§CONSIGLI DI LETTURA: I VICERè

I Viceré / Federico De Roberto ; a cura di Sergio Campailla. – Ed. integrale. – Roma : Biblioteca economica Newton, 1995.

Tanto è stato scritto su questo capolavoro postumo del 1894 di Federico De Roberto che, per paradosso, ebbe una vita simile ad alcuni protagonisti del libro. In particolare per i suoi tristi e ultimi anni. È un romanzo che è parallelo alla letteratura siciliana del periodo, a partire da Giovanni Verga. Il ”verismo” e la “roba”. Riprende i temi della “Commedia Umana” di Honoré De Balzac, per la profonda analisi dei tratti caratteriali, qui però più complessi nella loro espressione verbale ed emotiva.

Ha una caratterizzazione fisica dei personaggi che è pari a quella di Alexander Dumas, ma molto più introspettiva, nonostante sia immediatamente posta innanzi al lettore, fornendo la sensazione di assistere ad una scena teatrale.

Le vicende storiche sono realmente accadute nel periodo che va dal 1848 fino al 1882, lì, in Sicilia, attorno alle vicende dei Viceré, ovvero gli antichi e blasonati nobili Uzeda.

I patimenti religiosi ed eroici sono svelato nei loro tratti più profondi: avidità, invidia, odio, ipocrisia. Tutto deve convergere per l’accrescimento e della potenza e dalla ricchezza.

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Lo stile è avvincente, perché gli eventi si susseguono ad un ritmo sostenuto. Le relazioni tra i parenti scandiscono il tempo. Gli stati d’animo sono descritti sempre al limite, nel loro vorticare in dialoghi duri e serrati. I conflitti parentali richiamano le effettive lotte di potere che percorrevano l’Italia in fase di unificazione, e in particolare in Sicilia, tra la borghesia nascente e la nobiltà.

Nessuno si salva, neanche i poveri e gli ignoranti. Ognuno cerca di esibire una parte falsa di sé che è, per paradosso, quella normale, visibile al pubblico e in piazza. Non è la menzogna ad essere il falso collante della società, anzi questa è intessuta di una arcigna mancanza di compassione.

E se si parla degli Uzeda, lo stile non può che essere teatrale, d’una barocca esposizione del potere nella sua continua riconfigurazione, anche mentre si assiste al funerale della principessa Teresa, la madre e sorella dei protagonisti.

Pag. 14  “[…] Ma la chiesa era talmente gremita che potevano appena fare due passi ogni quarto d’ora; e tutt’intorno la gente che non riusciva ad andare né avanti né indietro né a veder altro fuorché la cima della piramide, ingannava l’impazienza dell’attesa chiacchierando, dicendo vita, morte e miracoli della principessa: «Adesso i suoi figli potranno respirare! Li ha tenuti in un pugno di ferro…» «I suoi figli: quali?…» «Costrinse don Lodovico, il secondogenito, a farsi monaco mentre gli toccava il titolo di duca; la primogenita fu chiusa alla badìa!… Se campava ancora ci avrebbe messo anche l’altra!… Maritò Chiara perché questa non voleva maritarsi!… Tutto per amor d’un solo, del contino Raimondo…» «Ma il padre?…» «Il padre, ai suoi tempi, non contava più del due di briscola; la principessa teneva in un pugno lui e il suocero!…»

Però tutti riconoscevano che, se non fosse stata lei, a quell’ora non avrebbero avuto più niente. Ignorante, sì; ma accorta, calcolatrice!

«È vero che non sapeva leggere né scrivere?»

«Sapeva leggere soltanto nel libro delle devozioni e in quello dei conti!» […]”

L’introspezione psicologica di alto livello mostra che l’odio e la rabbia sono gli strumenti per accedere al potere.

L’autore spiega i recessi emotivi dei protagonisti attraverso l’analisi delle loro scelte di vita, o costrizioni, lasciandoli parlare con un linguaggio interiore indiretto, inframmezzato da domande rivolte a se stessi. Attraverso l’analisi emotiva di questa introspezione recitata, l’autore vestendosi dei panni dei protagonisti, rende viva la loro tensione emotiva, e crea le condizioni di sviluppo degli eventi futuri.

Pag. 143  “[…] Don Blasco, da canto suo, non aveva messo piede neppure una sola volta dagli sposi; e Lucrezia, dichiarandosene contenta, diceva anche tutte le pazzie e le porcherie del monaco. Ella l’aveva anche con la sorella Chiara, senza che questa le avesse fatto nulla, e la derideva per l’eterna gravidanza che non veniva a fine, quantunque giunta al decimo mese. Se la prendeva insomma con tutti, e alla contessa Matilde che la veniva a trovare come prima:

«Dillo tu,» diceva, «che razza di gente! Quante te n’han fatto vedere, ah? Quel birbante di tuo marito? Tutti quegli altri che gli hanno tenuto il sacco, quando egli andava dietro a quella?…»

Impallidendo, poi arrossendo a quei discorsi, Matilde tentava nondimeno di metter buone parole; ma l’altra rincarava:

«E li difendi, anche? Lasciali andare!… Tutti di una pasta!… Chi sa quante ne vedrai ancora, povera disgraziata!… Per me, ringrazio Dio d’essere uscita da quella galera!… Credono che io mi debba rinchinare?… M’importa assai di loro e delle loro visite!…» […]”.

176-177  “[…]  E più porco io che gli tenni mano!… Mi manda via perché non ha più da spogliare nessuno?…»

Con le mani in capo, Baldassarre scongiurava: «Don Marco!… Signor Marco!… per carità!… possono udirvi!…» ma l’altro, fuori della grazia di Dio, tremando dall’ira, buttava fuori quel che aveva in corpo contro il padrone e tutta la sua razza:

«Dieci anni! Dieci anni di studio per rubare i suoi parenti! quegli altri pazzi e furbi, scemi e birbanti!… E non mangiava, non beveva, non dormiva, studiando il modo di accalappiarli, facendo il moralista, fingendo l’affezione, il rispetto alle volontà di sua madre; pezzo di Gesuita più di quell’altro Sant’Ignazio del Priore, pezzo di porco più di quell’altro maiale di don Blasco! Ah, crede che la gente non sappia quant’è porco, con la ganza in casa, adesso che non ha più nessuno da rubare, con la ganza sotto gli occhi di sua moglie, sotto gli occhi di sua figlia, fino all’altr’ieri?…»

E questo è solo l’inizio in un crescendo di vicende, di complotti e di progetti a lungo termine sempre più vorticosi, fino alle ultime pagine (che non svelo per non rovinare la lettura), in cui si mostrano processi di lungo periodo più che mai attuali nell’Italia di oggi. E, infine, nelle pagine finali, nel culmine di un crescendo quasi lirico che parte dall’inizio del romanzo, Federico De Roberto getta in faccia al lettore una terribile analisi di tutti e di tutto, lì e qui, tra la Sicilia e l’Italia.

È un libro denso, pieno di dialoghi scritti in un italiano che varia dal linguaggio formale, a quello colloquiale, con l’importazione di termini stranieri, eppure leggero, perché il lettore si immedesima nella carne viva che brucia gli occhi e taglia le mani che sfogliano le pagine.

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