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§CONSIGLI DI LETTURA: La chiocciola sul pendio



Collana: CIELO STELLATO

Arkadij e Boris Strugackij

“La chiocciola sul pendio” con una postfazione di Boris Strugackij Traduzione di Daniela Liberti

Carbonio Editore – Milano.

Titolo originale Улитка на склоне di Arkadij e Boris Strugackij Copyright © 1966.

Un libro poliedrico scritto a quattro mani dai fratelli Strugackij, in piena epoca sovietica, nel periodo di congiunzione tra le timide aperture di Krusciov con riferimento a una maggiore libertà di espressione in URSS, a quelle di ritorno a un controllo ortodosso di Kruscev. I fratelli Strugackij oltre a leggere e interessarsi di letteratura sempre di più negli anni, fino a intraprendere il mestiere di scrittori, curatori, pubblicisti, studiarono chimica, meccanica, ingegneria. Tale formazione, fu utile nell’uso e nella descrizione dei fenomeni biologici, geologici, chimici, meccanici nei loro libri e in particolare in ambito fantascientifico. L’uso di termini appropriati connotano una estrema verosimiglianza nella loro prosa. Il lettore entra con agio e leggerezza nei loro mondi, anche per l’uso di termini riferiti a strumenti consueti nel vivere quotidiano.

Negli anni, anche per non incombere nella censura e in problemi più pesanti, furono costretti ad un uso metaforico e satirico della loro poetica nel descrivere la realtà in cui erano immersi. Nonostante la loro scoppiettante capacità immaginifica, riescono a rendere la trama lineare. Questo romanzo dovette essere pubblicato all’estero. E il motivo è chiaro: vi è una critica alla burocrazia, all’amministrazione ottusa, alla volontà di controllare ogni aspetto della vita quotidiana, all’insensatezza di fondo in cui si reggono le organizzazioni preposte alla gestione del consenso e del controllo. Ma non sono, però direttamente rivendicativi. Cercano di ironizzare, mostrando le pratiche di ciò che era l’URSS nella quotidiana amministrazione in un modo fantastico, corredato da apparenti nonsense, quasi da richiamare i giochi di parole di Alice nel Paese delle Meraviglie. Scrittori abilissimi nello scrivere variando in diversi registri linguistici, mostrando una inventiva unica.

I due fratelli delineano personaggi che richiamano le caratteristiche delle leggende e delle fiabe russe, affinché il tema del “fantastico” sia un motore che avvia le scene, con luoghi topici delle favole come la foresta, la baita, la casa, la via, i funghi, gli animali della notte, i nani, le anime gloriose. La metafora degli spiriti nella cultura russa. Gli eventi sono descritti con aggettivi doppi e tripli, dove ognuno svolge la funzione dell’altro, sicché le persone diventano la loro funzione: l’origliatore, lo zoppo, il muto, pugnolesto, l’anziano, il giallo. E oltre alla predicazione vi è anche una relazione di attribuzione. Colori, forme, suoni, odori e posture assumono di volta in volta la funzione di predicato e la funzione di soggetto. Le descrizioni sono discendenti, gonfie, sovrabbondanti, ma nel ritmo della scrittura, come in una danza, tutto si tiene. Vi è un equilibrio nei dialoghi e nel ritmo. Tale iper caratterizzazione fornisce una visione fisica dei luoghi, degli eventi e si entra nella psicologia dei personaggi. E poiché questo è un mondo surreale, con frasi ossessive e deliranti da parte dei protagonisti, l’esplosione dei predicati verbali e nominali, per converso forniscono una logica coerente per accedere nel caos mentale dei protagonisti.

Ogni mania assume la veste di un patronimico russo dei protagonisti. Una propria carta di identità. La scansione veloce degli eventi permette al lettore di non disorientarsi e di seguire ogni scena avendo bene in chiaro l’insieme degli spazi immaginari e irreali. I luoghi come il canneto, la foresta, il villaggio, la distesa d’erba, i funghi, le radure dei morti viventi, assumono anche una funzione mitica. Come se si fosse dentro una Odissea con Ulisse che va da Circe e da Polifemo. Una prosa brillante, pazzoide, satirica eppure coerente, agile, fresca, ironica. E si avverte subito tra un registro fiabesco, mitico, fantascientifico, allegorico, satirico, d’avventura l’attacco contro l’amministrazione sovietica, nella veste della rigidità, del controllo, nell’illogicità a eseguire procedure emanate e scritte altrove, con logiche misteriose, esterne, formali, senza un riscontro immediato.

I dialoghi così serrati e veloci ma densi di immagini e di descrizioni, sono così ben scanditi da seguire passi di danza tra una domanda e una risposta dei dialoganti. E tra l’incomprensione reciproca, il conflitto, le litigate, il gioco dei termini omonimi e sinonimi, gli slittamenti semantici, si dispiega pian piano la trama, seminando per il lettore indizi su ciò che avverrà.

Una poetica avvincente per adulti e lettori molto giovani. L’assurdo come normalità, vestito di una involontaria ironia.

§CONSIGLI DI LETTURA: Embassytown

Un’avventura dei popoli e del linguaggio

In un futuro remoto, gli esseri umani si sono spinti ai confini dell’universo colonizzando il pianeta Arieka. Qui i rapporti tra gli uomini e il popolo degli Ariekei, custode di una lingua misteriosa. Avice Benner Cho non è in grado di parlare la lingua degli Ariekei, eppure in qualche modo ne rappresenta una parte: lei, come alcuni esseri umani, è utilizzata dagli indigeni come una “similitudine vivente”, necessaria alla formulazione di concetti altrimenti inesprimibili.

“[…] «le parole non possono considerarsi davvero dei referenti. Ecco la vera tragedia della lingua. Gli sforzi asintotici per ordinarle in una frase compiuta non sono niente a confronto.» […]”

La lingua degli Arekei è generata da due apparati di fonazione che producono rispettivamente l‘inciso e l’eco e per loro chi parla con una sola voce è automaticamente escluso dal computo delle creature dotate di intelligenza e in grado di esprimersi. È una lingua totalmente empirica, nel senso che qualsiasi oggetto o elemento di un loro discorso è visibile e afferrabile. Deve essere indicato. Tale caratteristica implica l’impossibilità di mentire, ovvero un insieme di dati non immediatamente verificabili. Ovviamente gli umani in quanto specie non possono essere calcolati come creature senzienti, fatta eccezione per gli «ambasciatori», cloni appositamente creati di due individui che parlavano all’unisono, ma in quanto unità simbiotiche.

“[…] Per gli umani, l’aggettivo rosso non comunica niente di per sé: a esprimere il colore è la combinazione dei fonemi che compongono la parola. Funziona così, sia che a dirlo sia io, Scile, uno Shur’asi o un programma irrazionale che non conosce il significato di ciò che articola in maniera meccanica. Questa regola non vale per gli Ariekei. Il loro linguaggio è costituito da un insieme di rumori organizzati, così come lo è anche la nostra lingua, ma per questi indigeni ogni parola funge da imbuto: per noi le parole significano qualcosa, mentre loro le ritengono un semplice mezzo attraverso il quale il suono dischiude al pensiero le porte per accedere al suo referente. «Se programmo il mio traduttore per pronunciare una parola in anglo-ubiq, tu sei in grado di capirla» disse. «Eppure, se faccio lo stesso con la Lingua degli Ariekei, l’unico a capirla sono io. Per loro è solo un suono privo di senso, perché, per significare qualcosa, deve essere prodotto da una mente pensante.»

 […]”

Significante e significato costituiscono una relazione univoca che impedisce di immaginare una serie di forme inesistenti di reale. Quando a comunicare con loro appare per la prima volta un ambasciatore proveniente da Bremen – il pianeta dal quale Embassytown dipende – e non dalla comunità umana su Arieka, il delicato equilibrio sul quale si fonda la convivenza tra umani e Ariekei si spezza.

“[…] Scollegate dai loro relativi significati, le falsità non erano altro che rumori prodotti dagli stessi mentitori, una testimonianza della pigrizia biologica: se fosse stato possibile descrivere soltanto la realtà, a cosa mai sarebbe servito saperla discernere dal suo opposto? Ogni cosa sarebbe stata davvero come da definizione? Nonostante un simile deficit adattivo (non erano predisposti a mentire), gli Ospiti riuscivano lo stesso a capire un enunciato falso. O ci credevano (credere era un dato di fatto privo di senso), oppure, quando la falsità era appariscente, la vivevano come qualcosa di impossibile e frastornante, un enunciato impensabile.

[…]”

“[…] «Vogliamo essere noi a decidere cosa ascoltare, come vivere, cosa dire, con chi parlare, come comportarci e a chi obbedire. Vogliamo che la nostra lingua torni a essere nostra.».

Erano infastiditi dalla loro dipendenza alla nuova droga e dalla loro incapacità a disobbedire. Di sicuro, non era l’unico gruppo segreto ad avvertire un simile fastidio, ma questo combaciava con ciò che desideravano da sempre: sforzarsi di mentire era direttamente collegato al desiderio di dare alla Lingua qualunque significato volessero. Quell’antico bisogno sembrò spingerli a odiare la loro nuova condizione e in maniera ancora più violenta di qualsiasi altro alieno cosciente.

[…]”

La lettura del libro non è banale: fino alla fine della terza parte, vi sono capitoli denominati «Ricordo recente» e «Ricordo datato», e poi seguono le sezioni. Intorno ad Embassytown esiste un universo denominato <Immer> (il sempre) e tale città dipende da Bremen, i cui rapporti non sono pacifici.

È un libro ambizioso che spinge a indossare nuovi occhiali nell’uso del linguaggio e della nozione stessa dei significati e dei soggetti parlanti, in particolare se tra di loro sono all’inizio in uno stato di oggettiva incomunicabilità.

“[…] gli Assurdi hanno imparato a esprimersi come noi. Gli Ariekei in questa stanza vogliono che gli insegniamo a mentire e questo significa pensare al mondo secondo una prospettiva diversa. Nessun referente, ma soltanto significanti. Lo ritenevo impossibile. Eppure, guarda.» Puntai il dito verso la creatura che voleva uccidermi. «Ecco cosa hanno fatto. Ogni volta che indicano, significano qualcosa. Seguendo una strada del genere lo scotto da pagare è davvero troppo alto, ma adesso sappiamo che questi alieni sono in grado di farlo. Insegnare loro tutto questo senza strappargli le ali equivale a insegnargli a mentire.»

[…]”

“[…] «Le similitudini sono una scappatoia. Una via d’uscita che parte da un referente e arriva a un significante. Solo questo. Eppure, sappiamo di poterli spingere a continuare, un passo alla volta, fino alla fine.» Io stessa mi chiarii le idee parlando. «Dobbiamo condurli dove il significato letterale diventa…» feci una pausa. «Qualcos’altro. Se noi similitudini funzioneremo al meglio, ci trasformeremo in qualcos’altro, poiché il miglior modo di cui disponiamo per rappresentare il vero passa attraverso la falsità.»

  Avrei voluto spiegargli che non era affatto un paradosso, né un controsenso. «Non voglio più essere una similitudine» esclamai. «Voglio diventare una metafora.»

[…]”

Questo libro è un tentativo ambizioso di utilizzare il “Bizzarro Finction” (che è estrema ed esagerata) con la scrittura “Fantasy”, mantenendo però una coerenza verosimigliante in termini di ambienti, tecnologie e logiche politiche. In più, pone nuove sfide nell’uso del linguaggio e anzi nel modo stesso di intenderlo.

 “[…] Le loro menti divennero improvvisamente simili a dei mercanti: come il denaro, le metafore avevano un valore incommensurabile. Adesso potevano diventare dei mitologi, studiosi di una realtà un tempo priva di mostri ma ora affollata di chimere; ogni metafora era un collegamento.

[…]”

“[…] Ballerina aveva ormai imparato che poteva esprimersi anche senza parole, l’Assurdo invece aveva appreso non solo di poter parlare, ma anche di ascoltare.

[…]”

E il lettore qui, ascolta leggendo.