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§CONSIGLI DI LETTURA: L’UOMO CHE METTEVA ORDINE AL MONDO

Ove: nostra nemesi e nostro specchio

Fredrik Backman L’uomo che metteva in ordine il mondo.

 Traduzione di Anna Airoldi, 2014, Mondadori.

È un romanzo che induce a piangere commossi e a ridere a crepapelle nello stesso istante: alterna gli stili comici e tragici riguardo al protagonista antipatico e ombroso, ma da tutti voluto per risolvere problemi, data la sua assurda e tenace coerenza.

Si piange e si ride, perché nel corso delle pagine, si avverte la sensazione che anche noi potremmo incontrare il protagonista davanti allo specchio

Pgg. 1-2 “[…] Ove ha 59 anni. Guida una Saab. La gente lo chiama “un vicino amaro come una medicina” e in effetti lui ce l’ha un po’ con tutti nel quartiere: con chi parcheggia l’auto fuori dagli spazi appositi, con chi sbaglia a fare la differenziata, con la tizia che gira con i tacchi alti e un ridicolo cagnolino al guinzaglio, con il gatto spelacchiato che continua a fare la pipì davanti a casa sua.

Ogni mattina alle 6.30 Ove si alza e, dopo aver controllato che i termosifoni non stiano sprecando calore, va a fare la sua ispezione poliziesca nel quartiere. Ogni giorno si assicura che le regole siano rispettate. Eppure qualcosa nella sua vita sembra sfuggire all’ordine, non trovare il posto giusto. […]”

Ove sente di avere tutti contro: i vicini, gli oggetti, la strada. Vuole il controllo perfetto anche del proprio suicidio, in un vortice dove tutto è disprezzato, perché disturba la propria memoria, i propri valori e illusioni.

Pag. 17 “[…] “Sarà bello prendersela un po’ comoda” gli hanno detto ieri al lavoro. Sono entrati nel suo ufficio un lunedì pomeriggio e hanno spiegato che non avevano voluto affrontare la questione di venerdì perché “non volevano rovinargli il fine settimana”. “Vedrà che bello potersela prendere con più calma” hanno detto. Ma che cosa ne sanno loro di cosa significhi svegliarsi un martedì mattina e non avere più una funzione? Loro, con il loro Internètt e i loro caffè espressi, che cosa ne sanno dell’assumersi le proprie responsabilità? Ove guarda il soffitto. Strizza le palpebre. È importante che il gancio sia bene al centro, decide. […]”

Per ammissione dello stesso autore, lo stile non è che sia eccelso, e purtroppo anche la traduzione a tratti, è a dir poco disordinata. Lo stile però è coinvolgente: passa in uno stesso periodo da un tono serioso così esagerato da indurre il lettore a ridere senza controllo, per attirarlo subito dopo in profonde malinconie.

Pag. 30 “[…] Era ancora lì quando è tornato dall’ispezione. Ove lo ha guardato. Il gatto ha guardato Ove. Ove lo ha minacciato con un dito e gli ha intimato di andarsene con tale impeto che la sua voce è rimbalzata tra le case come una palla da tennis impazzita. Il gatto è rimasto a fissare Ove per qualche altro istante. Poi si è alzato con fare estremamente pomposo, come se volesse sottolineare che non se ne andava perché gliel’aveva ordinato Ove, ma perché aveva di meglio da fare, ed è scomparso dietro l’angolo della rimessa.  […]”

Lui era un uomo in bianco e nero, mentre sua moglie era il colore. Tutto il suo colore.

Ove sosteneva che la gente vuole essere quello che dice, ma era invece convinto che ognuno è quello che fa, come deve essere e nel modo corretto.

Arriva a un punto della sua vita in cui non percepisce più la sua funzione e si sente abbandonato dalla moglie perché deceduta, dal suo ex amico con cui litigò e continuò a litigare per anni. La rabbia alla fine è contro se stessi. Si litiga per mantenere memoria di sé.

Pag. 220 “[…] Forse il dolore per i figli che non erano arrivati avrebbe dovuto riavvicinarli. Ma il dolore è infido: se non viene condiviso, è capace di separare profondamente le persone. Era possibile che Ove non riuscisse a riconciliarsi con Rune perché, dopotutto, Rune un figlio l’aveva avuto, anche se ormai non sapeva quasi dove fosse. E forse Rune non riusciva a far pace con Ove perché quell’invidia sotterranea lo metteva a disagio. Forse, nessuno dei due riusciva a perdonare se stesso per non aver saputo dare alla donna che amava ciò che desiderava davvero. Così, il figlio di Rune e Anita era diventato adulto, tagliando la corda alla prima occasione, e Rune era andato a comprarsi una di quelle BMW sportive, in cui c’è spazio solo per due persone e una borsetta. «Perché ormai siamo solo io e Anita» aveva detto a Sonja un giorno che si erano incontrati nel parcheggio. «Non si può mica guidare Volvo tutta la vita» aveva continuato con un sorriso sghembo, nascondendo le lacrime. Quando Sonja gliel’aveva raccontato, Ove aveva capito che una parte di Rune si era arresa per sempre. Forse era soprattutto per questo che Ove non lo aveva mai perdonato, e che Rune, in fondo, non aveva mai perdonato se stesso. Certa gente credeva che emozioni e automobili non avessero niente in comune. Ma si sbagliava di grosso. […]”

Ove vive in una routine, perché gli eventi traumatici non se ne vanno, e quindi vuole incorporarli e renderli sua realtà. Vi è però una eccedenza indomabile di dolore e di bellezza che trascende il proprio vivere personale. La realtà arriva in faccia senza avvertire con il biglietto da visita del tempo. Sempre limitato e in scadenza.

Pag. 293  “[…] La morte è una cosa curiosa. Viviamo tutta la vita come se non esistesse, ma il più delle volte è una delle ragioni in assoluto più importanti per vivere. Alcuni di noi ne diventano consapevoli così in fretta che vivono più intensamente, più ostinatamente, e in maniera più furiosa. Altri necessitano della sua costante presenza per sentirsi vivi. Altri ancora finiscono per accomodarsi nella sua sala d’attesa molto tempo prima che lei abbia annunciato il suo arrivo. La temiamo, eppure la gran parte di noi teme soprattutto l’eventualità che colpisca qualcun altro, qualcuno a cui vogliamo bene. Perché la più grande paura legata alla morte è che ci passi accanto. Che si prenda chi amiamo. E che ci lasci soli.[…]”

Tutto ciò vale anche per i suoi rumorosi, sgangherati e invasivi vicini che lo coinvolgono negli episodi più assurdi, boicottando indirettamente i suoi goffi tentativi di suicidio.

Una menzione particolare va ai due alter ego di Ove: il gatto Ernesto e il gatto spelacchiato. Le gesta di questi due felini valgono l’immediata lettura del romanzo.

Si piange e si ride per ognuno dei protagonisti.

§CONSIGLI DI LETTURA: KARIN BERGOO. L’ARTISTA CHE MODELLA IL FUTURO

Karin Bergöö Larsson, fotografata attorno al 1882

La vita e la creatività di Karin Bergoo attraverso i quadri di suo marito Carl Larsson. La donna che ha concepito una nuova estetica della famiglia.

Consiglio di leggere l’opera di Karin Bergöö 83 ottobre 1859, Örebro, Svezia – 18 febbraio 1928, Fogdö parish) attraverso i quadri di suo marito Carl Larsson (28 maggio 1853, Stoccolma – 22 gennaio 1919, Falun, Svezia): fu un pittore e ritrattista famoso per la pittura della tecnica ad acquerello, adattata anche per le nuove forme di stampa che si approssimavano alla fine del 1800 e agli inizi del 1900. Versatile e innovativo nel dipingere su tele di diverse dimensioni, denso di immagini innestate in sequenze che furono poi dilaganti per tutto il secolo nei cartelloni, nei calendari e nei fumetti.

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Carl Larsson ritraeva principalmente tratti di vita quotidiana e famigliare. I soggetti erano la moglie Karin,  i figli e la casa dove risiedettero dopo un anno di matrimonio e di ritorno da Parigi, nel piccolo villaggio svedese di Sundborn, presso Falun. L’umorismo e la leggerezza erano i tratti distintivi del suo estro pittorico. La moglie nella storiografia e nell’opinione comune è ricordata come una madre di sette figli energica, dotata di capacità organizzative notevoli, anche nel seguire l’educazione e la formazione della prole in modo avanzato assieme al marito.

Di solito è scritto quasi sempre in una o due righe, che anche Karin Bergöö fu una pittrice e studentessa dell’Accademia Reale delle belle Arti, versatile per il suo estro artigianale e di arredamento. I testi degli ultimi due decenni,  mostrano invece l’influenza fondamentale che ebbe per il design e lo stile architettonico da interni per la Svezia, e successivamente per tutti i paesi del nord Europa.

Soggiorno
Poltrona per la lettura
Sedia da giardino

Verrebbe da pensare al detto ipocrita e omissivo “Dietro un grande uomo vi è una grande donna”. Carl Larsson per il contesto del periodo in cui visse, fu un uomo che oggi diremmo “femminista” e non tanto nei proclami, quanto nella vita quotidiana nel condividere tempo e lavoro con la moglie per la cura dei figli e della casa e nel dialogare tra pari in termini di arte, di produzione artistica, di creazione di manufatti utili per il quotidiano, e per l’educazione da impartire alla prole. Non basta però, la benevolenza di un singolo uomo. Sebbene Karin Bergöö fosse figlia di una famiglia agiata e di larghe vedute, che permisero a lei di studiare e di intraprendere anche l’attività di pittrice, gli spazi di autonomia economica e del diritto erano ben lontani rispetto alle prerogative maschili.

In altri termini: “Dietro un grande o normo uomo, vi è accanto una donna che è costretta a mantenere un passo indietro”.

Karin Bergöö concepì e realizzò nuovi modelli intimi e abiti per i propri figli e le figlie. Agili, funzionali per la vita all’aria aperta, e per i lavori e le attività quotidiane. Comodi ed eleganti in particolar modo per le figlie. E con lo stesso impegno si cimentò per vestiti più formali, anche per sé e suo marito che li raffigurò nei suoi dipinti con le sue famose scene di vita domestica.

Carl Larsson https://www.tuttartpitturasculturapoesiamusica.com

Dipinto di Carl Larsson del 1912 di suo figlio che studia. I vestiti e i mobili furono disegnati e realizzati da Karin.

Vi è un tema però che è lasciato solitamente nello sfondo: l’infanzia e l’adolescenza sono allungate e i figli sono considerati soggetti autonomi nel leggere, nel giocare, nello scoprire la natura con il gioco e lo studio. Vi sono scene in cui mangiano all’aperto su tavoli allestiti fuori casa, e anche nei pic nic, vestiti in modo elegante. Vi sono indumenti di mezza stagione per le passeggiate, per le letture, e quelli sportivi. Vi è una idea dell’adolescenza e della crescita che stava prendendo piede tra la fine dell’ottocento e all’inizio del novecento, come quella di Maria Montessori, per la quale il bimbo costruisce l’adulto dentro di sé e quindi è già un soggetto degno di rispetto nell’intendere con estrema serietà le sue attività quotidiane.

I vestiti ampi, chiari, multicolore, variabili nello stile in base all’età dei giovani e degli adulti, furono presi a modello dalla borghesia Nord Europea. Eleganza e leggerezza.

Figli in lettura nel giardino in estate, del 1916 di Carl Larsson.

Karin Bergöö progettò sedie, tavoli, armadi, seggiole, letti, con materiali poveri e di qualità con uno stile completamente diverso rispetto a quello tipico svedese che era plumbeo, monotono, grigio e marrone scuro. La comodità, la leggerezza e l’esplosione dei colori nella essenzialità e semplicità delle forme, furono gli indicatori che mutarono radicalmente lo stile del design svedese che si propagò poi in tutto il Nord Europa.

Emerge una fusione dell’arte giapponese e degli stili modulari inglesi e in questi lei elaborò trame astratte per le tende, per decorare gli armadi, i divani, le poltrone, immettendole in forme curve di Art Noveau.

Lei cambiò l’idea dello spazio domestico: assieme al marito, ad esempio, tolsero le tende e alcune pareti divisorie nel soggiorno, per porre nel centro un piano rialzato, confinandolo con la mobilia. E lì ci si poteva riposare o mangiare, lasciando i quadranti esterni per altre attività, concedendo una intimità nuova in cui la casa diveniva un luogo in cui moltiplicare le attività ricreative e di riposo, e il tutto mantenendo giochi di luce, tal, da non creare zone di ombra aggiuntive.

Karin Bergöö ha inteso il suo vivere in una espressione artistica che ha definito una nuova sociologia della famiglia, e ha perfezionato nella pratica quotidiana le nuove proposte pedagogiche del periodo. Cambiò il rapporto tra il dentro e il fuori, tra il domestico e il pubblico. Le attività fino ad allora reputate non degne di nota dal punto di vista della cronaca e dell’arte, divengono il soggetto principale che è la fonte di nuovi modelli del vivere nel mondo, e di nuove concezioni nell’elaborare manufatti.

Lei dipinse pochissimi quadri rispetto al marito, ed è ovvio: aveva più incombenze quotidiane. Inoltre la società svedese dell’epoca non è che fosse così aperta ad accettare una imprenditrice e artista autonoma.

Carl Larsson è famoso per aver ritratto la sua vita famigliare, e si sorvola sull’elemento sotterraneo: il mondo ritratto fu CREATO da Karin Bergöö. Non solo come mera organizzazione dei tempi e degli spazi, non solo per aver ampliato uno stile e un’anima artistica alla casa, alla natura e agli ambienti sociali circostanti, e non solo per aver determinato nuove scansioni sociali dell’infanzia e dell’adolescenza. No. Non solo questo. Lei ha anticipato il futuro. Noi, vedendo queste scene di vita, abbiamo una sensazione di felice nostalgia e di famigliarità. Non può che essere così, perché l’opera di Karin, certamente non l’unica, è un puntello della visione del mondo a noi contemporaneo.

Qui vi è un doppio inganno che è anche patrimonio dell’opera d’arte. Il pubblico che vede queste opere ritratte da Carl Larsson, sono dipinte, scolpite, cucite, segate, levigate da Karin Bergöö. Non sono dolci e infantili segni del passato che più non è, rispetto a una natura quasi edenica.

La natura dei boschi, dei giardini, dell’armonia che per noi sembra perduta, è invece una creazione nuova dell’uomo, anzi della donna contemporanea, che emerge in autonomia nei fatti, nella visione, nelle creazioni artigianali ed artistiche. È una visione estetica futura, a NOI contemporanea. La borghesia alfabetizzata, industriale nella suddivisione degli spazi e del tempo, nella concezione progressiva e sovrabbondante delle fasi di crescita.

L’estetica fornita da Karin Bergöö è subita da Carl Larsson nelle sue composizioni che mostrano un ambiente che poi divenne popolare nei fumetti, nei dipinti, nella formazione primaria di tutto il novecento. La fantasia e l’immaginazione di intere generazioni hanno attinto estro e creatività da questi luoghi, per comunicare immagini di sé che sono il tesoro della nostra crescita d’infanzia e delle età adulte.

Lei, vivendo, ha creato un futuro, che noi non approfondiamo e non riconosciamo, perché ne siamo totalmente immersi: è il nostro presente: l’apparentemente leggera apertura alla varietà delle forme del mondo con le quali noi riconosciamo il nostro corpo, come spazio di relazione di apprendimento nel gioco e nella individuazione delle future immagini di sé.

Lei è la testimone di una nuova estetica nel determinare le interazioni sociali all’interno dei processi di crescita in un mondo in fase di costruzione, dove lo spazio privato e lo spazio pubblico, ampliano le loro reti di significato in un contesto per noi contemporaneo.

§CONSIGLI DI LETTURA: LE GUERRE DI MUSSOLINI. DAL TRIONFO ALLA CADUTA

John Gooch Le guerre di Mussolini dal trionfo alla caduta Le imprese militari e le disfatte dell’Italia fascista, dall’invasione dell’Abissinia all’arresto del duce.

Titolo originale: Mussolini’s War. Fascist Italy from Triumph to Catastrophe, 1935-43 Original English language edition first published by Penguin Books Ltd, London Copyright © John Gooch, 2019 The author and illustrator have asserted their moral rights All rights reserved Traduzione dall’inglese di Marzio Petrolo, Micol Cerato, Cecilia Pirovano Prima edizione ebook: settembre 2020 © 2020 Newton Compton editori s.r.l., Roma

Il libro di John Gooch offre una ricca bibliografia riferita agli attori istituzionali implicati nelle vicende delle guerre d’Italia durante il periodo del fascismo. Un puntuale resoconto storico che snoda le fasi di preparazione, di inizio, di svolgimento e fine dei conflitti. Passa dal livello di diario, a quello di lettera, al riassunto di una riunione, al dispaccio, e alle riflessioni scaturite dalla lettura dei documenti storici che negli anni si rivelavano dopo la seconda guerra mondiale.

È utilissimo nell’approfondire il fascismo nella sua organizzazione militare ed istituzionale che pervadeva l’intera società italiana. Vi sono motivi storici per la rimozione di ciò che l’Italia e gli italiani furono in quegli anni nella messa in campo della politica coloniale, nelle repressioni interne, nella povertà, nel relativo miglioramento e progresso dovuto allo sviluppo tecnologico, e al lento ma continuo processo di alfabetizzazione, accompagnato da una limitazione ideologica e repressiva della libera ricerca e del libero pensiero. E ancora di più, nella nostra inclinazione ad abbandonare l’alleato di un’ora prima, per abbracciare il più forte che emerge nella contingenza.

Nel libro risultano tendenze di lungo periodo di noi italiani nella mancanza di organizzazione e della improvvisazione che si legano a una notevole creatività, associata però alla negazione della realtà dei fatti e dei propri limiti, per ottenere il consenso basato sulla suggestione, sulla bugia, sul plauso e sulla teatralità. Prevale in modo strutturale l’impreparazione, il clientelismo deleterio che premia figure analfabete, inadeguate, criminali e meschine. Sia chiaro: l’opera Benito Mussolini nell’accentrare il potere, inibire il coordinamento tra i vari corpi militari e nel disattendere i piani e i consigli preparati dai tecnici, dagli economisti, dai pochi generali valenti e onesti intellettualmente che lo criticavano nelle sue scelte portando argomenti chiari e coerenti, non è giustificata. No. Anzi: lui e l’apparato sono ancora più responsabili di aver portato a morire decine di migliaia di giovani consapevolmente e di averli lasciati allo sbaraglio senza armi, vettovaglie e indumenti.

La figura di Benito Mussolini risulta completamente inadeguata, limitata, folle nell’intendere la guerra, la tattica, la strategia. Considerando il contesto italiano deficitario di materie prime e di fattori di produzione siderurgici in una strutturale dipendenza dai capitali esteri, emerge l’ineludibile tendenza a finire nelle braccia della Germania durante il corso della guerra. Braccia velenose e crudeli.

Come in ogni guerra, in uno stesso esercito o battaglione vi sono atti di crudeltà e di orrore, assieme a quelli di eroismo, umanità e di fraterna compassione anche per i civili. Nel libro è descritta passo passo la nostra responsabilità, censurata nella memoria collettiva, della guerra di Spagna: fummo risoluti nella letalità e nella crudeltà, come nella guerra d’Etiopia. Nonostante tutto, però, a molti generali e alti funzionari delle istituzioni governative, fu chiaro che non eravamo in grado di sostenere una guerra contro le forze imperiali. Nel libro è trattata in parallelo l’invasione delle Jugoslavia, della Grecia e dell’Albania. E in ognuna di queste tragedie emerse rispettivamente l’orrore che compimmo, la valida resistenza dei greci e la nostra impreparazione che ci obbligò a richiedere l’aiuto della Germania. Fu l’inizio della fine che fu anche declinata nella ridicola invasione in Francia; ridotta a una serie di scaramucce nei confini, che causarono una seconda richiesta di aiuto alla Germania. Vi sono preziose pagine relative alla preparazione e alla conduzione della “gloriosa” campagna in URSS. Il disastro consapevolmente voluto.

I militari italiani al netto dell’impreparazione organizzativa e logistica di queste campagne di guerra, furono simbolicamente fucilati alle spalle dai generali; descritti uno per uno. Nonostante tutto, alcuni reparti delle forze armate italiane furono ammirati e rispettati sia dai tedeschi, come Rommel, sia dagli inglesi, in particolare gli alpini e i bersaglieri che combatterono con il nulla che avevano a disposizione.

Vi sono anche le descrizioni dettagliate degli scontri tra i croati e i serbi e tra questi, tra i cetnici, i repubblicani, i comunisti, i musulmani, gli albanesi, i kosovari e i montenegrini. Non furono   da meno anche loro nelle azioni crudeli. I fattori di quei conflitti sono utili a comprendere le instabilità politiche del presente in Europa.

È un libro veramente storico: una miniera per comprendere oggi e ieri, indirettamente anche prima del fascismo. L’autoritarismo. La formalità stucchevole e polverosa, quasi tenue che nasconde però il disprezzo totale per il popolo. Una nazione di mentalità signorile che tende ad accentrare il potere in pochi cooptati per la benevolenza da parte dei potenti, e che tiene il controllo verso i cittadini con un paternalismo a gocce da una parte e da una fredda autorità verso i sottoposti. Una mentalità signorile che fa la voce grossa con i più deboli, ma pronta a riverire chiunque gli si mostri di poco più forte. Compiacente verso il miglior offerente in modo sciatto, meschino, goffo e assurdamente controproducente.

Forse sono caratteristiche che si possono ritrovare ancor oggi.

È sorprendente come i pochi generali, nell’aderire al fascismo e alle sue caratteristiche più oscure, alla fine mostrando anche un amor proprio per sé e per la patria, opponendosi alla sciatteria guascona del regime e dello stesso Benito Mussolini, fossero rimossi immediatamente, inascoltati dai loro colleghi, i quali mostrarono un atteggiamento meschino e rivoltante nell’evitare le proprie responsabilità, accusando i propri sottoposti.

Leggendo questo lavoro imponente si prova vergogna per ciò che siamo stati, e compassione per le donne e gli uomini traditi e mandati allo sbaraglio. Un paese che uccide i propri figli e che nega una visione strategica per le generazioni future. E forse anche queste sono caratteristiche attuali.

Un libro di altissimo livello storico che, oltre a fornire un quadro a tutto campo delle relazioni sottostanti al fascismo durante la guerra, offre specchi caleidoscopici nel futuro, cioè nel nostro presente.

§CONSIGLI DI LETTURA: vita e destino

Uno struggente, continuo, poetico inno alla vita

È motivo di imbarazzo la volontà di scrivere qualche riflessione su “Vita e destino” di Vasilij Grossman nella ristampa del 2008, Gli Adelphi, Milano. Semplicemente: è un capolavoro monumentale. È un viaggio nell’animo umano: di ciò che più intimo abbiamo nello splendore e nella dignità del vivere di ognuno e del suo morire. In questo libro vi è la compassione, l’amore, l’odio, la bassezza e la meschinità, la crudeltà, l’assassinio voluto e progettato, l’orrore, il razzismo, la guerra, i lager, i gulag, la fame, la malattia, la speranza, la dolcezza, la voglia di amare se stessi, i propri cari, i figli e le figlie.

Fu terminato nei primi anni sessanta del secolo scorso. Vasilij Grossman combatté a Stalingrado durante la seconda guerra mondiale. Fu un giornalista, un saggista, un romanziere, un lettore attento dell’animo umano, un esperto di politica, e, per le sue esperienze, un profondo conoscitore della guerra e dell’oppressione. Scrisse diari e libri sulle vittime per opera dei tedeschi in URSS. Ebbe una lunga gavetta dura di sangue e di letture, di vita e di morte. Padroneggiava gli stili dello scrivere. Profondo conoscitore della letteratura russa e, nelle pieghe della censura sovietica, anche di quella degli altri paesi.

Il libro fu censurato dall’Urss e anche da noi, qui in Occidente. Da colui che visse Stalingrado, prima della guerra e dopo, e la censura di Stalin e di Krusciov. Si sente la Russia che è prima e continua a esserci nell’URSS. La Russia che non è solo dei russi, ma dei popoli che lì dimoravano nelle pianure infinite. Riformula continuamente la nozione di popolo, di epica, e della madre Russia. Non a caso è stato definito il libro che segue “Guerra e Pace” di Tolstoj, che in realtà il titolo dovrebbe essere “Guerra e vita”. Un libro imbarazzante per il mito del cuore del popolo russo e anche del nostro, di noi (non gli italiani, perché combattevamo con i tedeschi) alleati. Colpevoli di aver chiuso gli occhi sui lager e anche sulle epurazioni che dopo la guerra l’URSS intraprese contro coloro che professavano la religione ebraica.

Vasilij Grossman è consapevole che il processo storico sociale del nazismo non può essere semplicemente equiparato a quello del comunismo, ma, a costo di rischiare la vita o di finire povero e isolato (e ciò accadde, dopo i fasti e gli onori per le sue attività di guerra e di scrittura durante la guerra e nei primi anni successivi ad essa), volle affrontare la verità: la rivoluzione russa con Stalin e con l’URSS è stata tradita. I popoli dell’URSS dopo il nazismo vivono un comunismo che tale non è, perché in realtà ha un elemento comune con coloro che sconfissero in guerra: il totalitarismo che è basato sulla violenza. Ma, secondo Vasilij Grossman, l’uomo ha un anelito irresistibile alla libertà, perché ogni uomo è unico e irripetibile.

“Vita e destino” fu ripescato per caso, in una sola copia. E fu da monito per tanti scrittori all’epoca dell’URSS, come i fratelli Stugarskij che creavano copie nascoste e frammentate dei loro testi, per non farle sparire e diffonderle comunque, anche inviandole a editori che le avrebbero rifiutate (molti per non finire nei Gulag), con la convinzione che comunque sarebbero girate comunque.

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Il romanzo è uno struggente, continuo, poetico inno alla vita. La vita senza aggettivi, senza idee che pretendono di giustificarla, senza utopie che presumono darle uno scopo: la vita come dono. Questo lungo canto di sofferenza è una possente epica lirica che travolge qualsiasi narrazione ideologica, mostrandola piccola, statica e piatta nella sua visione del mondo.

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“Vita e destino” fa sentire i popoli delle steppe, tutti, non solo i russi e nelle sue pagine vi sono tratti altissimi di epica, lirica, mito, riflessioni filosofiche ed etiche profonde e capitali.

È impressionante la variazione degli stili letterari che compaiono in corrispondenza degli eventi, dei dialoghi e delle personalità dei protagonisti che sono tanti e tanti: sovietici e, ed è qui lo scandalo, anche i tedeschi. I tedeschi nella loro umanità come quella dei sovietici, sia nella loro terribile crudeltà sia nelle speranze, e nelle paure di alcuni.

Non è un libro da leggere in modo episodico e distratto. Il lettore sente i protagonisti vicino, nella loro carne, nel loro respiro, nelle loro gioie e dolori. Meravigliose le pagine dello struggimento d’amore, e terribili quelle delle azioni di guerra, vere, dure, crude, senza retorica. Ma, ancora di più, quelle relative ai lager e ai gulag. E da lì si comprende, perché nessuno, fino a che Vasilij Grossman fu in vita, volle pubblicare il romanzo. NESSUNO, ovunque.

Impossibile trascrivere un frammento di questo capolavoro: non rende giustizia a questo monumento sull’umanità. Veramente: questo è un libro che va vissuto integralmente, con tutto il proprio cuore.

§CONSIGLI DI LETTURA: la cacciatrice di storie perdute

La storia del passato e le storie del presente nell’incontro tra madri e figlie

Titolo originale: The Storyteller’s Secret Copyright © 2018 by Sejal Badani All rights reserved. Traduzione dall’inglese di Valentina Legnani e Valentina Lombardi. Prima edizione ebook: giugno 2019 © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma ISBN 978-88-227-3431-0

“[…] era solito raccontarmi mio padre da bambina, ogni volta che chiedevo perché non avessi fratelli o sorelle. «Non sarebbe stato carino nei confronti delle altre famiglie se avessimo chiesto di più dalla vita». Eppure, di rado mi è capitato di sentirmi una benedizione per mia madre. Al massimo riuscivo a essere una delusione per lei: lo vidi dal modo in cui le sue labbra si strinsero quando persi alla finale della gara di spelling in quinta elementare; dal modo in cui il suo viso sembrò irrigidirsi quando non riuscii a entrare nella squadra delle cheerleader; o dallo sguardo distante che ora vedo nei suoi occhi, mentre contempla la mia incapacità di dare alla luce un bambino. […]”

“[…] «La promessa è stato il prezzo che ho dovuto pagare per essere nata. È tutto ciò che hai bisogno di sapere». Con voce stanca, mi augura la buonanotte. […]”

Le storie di Jaya nata negli USA, da una coppia indiana e delle vicende della Nonna Amisha, raccontata da Ravi, vanno in parallelo, quando lei si recò in India, scappando letteralmente da tutto, dopo il terzo aborto spontaneo. E lì nella casa, i due tempi si incrociano: il suo di Jaya che, attraverso i racconti di Ravi, va alle fonti del passato, e l’altra di Amisha, che cerca di imparare l’inglese perché voleva scrivere. I due tempi vanno simultaneamente da quella casa: una in avanti nel tempo e una indietro, ridefinendo un nuovo presente.

“[…] Amisha alzò il capo e i loro sguardi si incrociarono. Negli occhi di lui, vide confusione e distacco. Senza dire una parola alla moglie, Deepak si riaddormentò alla tenue luce della luna. Amisha, invece, continuò a scrivere, trovando conforto nell’unico posto che conosceva, ossia le parole che sgorgavano dal suo cuore. […]”.

“[…] «Io sono un intoccabile». Ravi batté il terreno con un piede nudo e distolse lo sguardo per la vergogna. «È importante che voi lo sappiate». «E io sono una donna». Abituata a vivere una realtà perennemente in ombra, rivolse lo sguardo al sole. «Ora abbiamo stabilito i nostri ruoli». «Voi siete la figlia del proprietario del mulino», ribatté Ravi. «I miei genitori e i miei fratelli sono vagabondi come me. Mendicare è il nostro destino». […]”

Il sentiero di questo tempo è l’India tra le divinità, l’indipendenza, le riforme sociali ed economiche, in un cammino dove le donne e le caste cercano di scrollarsi i vestiti e le catene. Nel libro vi è una sovrabbondanza di monologhi interiori che hanno lo scopo di parlare degli assenti, quali i genitori di Jaya negli Stati Uniti, suo marito Patrick dal quale si è separata, ma ancora non divorziata e i fantasmi del passato raccontati da Ravi, che spiegano gli eventi del presente. Attraverso i racconti e il vivere di quei giorni Jaya si immerge nel cibo, nei ritmi, negli odori, nelle divinità presenti, concrete, dove l’immagine è soggetto a sé e non rimando del divino. Proprio perché il libro viaggia nel tempo, le azioni sono quasi raccontate in uno stile giornalistico. Ed infatti Jaya è una giornalista, scrive come la nonna Amisha, e comprende spinte sue interiori, conoscendo la storia dei suoi parenti lì in India.

Una storia mai raccontata dai suoi genitori.

“[…] Forse, la sua passione per la scrittura non era una sofferenza da tollerare, bensì un dono da amare e proteggere. Le sue storie erano l’unico passaporto che l’avrebbe condotta in luoghi in cui non era mai stata. Senza di loro, sarebbe rimasta intrappolata per sempre in quel villaggio. […]”

“[…] Amisha raddrizzò la schiena e tentò di raccogliere la sua forza limitata, eppure si sentiva piccola rispetto all’imponente donna inglese. «Insegnerò qui perché questo è ciò che mi è stato chiesto». Pensò alle sue storie e all’importanza che avevano per lei. «Per quanto riguarda ciò che insegnerò, non lo so ancora bene», ammise. Nell’affrontare quella donna, si sentì ancora più giovane dei suoi anni. «Chiederò agli studenti di mettere per iscritto quello che si annida nei loro giovani cuori. E se le storie li condurranno in terre lontane, li incoraggerò a intraprendere questo viaggio». Amisha concesse un sorriso a quella donna irremovibile. «Insegnerò loro, quando viaggeranno con le storie, a rispettare le persone che incontreranno e i loro valori. Non sta a noi giudicare gli usi e i costumi degli altri, ma possiamo sfruttare l’occasione per imparare». Ignorò il fatto che la donna la guardasse con gli occhi sbarrati, e concluse dicendo: «Perché quando tendi la mano in segno di rispetto, sarai a tua volta accolto con benevolenza». […]”

“[…] Gli studenti si sporsero in avanti, ansiosi di conoscere quel mistero. «“Prima che nasceste voi, non ero mai stata una mamma”, dissi loro. “Sto imparando a essere la vostra mamma come voi state imparando a essere i miei figli”». «Avete detto loro queste cose?», chiese un’altra studentessa. Emozionata dal modo in cui i bambini stavano interagendo con lei, Amisha annuì. «Sì, l’ho fatto. Erano sorpresi. Probabilmente, credevano che io fossi nata mamma». Sorrise alle loro risate. «Così abbiamo stretto un patto. Loro mi avrebbero aiutato a essere una mamma migliore e io li avrei aiutati a essere dei buoni figli». Amisha si alzò e cominciò a camminare tra le file di banchi. «Propongo a ciascuno di voi lo stesso patto. Non sono mai stata un’insegnante prima d’ora. Se voi mi aiuterete a diventare una brava insegnante, io farò del mio meglio per aiutarvi a diventare degli scrittori migliori». […]”.

“[…]  «Da dove vengono le storie?» «Dalle nostre menti», rispose uno studente. «Dalle varie storie che ascoltiamo», disse un altro. «Dai nostri sogni», esclamò una ragazza. […]”

“[…] Entusiasta per l’interesse dimostrato dagli allievi, Amisha disse: «Voglio che ciascuno di voi scriva della creazione di qualcosa che desiderate, della distruzione di qualcosa di cui non avete bisogno, e della protezione di ciò che è vitale. E dovete spiegare le sensazioni che il vostro cuore, la vostra anima e la vostra mente provano riguardo a ognuno di questi eventi». Amisha stava riordinando la classe quando entrò Stephen, lanciando uno sguardo alla lavagna. «La Terra?» […]”

Jaya comprende che gli Stati Uniti, lei stessa, l’India e sua nonna erano e sono in cammino verso nuove porte del sapere.

“[…] «Non sei d’accordo sulla perfezione della mia pronipote?», chiede Ravi. Urla a Misha di salutare i suoi amici. «Nella mitologia indiana, quando la luna copre il sole, le tenebre hanno il potere di coprire la tua vita». Lentamente, si fa strada attraverso la sala, in direzione dell’uscita. «Ma non è sempre necessario che il sole splenda per avere la luce. Nel buio, dobbiamo cercare le stelle. Anche la loro luminosità ha un potere». «Perché mi hai portata qui, Ravi?», domando. Mi rivolge un sorriso triste. «Mi hai detto che sei venuta in India per fuggire dal tuo dolore. Ho pensato a cosa ti avrebbe detto tua nonna se fosse stata qui». Abbassa la testa. «Non potrei mai pensare di parlare per lei, ma…». […]”

E colei che era venuta per cacciare e raccontare le storie, comprende di esserne parte integrante. Sebbene il finale del libro, ricalca uno stile quasi prevedibile nelle relazioni tra il marito e i genitori e con Ravi, tale senso di ordine, permette invece di immergersi totalmente nella consapevolezza della propria rinascita, dove non si caccia alcunché e la preda è inesistente, perché si è se stessi, testimoni del proprio vivere.

§CONSIGLI DI LETTURA: Ogni mattina a Jenin

L’oscillazione tra Passato e Presente, tra radici e foglie,
tra genitori e figli

“ Ogni mattina a Jenin” di Susan Abulhawa Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Seconda edizione digitale 2016. Traduzione dall’inglese di Silvia Rota Sperti

 

L’oscillazione tra Passato e Presente, tra radici e foglie,
tra genitori e figli.

Un libro coinvolgente. Si entra in una saga epica quasi, su eventi reali. È un romanzo con personaggi di fantasia, ma che raccoglie con una precisione storica e una caratterizzazione da resoconto giornalistico, eventi che durano decenni e che trapassano intere coorti generazionali lì in Palestina. La narrazione che va avanti e indietro nel tempo. La voce narrante descrive come i due ragazzi inizino a parlare con lingue diverse: l’arabo Hassan impara un poco di inglese e di ebraico e di tedesco per Ari, che a sua volta apprende l’arabo. Storpio Ari, malaticcio Hassan, in disparte e presi in giro, si rifugiarono nelle letture e nelle culture dei due popoli e delle culture tedesca e inglese. Lo stile descrive il tempo e lancia per contrasto alcuni accenni del futuro, come di Yeah il padre di Hassan che impedisce al figlio di andare a studiare a Gerusalemme perché voleva che lavorasse la terra, ma si sarebbe pentito per tutta la vita.

“[…] Anche se gli fu negato il privilegio degli studi superiori, Hassan ricevette le ottime lezioni private della signora Perlstein, che mandava a casa il suo giovane e assiduo studente carico di libri, letture e compiti. Le lezioni erano il frutto di un accordo segreto tra Bassima e la signora Perlstein per sollevare Hassan dallo sconforto in cui era caduto da quando Yehya aveva pronunciato l’ultima parola sulla questione della scuola. […]”

“[…] Un attimo, il piccolo Isma’il di sei mesi era sul suo petto, tra le sue braccia materne. L’attimo dopo, Isma’il non c’era più. Un attimo può schiacciare un cervello e cambiare il corso della vita, il corso della storia. Fu un’infinitesimale scheggia di tempo a cui Dalia avrebbe ripensato più e più volte nel corso degli anni, cercando un indizio, una traccia di cosa poteva essere successo a suo figlio. Anche quando finì per smarrirsi in una realtà offuscata, continuò a cercare con il pensiero Isma’il tra quella folla in fuga. […]”.

“[…] Yehya calcolò quaranta generazioni di vite, ora spezzate. Quaranta generazioni di nascite e funerali, di matrimoni e danze, di preghiere e ginocchia sbucciate. […]”

“[…] Nel dolore di una storia sepolta viva, in Palestina l’anno 1948 andò in esilio dal calendario, smise di tenere il conto di giorni, mesi e anni per diventare solo foschia infinita di un preciso momento storico. I dodici mesi di quell’anno si riorganizzarono e turbinarono senza meta nel cuore della Palestina. […]”.

Moshe ruba il bimbo Isma’il per Jolanta sua moglie resa sterile dai nazisti. Ma occorre ricordare che aveva la cicatrice il bimbo, causata da suo fratellino Youssef, cadendo nel chiodo di quella culla, che la nonna considerava portafortuna. E forse quella cicatrice era un pegno di salvezza futura. Ecco anche qui il tempo va avanti e indietro, in un andirivieni come indicato nella genealogia del libro.

“[…] Mentre gli abitanti di ‘Ain Hod venivano costretti ad allontanarsi, privati di ogni cosa, Moshe e i compagni controllavano e saccheggiavano il villaggio appena rimasto vuoto. Mentre Dalia giaceva straziata dal dolore, delirante per la perdita di Isma’il, Jolanta cullava David. Mentre Hassan si preoccupava per la sopravvivenza della propria famiglia, Moshe cantava e gozzovigliava insieme ai compagni in una baldoria ebbra. E mentre Yehya e gli altri si allontanavano con passo angosciato dalla loro terra, gli usurpatori cantavano l’Hativka e gridavano: “Lunga vita a Israele!”.  […]”.

Avanti e indietro nel tempo, anche qui, nell’oscillazione di un popolo che va, in una terra vista da uno e dall’altro che continuamente sfugge. Oscilla il senso temporale e il senso spaziale. Villaggi, generazioni, radici e figli, padri e foglie. Quaranta generazioni sdradicate da Almod.

Sembra un ciclo, come il numero 40 delle generazioni sdradicate. Rievoca un ciclo che si ripete come cent’anni di solitudine.

Nel libro vi sono le frasi in corsivo che benedicono la terra, i figli, e quelle declamate dai protagonisti quando parlano del passare delle stagioni, delle piogge che umidificano il terreno. Le parole in corsivo detengono la memoria orale della comunità: i detti, i saperi sul ciclo delle stagioni, sul raccolto, sulla nascita e sulla crescita degli olivi, dei fichi, dei figli. 

“[…]La morte di Yeyha spinse tutti nel campo a rimboccarsi le maniche. Un febbrile senso di orgoglio avvolse Jenin e ci si diede da fare per istituire delle scuole, specialmente femminili. Nel giro di un anno la comunità di profughi costruì un’altra moschea e tre scuole, e in tutto questo Hassan ebbe un ruolo centrale ma discreto, tenendosi ai margini della quotidianità ma continuando a scrivere laboriosamente lettere e documenti. […]”

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“[…] Papà disse: “Possono portarti via la terra e tutto quello che c’è sopra, ma non potranno mai portarti via quello che sai o le cose che hai studiato”. Avevo sei anni e i bei voti a scuola diventarono la moneta di scambio per conquistarmi l’approvazione di papà, che desideravo come non mai. Diventai l’alunna più brava di tutta Jenin e imparai a memoria le poesie che mio padre amava così tanto. Anche quando il mio corpo diventò troppo grande per il suo grembo, il sole ci trovava sempre abbracciati e con un libro tra le mani. […]”.

Ogni evento diventa l’occasione del ricordo, per ritornare a pensare. Il ricordo è il mantenimento della terra.

“[…] “Nasciamo tutti possedendo già i tesori più grandi che avremo nella vita. Uno di questi è la tua mente, un altro è il tuo cuore. E gli strumenti indispensabili di queste ricchezze sono il tempo e la salute. Il modo in cui userai i doni di Dio per aiutare te stesso e l’umanità sarà il modo in cui Gli renderai onore. Io ho cercato di usare la mente e il cuore per tenere il nostro popolo legato alla propria storia, perché non diventassimo creature senza memoria che vivono arbitrariamente in balia dell’ingiustizia.” […]”

Anche Amal (in italiano: speranza) rimane di ghiaccio nei rapporti con la figlia quando la partorisce. È costretta a vivere in un ciclo continuo al fine di preservare se stessa per far vivere la figlia, come se l’amore fosse la loro condanna a morte, come per il marito che per amore della terra morì in ospedale, come per Fatima per amore di Yussef che voleva far partorire i figli. Se non ami i tuoi figli, se li vuoi distaccare dalla tua terra (Palestina) allora essi vivranno, altrove, nella speranza di non conoscere l’origine e i genitori.

“[…] Così, smisi di leggere e di guardare i telegiornali e cominciai ad aver paura di toccare Sara, per non contaminarla con il mio destino. Perché non mi scaldasse il cuore e sciogliesse la rabbia, i fantasmi e la follia che mi portavo dentro.

Mi chiusi in me stessa. Le mie difese allontanavano chiunque osasse avvicinarsi, compresa Sara, anche se continuavo a consumare il suo profumo di notte, mentre dormiva, riempiendomi i polmoni del buonsenso che avevo bisogno di respirare. La amavo mio malgrado. La amavo immensamente. Infinitamente. E avevo paura di quell’amore così come avevo paura della mia rabbia contro il mondo. […]”.

Come la madre Dalia andava di notte ad accarezzare i figli.

“[…] La comunicazione fu interrotta. Mio fratello era irrimediabilmente perduto. Aveva attraversato l’abisso di fiamme davanti al quale io ancora esitavo, ed era atterrato sulla sponda placida e distaccata della vendetta. Aveva lasciato la sua anima a vagare per Sabra e Shatila, dove sua moglie e sua figlia giacevano in una fossa comune sotto a un mucchio di rifiuti, sotto l’impunità dei loro assassini, le promesse infrante delle superpotenze e l’indifferenza del mondo verso il sangue versato dagli arabi.

[…]”

E il libro continua e consiglio la lettura, perché nonostante si tenti di bloccare l’amore, il legame materno e quello tra fratelli e sorelle, il tempo alla fine tutto scoperchia, in un crescendo emotivo di una intensità unica.