroico della compassione. Atto glorioso che forse attende noi tutti, qui, oggi, in questo carcere mondiale di mascherine e di timore d’abbracciar il cuore altrui.