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§CONSIGLI DI LETTURA: ARTEMIS. LA PRIMA CITTA’ DELLA LUNA

Artemis. La prima città sulla luna, 2017, di Andy Weir, Newton Compton Editori, Titolo originale Artemis, 2017 di Andy Weir, Crown Publishing Group, a division of Penguin Random House, LLC.
Traduzione dall’inglese di Marta Lanfranco. 

Le questioni relative al Diritto e alle interazioni sociali riguardano anche la convivenza in piccole comunità umane fuori del pianeta Terra. Già oggi esiste un diritto astro spaziale, e anche di proprietà, simile al diritto navale e internazionale. Gli organismi nazionali e internazionali, veramente e non nei libri di fantascienza, da decenni stanno stabilendo protocolli, intese, linee guida per stipulare codici e leggi adeguate, riferite ad agglomerati stabili in ambienti ostili, dove l’ossigeno è una risorsa scarsa, così come il cibo e il territorio. Il calore è un lusso, così anche un posto per dormire.

Esiste la possibilità che per gli sconvolgimenti ambientali e per la lotta di nuove risorse si avranno nuovi tipi di interazioni sociali insospettate che mutueranno nuove definizioni di “crimine”. Pensiamo solo al 2021 in riferimento alla nuova lotta geopolitica per l’appropriazione delle risorse energetiche e delle terre rare, che può causare disallineamenti tra l’offerta e la domanda, quindi l’inflazione, la recessione. La guerra. La fame.

Quando anche lo spazio è considerato integralmente un bene, i luoghi in cui si cammina (e si respira) divengono un oggetto di contesa. Già oggi emergono nuove domande circa la definizione di nuovi soggetti giuridici. Questo romanzo di fantascienza, seppure nella sua trama avvincente e di fantasia, indirettamente, e forse al di là delle intuizioni dell’autore, mostra che:

NON SAREMO NOI A CREARE LE CITTA’ LUNARI, MA è LA LUNA CHE VERRA’ DA NOI QUI SULLA TERRA. ED è già così NELLA CONTESA DELLO SPAZIO PER LE ROTTE DEI SATELLITI, per controllare il traffico dei dati, ovvero della ricchezza, della vita stessa, del controllo meteorologico, e di una nuova definizione della guerra e degli assetti (astro)geopolitici.

In Artemis sono riprodotte le differenze di ceto e di classe. Nella cupola “Armstrong” lavorano gli operai, i saldatori, gli inservienti. Nella cupola “Aldrin” vi sono i turisti con gli hotel e i mega negozi di lussocostosi. Nella Conrad, il tugurio, dormono gli operai e i poveri.

“[…] Facciamo del nostro meglio per evitare che la polvere lunare entri in città. Non ho saltato la decontaminazione nemmeno quando stavo per morire per la valvola rotta. Come mai tanta fatica? Perché la polvere lunare, se respirata, è estremamente nociva. È composta da minuscole particelle di roccia, che non sono mai state erose dalle intemperie, perché sulla Luna non esistono mutamenti climatici. Ogni pagliuzza è pronta a lacerare i polmoni come se fosse filo spinato. Credetemi, è meglio fumarsi un pacchetto di sigarette all’amianto che respirare quella roba. […]”

Nella Cupola Shepard vivono i ricchi con un arredamento Extralusso pieno di lampadari di vetro con legno. Il vetro costa poco ed è lavorato dai soffiatori di vetro, dato che la Luna è piena di Silicio.

L’aria della Terra è composta per il 20% di ossigeno. Per il resto è costituita da gas di cui i corpi umani non ne hanno bisogno, tipo l’azoto e l’argon. Invece l’aria di Artemis è ossigeno puro a bassa pressione (il 20% di quella terrestre), affinché gli organi interni del corpo umano non ne siano danneggiati. Non è una trovata recente, risale ai tempi delle spedizioni Apollo. Il problema è che, per via della bassa pressione, l’acqua ha un punto di ebollizione più basso. In pratica bolle a 61° Celsius, che è la temperatura massima che possono raggiungere un tè o un caffè.

Il discorso indiretto libero non è scritto in prima persona dall’autore, perché sono gli stessi protagonisti che spiegano l’ambiente rivolgendosi al lettore. Quando rimuginano su di sé, richiamano eventi del passato per svelare la propria personalità o quella degli interlocutori, mostrando la città e i suoi problemi di vivibilità, all’interno di una penuria dei materiali, stando permanentemente in condizioni diverse di gravità

I cibi sono freddi. I liquidi come il caffè non arrivano all’ebollizione: sono imbevibili per i terrestri. Si mangiano alghe: almeno i poveri e gli operai. Il contrabbando è la sopravvivenza e il motivo di rimanere lì, oltre al turismo. L’ossigeno è la materia più preziosa, e il nemico più infido, perché è un comburrente.

Chi parla in prima persona e dirige gli eventi è Jazz, la protagonista proveniente dall’Arabia Saudita, dall’età di sei anni. I bambini non possono essere partoririti sulla Luna, a meno di deformazioni e rischi di sopravvivenza. Si diventa madri sulla Terra.

La città di Artemis è retta dallo stato del Kenya. L’ora della Luna è sintonizzata all’ora terrestre di Nairobi (Kenia). La reggente è Fidelis Ngugi: la ex ministra delle Finanze in Kenya. Il Kenya offriva l’equatore. I razzi che partono da lì, costano di meno per la rotazione della Terra e perché secondo Ngugi, il Kenya era un paradiso fiscale. Gli altri paesi esigono tasse onerose alle agenzie spaziali. Il Kenya no.

La proposta: “<<Jazz, sono un uomo d’affari>>, disse. <<Il mio lavoro è valorizzare le risorse sottovalutate e tu decisamente lo sei>>.

Il concetto di spazio è relativo: un garage è considerato quasi una piazza di una città.

Jazz parla indietro nel tempo con Kelvin., il suo amico epistolare in Kenya e da qui si snoda una storia parallele con le vicende lunari. La narrazione bipartita in due serie temporali dove quella epistolare è antecedente, permette il climax, nel punto di incontro logico delle azioni.

Andy Weir scrive con un linguaggio molto meno diretto e volgare, rispetto all’altro suo famoso romanzo su Marte (Martians). Quest’ultimo aveva uno stile corredato di termini meccanici, astrofisici, Artemis invece è impregnato di chimica, fisica e metallurgia (è l’apoteosi dei saldatori).

L’autore è meticoloso nel rendere la trama verosimile. I protagonisti, infatti agiscono sfruttando le conoscenze fisiche e chimiche degli ambienti non terrestri.

Loretta è una antagonista donna e qui si vede che la moralità di tutti è sfumata.

4614-4619 «Non è solo colpa tua. Ci sono state molte mancanze ingegneristiche. Per esempio, perché i sensori nelle tubature dell’aria non sono stati tarati anche per individuare le tossine complesse? Perché la Sanchez teneva metano, ossigeno e cloro vicino a un forno incandescente? Perché nel Centro di Supporto non hanno dei serbatoi d’aria separati in modo che, in caso di problemi nel resto della città, possano rimanere svegli a risolverli? Perché il Centro di Supporto è centralizzato invece di avere una succursale in ciascuna bolla? Sono queste le domande che le persone si stanno ponendo».

4760-4767 «Ma lo fanno già sotto forma di affitto alla ksc. Introdurrò un modello basato sulla proprietà privata e le tasse, così il benessere della città sarà strettamente legato all’economia, ma non da subito». Si tolse gli occhiali. «Fa parte del ciclo vitale dell’economia. Prima viene il capitalismo senza regole, finché non blocca la crescita. A questo punto subentrano le leggi, la loro applicazione e le tasse. In seguito, benefici pubblici e diritti. Infine, eccessiva espansione e collasso». «Un momento. Collasso?» «Sì, collasso. L’economia è un essere vivente. Nasce piena di vitalità e muore rigida e spolpata. A quel punto, le persone formano dei gruppi economici più piccoli e il ciclo ricomincia daccapo, ma con più sistemi economici, con delle economie neonate come quella di Artemis». «Mmm…», mormorai. «Insomma, per far figli devi farti fottere». Scoppiò a ridere. «Tu e io c’intendiamo alla perfezione, Jasmine».

E da qui consiglio la lettura del libro, senza anticipare gli avvenimenti, perché il ritmo è avvincente con molti colpi di scena.

Una nota finale, Andy Weir alla fine del romanzo nella parte relativa ai ringraziamenti cita coloro che lo hanno aiutato a realizzare l’opera. Sono quasi tutte donne che lo hanno supportato per migliorare la scrittura, per conoscere l’Islam, e per scrivere fingendo di stare dentro un punto di vista femminile.

4820-4829  Persone che vorrei ringraziare: David Fugate, il mio agente, senza il quale starei ancora scrivendo sui blog di notte e nei fine settimana. Julian Pavia, il mio editor, per essere un rompiballe quando ce n’è bisogno. L’intera squadra della Crown e della Random House per il loro lavoro e supporto. Siete troppo numerosi e qui non posso citarvi individualmente, ma, per favore, sappiate che sono incredibilmente grato di avere così tante persone intelligenti che credono nel mio lavoro, tanto da diffonderlo nel mondo. Un ringraziamento speciale va al mio agente pubblicitario di lunga data Sarah Breivogel, i cui sforzi sono stati essenziali nel farmi rimanere lucido negli ultimi anni. Per i loro intelligenti commenti in varie aree, ma soprattutto per avermi aiutato a superare la sfida di scrivere “al femminile”: Molly Stern (editor), Angeline Rodriguez (l’assistente di Julian), Gillian Green (la mia editor inglese), Ashley (la mia compagna), Mahvash Siddiqui (un’amica, che mi ha dato una mano a rendere accurata l’immagine dell’Islam), e Janet Tuer (mia madre).

§CONSIGLI DI LETTURA: I VICERè

I Viceré / Federico De Roberto ; a cura di Sergio Campailla. – Ed. integrale. – Roma : Biblioteca economica Newton, 1995.

Tanto è stato scritto su questo capolavoro postumo del 1894 di Federico De Roberto che, per paradosso, ebbe una vita simile ad alcuni protagonisti del libro. In particolare per i suoi tristi e ultimi anni. È un romanzo che è parallelo alla letteratura siciliana del periodo, a partire da Giovanni Verga. Il ”verismo” e la “roba”. Riprende i temi della “Commedia Umana” di Honoré De Balzac, per la profonda analisi dei tratti caratteriali, qui però più complessi nella loro espressione verbale ed emotiva.

Ha una caratterizzazione fisica dei personaggi che è pari a quella di Alexander Dumas, ma molto più introspettiva, nonostante sia immediatamente posta innanzi al lettore, fornendo la sensazione di assistere ad una scena teatrale.

Le vicende storiche sono realmente accadute nel periodo che va dal 1848 fino al 1882, lì, in Sicilia, attorno alle vicende dei Viceré, ovvero gli antichi e blasonati nobili Uzeda.

I patimenti religiosi ed eroici sono svelato nei loro tratti più profondi: avidità, invidia, odio, ipocrisia. Tutto deve convergere per l’accrescimento e della potenza e dalla ricchezza.

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Lo stile è avvincente, perché gli eventi si susseguono ad un ritmo sostenuto. Le relazioni tra i parenti scandiscono il tempo. Gli stati d’animo sono descritti sempre al limite, nel loro vorticare in dialoghi duri e serrati. I conflitti parentali richiamano le effettive lotte di potere che percorrevano l’Italia in fase di unificazione, e in particolare in Sicilia, tra la borghesia nascente e la nobiltà.

Nessuno si salva, neanche i poveri e gli ignoranti. Ognuno cerca di esibire una parte falsa di sé che è, per paradosso, quella normale, visibile al pubblico e in piazza. Non è la menzogna ad essere il falso collante della società, anzi questa è intessuta di una arcigna mancanza di compassione.

E se si parla degli Uzeda, lo stile non può che essere teatrale, d’una barocca esposizione del potere nella sua continua riconfigurazione, anche mentre si assiste al funerale della principessa Teresa, la madre e sorella dei protagonisti.

Pag. 14  “[…] Ma la chiesa era talmente gremita che potevano appena fare due passi ogni quarto d’ora; e tutt’intorno la gente che non riusciva ad andare né avanti né indietro né a veder altro fuorché la cima della piramide, ingannava l’impazienza dell’attesa chiacchierando, dicendo vita, morte e miracoli della principessa: «Adesso i suoi figli potranno respirare! Li ha tenuti in un pugno di ferro…» «I suoi figli: quali?…» «Costrinse don Lodovico, il secondogenito, a farsi monaco mentre gli toccava il titolo di duca; la primogenita fu chiusa alla badìa!… Se campava ancora ci avrebbe messo anche l’altra!… Maritò Chiara perché questa non voleva maritarsi!… Tutto per amor d’un solo, del contino Raimondo…» «Ma il padre?…» «Il padre, ai suoi tempi, non contava più del due di briscola; la principessa teneva in un pugno lui e il suocero!…»

Però tutti riconoscevano che, se non fosse stata lei, a quell’ora non avrebbero avuto più niente. Ignorante, sì; ma accorta, calcolatrice!

«È vero che non sapeva leggere né scrivere?»

«Sapeva leggere soltanto nel libro delle devozioni e in quello dei conti!» […]”

L’introspezione psicologica di alto livello mostra che l’odio e la rabbia sono gli strumenti per accedere al potere.

L’autore spiega i recessi emotivi dei protagonisti attraverso l’analisi delle loro scelte di vita, o costrizioni, lasciandoli parlare con un linguaggio interiore indiretto, inframmezzato da domande rivolte a se stessi. Attraverso l’analisi emotiva di questa introspezione recitata, l’autore vestendosi dei panni dei protagonisti, rende viva la loro tensione emotiva, e crea le condizioni di sviluppo degli eventi futuri.

Pag. 143  “[…] Don Blasco, da canto suo, non aveva messo piede neppure una sola volta dagli sposi; e Lucrezia, dichiarandosene contenta, diceva anche tutte le pazzie e le porcherie del monaco. Ella l’aveva anche con la sorella Chiara, senza che questa le avesse fatto nulla, e la derideva per l’eterna gravidanza che non veniva a fine, quantunque giunta al decimo mese. Se la prendeva insomma con tutti, e alla contessa Matilde che la veniva a trovare come prima:

«Dillo tu,» diceva, «che razza di gente! Quante te n’han fatto vedere, ah? Quel birbante di tuo marito? Tutti quegli altri che gli hanno tenuto il sacco, quando egli andava dietro a quella?…»

Impallidendo, poi arrossendo a quei discorsi, Matilde tentava nondimeno di metter buone parole; ma l’altra rincarava:

«E li difendi, anche? Lasciali andare!… Tutti di una pasta!… Chi sa quante ne vedrai ancora, povera disgraziata!… Per me, ringrazio Dio d’essere uscita da quella galera!… Credono che io mi debba rinchinare?… M’importa assai di loro e delle loro visite!…» […]”.

176-177  “[…]  E più porco io che gli tenni mano!… Mi manda via perché non ha più da spogliare nessuno?…»

Con le mani in capo, Baldassarre scongiurava: «Don Marco!… Signor Marco!… per carità!… possono udirvi!…» ma l’altro, fuori della grazia di Dio, tremando dall’ira, buttava fuori quel che aveva in corpo contro il padrone e tutta la sua razza:

«Dieci anni! Dieci anni di studio per rubare i suoi parenti! quegli altri pazzi e furbi, scemi e birbanti!… E non mangiava, non beveva, non dormiva, studiando il modo di accalappiarli, facendo il moralista, fingendo l’affezione, il rispetto alle volontà di sua madre; pezzo di Gesuita più di quell’altro Sant’Ignazio del Priore, pezzo di porco più di quell’altro maiale di don Blasco! Ah, crede che la gente non sappia quant’è porco, con la ganza in casa, adesso che non ha più nessuno da rubare, con la ganza sotto gli occhi di sua moglie, sotto gli occhi di sua figlia, fino all’altr’ieri?…»

E questo è solo l’inizio in un crescendo di vicende, di complotti e di progetti a lungo termine sempre più vorticosi, fino alle ultime pagine (che non svelo per non rovinare la lettura), in cui si mostrano processi di lungo periodo più che mai attuali nell’Italia di oggi. E, infine, nelle pagine finali, nel culmine di un crescendo quasi lirico che parte dall’inizio del romanzo, Federico De Roberto getta in faccia al lettore una terribile analisi di tutti e di tutto, lì e qui, tra la Sicilia e l’Italia.

È un libro denso, pieno di dialoghi scritti in un italiano che varia dal linguaggio formale, a quello colloquiale, con l’importazione di termini stranieri, eppure leggero, perché il lettore si immedesima nella carne viva che brucia gli occhi e taglia le mani che sfogliano le pagine.

§CONSIGLI DI LETTURA: I Beati paoli

Luigi Natoli I Beati Paoli Edizione integrale Newton Compton editori

Prima edizione ebook: ottobre 2016 © 1989, 2006, 2016 Newton Compton editori s.r.i. Roma, Casella postale 6214 ISBN 978-88-541-9909-5 Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale, Roma www.newtoncompton.com

È un romanzo avvincente dei primi anni del 1900. Ha un approccio simile a quello di Alexander Dumas per i romanzi come “Il Conte di Montecristo” e la “Sanfelice”. Attinge agli eventi storici realmente accaduti con alcuni personaggi veramente esistiti e in luoghi urbani e naturali ancora esistenti. Ha le caratteristiche di una saga, pubblicata a puntate nei periodici dell’epoca, nella quale diversi stili di scrittura convivono con una prosa scorrevole. Vi è una sintassi fluida con un’ottima caratterizzazione dei personaggi ed un’eccellente descrizione emotiva. I personaggi hanno un retro pensiero accompagnato da una doppia comunicazione verbale e fisica, quindi manifesta, e un’altra interrogante di sé e degli altri. I moti degli animi attraggono il lettore, come il vortice dell’angoscia nei tribunali segreti degli incappucciati. Non è un caso che Luigi Natoli fu veramente un massone.

È ambientato a Palermo tra il 1688 e il 1721.  

Nello scorrere degli eventi che consiglio di leggere per mantenere la tensione emotiva, i protagonisti si confrontano con i propri errori, anche nel subire o nel togliere l’ingiustizia agli altri. Il romanzo è un’esposizione monumentale del conflitto che scaturisce tra la pretesa e l’esercizio della giustizia.

“[…] I Beati Paoli apparivano ed erano di fatto come una forza di reazione, moderatrice: essi insorgevano per difendere, proteggere i deboli, impedire le ingiustizie e le violenze: erano uno Stato dentro lo Stato, formidabile perché occulto, terribile perché giudicava senza appello, puniva senza pietà, colpiva senza fallire. E nessuno conosceva i suoi giudici e gli esecutori di giustizia. Essi parevano appartenere al mito più che alla realtà. Erano dappertutto, udivano tutto, sapevano tutto, e nessuno sapeva dove fossero, dove s’adunassero. L’esercizio del loro ufficio di tutori e di vendicatori si palesava per mezzo di moniti, di lettere, che capitavano misteriosamente. L’uomo al quale giungevano, sapeva di avere sospesa sul capo una condanna di morte. Come eran sorti?… Donde? Mistero. Avevano avuto degli antenati: quei terribili “vendicosi”, che ai tempi di Arrigo vi e di Federico ii erano diffusi per il regno e il cui capo era un signore, Adinolfo di Pontecorvo; i proseliti migliaia; il loro compito quello di vendicare le violenze patite dai deboli.  […]”

La descrizione delle piazze, dei palazzi, degli interni ha una poetica barocca strabordante e meravigliosa.  Luigi Natoli è a un tempo un fotografo e un esteta. 

285 Non aveva alcuna meta prefissa: pure andava innanzi e oltrepassato il ponte dell’Ammiraglio, s’avviava verso i villaggi. Egli era così immerso nelle sue idee, che non s’accorgeva del cammino. Erano gli ultimi di marzo; un pomeriggio tiepido e roseo, come ce n’è soltanto in Sicilia, e tutte le campagne verdi e i mandorli bianchi; nell’aria un odore di cose ignote che infondeva nel sangue una mollezza, una specie di lassitudine piena di desideri, una malinconia dolce e sognatrice. Le anime che vivono nella solitudine sentono in queste giornate primaverili l’orrore del vuoto che le circonda, e sentono nel cuore una felicità a ricevere le impressioni e a schiudersi alla commozione e alla tenerezza.

I Beati  Paoli traducono l’etica in un ordine giuridico parallelo.

pp. 313-14  […] «Non li affronterete… » . «Perché? » «Ve lo impediranno » . «Mi assassineranno? » «Vi puniranno… » . «È la stessa cosa » . «No; il boia punisce e non assassina… Essi sono esecutori di giustizia » . […]

La giustizia dei Beati Paoli è redistributiva in un modo proporzionale. Tu fai il male e ricevi il pegno.

Pag. 514 “[…] « Ah no!», interruppe vivamente il capo dei Beati Paoli; «vacilla soltanto la fede nella caporali; non paghiamo giudici; non cerchiamo nei codici gli arzigogoli per contestare l’ingiustizia. Apriamo l’orecchio e il cuore alle voci dei deboli, di coloro che non hanno la forza di rompere quella fitta rete di prepotenza, entro la quale invano si dibattono, di coloro che hanno sete di giustizia e la chiedono invano e soffrono. Chi riconosce la nostra autorità? Nessuno. Chi riconosce in noi il diritto di esercitare giustizia? Nessuno. Ebbene, noi dobbiamo imporre questa autorità

e diritto e non abbiamo che una arma, il terrore, e un mezzo per servircene, il mistero, l’ombra. Non ci nascondiamo per viltà, ma per necessità. L’ombra moltiplica il nostro esercito e desta la fiducia di coloro che invocano la nostra protezione. Chi non oserebbe ricorrere a un magistrato legale per difendere se, la sua casa, l’onore delle sue donne, perché il ricorso lo esporrebbe alle ire, alle rappresaglie, alle vendette del barone o dell’abate, confida volentieri nell’ombra il suo dolore e la violenza patita; un uomo che egli non vede, non conosce, raccoglie il suo lamento. Noi vediamo se egli ha ragione. Un avvertimento misterioso giunge al sopraffattore nel suo palazzo stesso, al magistrato complice nel suo scanno; l’ascoltano? Non cerchiamo di meglio: lo disprezzano e compiono la prepotenza, e continuano l’offesa? Puniamo, e vendichiamo l’offesa. Nessuno vede il braccio punitore, nessuno può dunque sottrarvisi… Questa è la nostra giustizia. Essa non ha punito mai un innocente, ed ha asciugato molte lagrime». […]”.

Il testo del romanzo è corredato da un vocabolario alto e pieno di riferimenti di luoghi e mestieri. Traspare una sapiente e superlativa conoscenza della lingua italiana. In più i non detti dei protagonisti mostrano la profonda, antica e complessa cultura siciliana, nelle interiezioni, nelle frasi ammiccate, nelle analogie, nelle metafore. Ogni frase e ogni smorfia ha significati multipli. Dalle movenze e dai toni, alla apparente impassibilità, emerge un mondo di sentimenti e intenti.

Pgg.722-23 “[…] «Sangue, sangue!… Le mie mani grondano sangue!… Toglietemi questo sangue; portate via questi morti!… Pietà!… pietà!… Mi opprimono. Mi squarciano il cuore… Ah!… quanto sangue! affogo!… affogo!… affogo!…». La sua voce andò spegnendosi tra i singhiozzi che gli squassavano il petto e nulla era più straziante che vedere quell’uomo lordo di sangue, con le mani distese come per allontanare qualche cosa di terribile, gemendo fra i singhiozzi che gli laceravano il petto, con gli occhi aridi, esterrefatti. Don Francesco gli si avvicinò di nuovo per rifargli la fasciatura, ma don Raimondo stridette e riprese a gridare: «Non mi toccate!… non mi toccate! Tutto sanguina!… Il sangue è dovunque… Un fiume!… E ce ne vuole ancora. Hanno i pugnali e ammazzano… Ammazzano!… Ammazzano!… Dov’è Blasco?… C’è anche lui!… Ecco l’hanno ammazzato!… Sangue!… c’è sangue!… sempre sangue!… sempre sangue!…». […]”.

§CONSIGLI DI LETTURA: La sanfelice

Alexandre Dumas. LA SANFELICE.

Adelphi Edizioni, Milano 1999 (gli Adelphi 144).

Titolo originale: “La San Felice”.

Traduzione di Fabrizio Ascari, Graziella Cillario e Piero Ferrero. Cura editoriale di Emma Bas.

Cura redazionale di Pia Cigala Fulgosi e Stefano Zicari.

Alexandre Dumas era considerato uno scrittore “classico” già prima che i nostri nonni fossero nati. Senza aver letto alcunché delle sue opere, alla fine del 1800, alcuni personaggi dei suoi romanzi erano riconosciuti dai letterati e dal pubblico, archetipi dei tipi e dei comportamenti umani. Si pensi ai “Tre moschettieri” e al “Conte di Montecristo”. Vi sono altri romanzi meno noti, ma incisivi nel delineare tratti universali del nostro animo.

Era uno scrittore dotato di una memoria eccezionale, di una capacità investigativa e di ricerca superlativa e di una creatività inesauribile. In più, oltre a saper descrivere in modo minuzioso il contesto attraverso i dialoghi dei personaggi, caratteristica che discrimina la grandezza di un romanziere, è un antropologo moderno. L’osservazione degli usi, dei costumi, dei tratti fisici delle persone e dei luoghi, è di un livello pari agli etnologi, agli antropologi culturali moderni.

Viaggiò molto, massone e repubblicano. Amico di Giuseppe Garibaldi, fedele ai principi della rivoluzione francese, affine alla visione di Mazzini per una “Giovine Europa”, cementata dalla fratellanza e dalla libertà dei popoli.

“La Sanfelice” parla dei popoli e delle genti dell’Italia del sud. Del Regno delle due Sicilie, e in particolare di Napoli. Alexander Dumas visse a Napoli dal 1860 al 1864 circa, esule dalla Francia, e poi ancora dalla stessa Napoli e dai napoletani. Duramente critico, eppure di loro innamorato. Agì da “ministro dei beni culturali”, adempiendo con scrupolo al suo ufficio.

“La Sanfelice” apparve a puntate sul quotidiano parigino «La Presse» fra il 15 dicembre 1863 e il 3 marzo 1865 – e, con uno scarto di qualche mese (10 maggio 1864 – 28 ottobre 1865), sull’«Indipendente», il giornale che proprio a Napoli Dumas aveva fondato e diretto. Pressoché contemporanea l’edizione in nove volumi di Michel Lévy, Parigi, 1864-1865.

Suo padre partecipò alle guerre napoleoniche in Italia, e qui fu imprigionato per 25 mesi. Recarsi a Napoli fu anche un’occasione di riflessione sulla rivoluzione francese, sulla degradazione dei principi repubblicani per opera di Napoleone, sulle monarchie repressive europee, e in particolare con i Borboni e con gli stessi napoletani, che nel periodo tra il 1798 e il 1799 uccisero e si uccisero tra di loro, in modo che noi diremmo oggi barocco, esagerato, arrivando ad atti cannibalici contro i propri avversari. Un popolo di vinti perenne, tenuto a bada e volutamente diviso dai potenti, timorosi dai suoi scoppi improvvisi di ira, pieni di voluttà di sangue. Vi sono descrizioni truci, quasi da film dell’orrore, purtroppo verosimili.

Di prima lettura sembra che Alexander Dumas abbia scritto “La Sanfelice” per pareggiare il conto nei riguardi di quel regno che già allora era disprezzato per la sua arretratezza dalle coorti europee e dai suoi regnanti. Nel libro vi è una descrizione dei potenti, carica di ironia a tratti. La grandezza di quest’opera emerge dalla capacità di squadernare in modo quasi fotografico l’ambiente e le trame e le piccolezze dei potenti e del popolo.

Sarebbe limitato però fermarsi alla prima impressione, perché vi è anche una esaltazione della generosità degli stessi napoletani e degli altri personaggi del sud d’Italia, anche nel combattere tra di loro. Alexander Dumas l’avverte ed è rispettoso di queste terre, ricche di passato, e in realtà complesse, impossibili da qualificare con sguardi affrettati dai propri pregiudizi.

Fa bene leggere quest’opera perché immedesimandosi nei protagonisti realmente esistiti e in quelli inventati, ma verosimili nelle loro gesta ed azioni, storicamente determinate giorno per giorno, si sentono nel proprio animo, i dolori, le speranze, le paure, lo strazio, l’amore provato. È un romanzo lungo, ma ricco di sentimenti ed emozioni.

Vi è l’onestà intellettuale di comunicare al lettore la veridicità dei fatti storici attraverso i documenti realmente esistenti, e alcuni eventi delle scene, dispiegati attraverso la fantasia dello scrittore. E fu questo il successo iniziale da parte del pubblico, perché si sentiva partecipe di questo appuntamento bisettimanale, e mensile, pari a una telenovela brasiliana per la lunghezza dei mesi, nonostante si sapesse già la fine e la sorte dei protagonisti.

“La Sanfelice” nasce da esigenze personali, politiche, di lavoro ed estetiche, ed è un libro pianificato, e scritto passo passo per 18 mesi, attraverso ricerche storiche correlate, testimonianze e controlli in loco dei luoghi descritti. È una creazione estetica mediante un lavoro da storico e da antropologo. L’autore interviene direttamente nel testo per serrare le fila e precisare al lettore ciò che è scaturito dalle ricerche e dalle sue valutazioni.

Allora ed oggi, il lettore si sente a suo agio e ha fiducia nell’autore, perché mostra senza giri di parole, i suoi intenti e li delimita, permettendo al pubblico, il godimento nell’approccio di lettura.

Alexander Dumas offre un quadro del nostro passato e di quello che ancora di esso abbiamo, da osservatore partecipante, addolorato, critico, ma in fondo innamorato dell’Italia e di Napoli.

“La Sanfelice” è un tesoro cui attingere le tecniche di scrittura dei dialoghi, e della ricchezza nel mostrare l’animo umano, le caratteristiche morali e fisiche delle persone, dei luoghi e le tracce di ricostituzione della nostra memoria inconscia, all’interno di processi storici ben determinati.

Ed è utile per esercitare le capacità di analisi quasi sociologiche. Un esempio tra tutti:

Pgg. 334-35

“[…] Ma a che è dovuta questa differenza fra gli individui e le masse? Perché a volte il soldato fugge al primo colpo di cannone e il bandito muore invece da eroe?

[…]

Ecco i princìpi essenziali:

Il coraggio collettivo è la virtù dei popoli liberi.

Il coraggio individuale è la virtù dei popoli che sono soltanto indipendenti. Quasi tutte le popolazioni di montagna – gli svizzeri, i corsi, gli scozzesi, i siciliani, i montenegrini, gli albanesi, i drusi, i circassi – possono benissimo

fare a meno della libertà, purché si lasci loro l’indipendenza.

Passiamo a spiegare che differenza enorme ci sia fra queste due parole: LIBERTA’

e INDIPENDENZA.

La libertà è la rinuncia da parte di ogni cittadino a una porzione della sua indipendenza per costituirne un fondo comune che si chiama legge.

L’indipendenza è per l’uomo il godimento completo di tutte le sue facoltà, l’appagamento dei suoi desideri. L’uomo libero è l’uomo che vive in società, che sa di poter contare sul suo vicino, il quale a sua volta fa affidamento su di lui. E, essendo disposto a sacrificarsi per gli altri, ha il diritto di esigere che gli altri

si sacrifichino per lui. L’uomo indipendente è l’uomo allo stato naturale. Si fida

soltanto di se stesso. I suoi unici alleati sono la montagna e la foresta. La sua difesa, il fucile e il pugnale. I suoi aiutanti sono la vista e l’udito.

Con gli uomini liberi si costituiscono degli eserciti.

Con gli uomini indipendenti si formano delle bande.

Agli uomini liberi si dice, come Bonaparte alle piramidi: «Serrate le file!».

Agli uomini indipendenti si dice, come Charette (85) a Machecoul: «Divertitevi, figlioli!».

L’uomo libero si leva alla voce del suo re o della sua patria.

L’uomo indipendente si leva alla voce del proprio interesse e della propria pass ione.

L’uomo libero combatte.

L’uomo indipendente uccide.

L’uomo libero dice: «Noi».

L’uomo indipendente dice: «Io».

L’uomo libero è Fraternità.

L’uomo indipendente non è altro che Egoismo.

Ora, nel 1798, i napoletani erano ancora nella fase dell’indipendenza. Non conoscevano né la libertà né la fraternità. Ecco perché furono sconfitti sul campo da to cinque volte meno numeroso del loro.

Ma i contadini delle province napoletane sono sempre stati indipendenti.

Ecco perché, alla voce dei monaci che parlavano in nome di Dio, alla voce del re he parlava in nome della famiglia, e soprattutto alla voce dell’odio che parlava

in nome della cupidigia, del saccheggio e della strage, si sollevarono tutti.

[…]”

Oggi noi potremmo criticare questa divisione così netta, ma quello che interessa osservare è che, in base agli eventi descritti precedentemente, Alexander Dumas fornisce la sua chiave interpretativa nel delineare gli eventi.

Il lettore è coinvolto in prima persona e sente di essere rispettato nella sua intelligenza e nella sua capacità di riflessione.

Alexander Dumas mentre parla del passato della sua famiglia, di sé e delle sue convinzioni, ha la mirabile capacità di costringerci in modo inconscio a guardare a noi stessi, alla nostra storia e a riflettere sul presente di oggi.

§CONSIGLI DI LETTURA: STORIE DELLA TUA VITA

Ted Chiang, Storie della tua vita Traduzione di Christian Pastore, Frassinelli, SPERLING & KUPFER. Prima edizione 2002, prima edizione italiana 2008., Milano.

Questi racconti di fantascienza cesellati con una cura maniacale per il ritmo imposto alla narrazione degli eventi, prospettano in evidenza problemi etici e teoretici. Ted Chiang è un informatico di professione e lo si avverte quando tratta i temi della programmazione, del linguaggio, della cibernetica e dell’intelligenza artificiale. È uno scrittore che estende il suo sguardo alla religione e all’aldilà. Dispone prospettive coerenti riguardo le tendenze future che ci attendono, imperniate in un fulcro che è fantascientifico.

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Nonostante l’ipotesi di partenza sia irreale, il contesto e i personaggi sono verosimili. Le tecnologie e le scoperte scientifiche pongono precise domande con la speranza di ottenere risposte sul destino dell’umanità e sul suo scopo.

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La spinta a interrogare il cosmo e se stessi corrisponde alla convinzione della propria infinita inadeguatezza risolutiva che fa da traino alla tensione narrativa. Il lettore, lentamente, nel prendere confidenza con lo scenario fantascientifico, si sente coinvolto dal problema etico e sociale emergente.

Molto è stato scritto su questi racconti che partono dal 1990 e sono facilmente reperibili in grandi quantità anche nella rete web. Io vorrei esporre una chiave di lettura ulteriore, in particolare sul racconto che fa da titolo alla raccolta e che è stato utilizzato anche per un film del 2016 “Arrival”.

Nel racconto la realtà ha una visione sincronica, dove il futuro e il passato combaciano aderendo all’amor fati, nell’accettare ciò che si è e a cui si è destinati.

Sottolineo due passi:

“[…] Analogamente, la conoscenza del futuro era incompatibile con il libero arbitrio. Ciò che mi rendeva possibile agire liberamente mi impediva al tempo stesso di conoscere il futuro. Adesso che conosco il futuro, al contrario, non agirei mai in contrasto con esso, e questo significa anche non rivelare agli altri ciò che so. Chi conosce il futuro non ne parla. Quelli che hanno letto il Libro delle Ere non ammetteranno mai di averlo fatto.

[…]

Conoscevo la mia destinazione fin dal principio, e scelgo la mia strada di conseguenza. Ma vado verso una gioia estrema, o verso un estremo dolore? E ciò che realizzerò sarà un minimo, o piuttosto un massimo? […]”

Ted Chiang espone al lettore i suoi dilemmi attraverso una tecnica narrativa che è coerente e conforme alle premesse iniziali della storia.

In tutti i racconti vi è il tema contraddittorio della libertà che è discusso in un modo iper analitico. Le domande poste in questi due passi, contengono ipotesi nascoste che un linguaggio formale non può conoscere in modo esplicito, perché esterne ad esso. Se si conoscesse il futuro, si determinerebbe ogni evento e ogni mia e altrui decisione di chi ha a che fare con me. E qui emerge il punto che Chiang da eccellente logico-programmatore-cibernetico conosce molto bene. Ogni decisione è al minimo tra due possibilità. Io decido di mangiare o di non mangiare una mela. La possibilità è tale perché ora io nel tempo, ancora devo agire in conformità a ciò che decido. Nel momento in cui decido di prendere la mela e di addentarla (quindi decido di muovere il braccio e di essere sicuro che il braccio risponderà alla mia volontà e che la mia volontà è la causa scaturita da un pensare volitivo), rendo questo lato della decisione una necessità e l’altra opzione una impossibilità.

La possibilità è tale perché non so ancora ciò che avverrà nel momento seguente. Io sono pensante qui. Questa è l’ipotesi di sfondo dei due passi. Ripeto: è una ipotesi sotto intesa, non provata e posta come un assioma logico, semplice e indubitabile.

Nel racconto accade invece che io conosco il futuro, e che quindi conosco l’esito dei miei atti volitivi. In questo caso la possibilità non esiste, perché ogni atto è già accaduto ed accadente attraverso me: ogni evento è necessario.

Ricordo che tutto questo argomento è partito dall’assunto che la possibilità esiste, e quindi posso dire le parole, cioè decidere e scegliere, sicché da questa ipotesi giungo a un paradosso che afferma la non esistenza della possibilità. Attenzione: non che sia impossibile, ma che la totalità del mio e del nostro vivere è integralmente necessario.

Come ci siamo finiti? L’autore ci sta prendendo in giro? No. Anzi qui è molto serio e lascia il dilemma insoluto. È esploso nelle sue mani, e non poteva che essere così, perché la struttura è coerente, adeguata e conforme alla trama del racconto.

Qui è il nodo. Nel racconto, secondo il mio modesto parere, che lascio da criticare a chiunque sia arrivato a leggere sin qui, quando si postula la possibilità come un assioma, oltre a commettere l’errore di considerarla come sotto intesa, si intende inconsapevolmente che sia primitiva e che non vi siano altri assunti precedenti in modo logico.

Ve ne sono? Poiché la possibilità è nel tempo, allora le cose, gli atti, le decisioni devono essere infinite ed indefinite.

Se poi, associo alla nozione di possibilità, l’assunto composto che esista l’amor fati e che io dica sì (cioè conosca) il mio destino, cioè il mio futuro, il presente risulta una individuazione dell’identità tra il passato e il futuro. Affinché tutto ciò sia coerente (e Ted Chiang è fedele alla coerenza), allora le cose conosciute si raggruppano nella totalità delle cose conosciute, e questa totalità diventa essa stessa un oggetto, seppur di estensione infinita, ovvero diventa limitata: definita.

Cosa fa allora la protagonista del racconto? Nella premessa intende che la totalità sia infinita ed indefinita nel tempo, e poi nella conclusione, usando l’Amor Fati come connettore logico, la intende come finita.

Questi due passi, costituiscono una contraddizione dove si dice “a è vero= possibilità infinite” nella premessa e poi si offre un giudizio nella conclusione dove “a è falso=possibilità finite, ovvero la possibilità è necessità”.

La grandezza di questo scrittore risalta anche nella sua onestà intellettuale che mostra i limiti dei suoi intenti, in modo pudico e discreto.

Credo che Ted Chiang, oltre ad essere un professionista serio per tutto quello che fa, sia anche una bella persona.

§CONSIGLI DI LETTURA: FACCIO MUSICA

Ezio Bosso Faccio musica Scritti e pensieri sparsi. A cura di Alessia Capelletti Prefazione di Quirino Principe.

Che bel dono che ci hai fatto con il tuo vivere Ezio Bosso..

Che regalo è questo libro nel camminare tra note e timbri di vita, tra suoni del cuore e melodie di concetti, trascritti in una biografia itinerante ancora in corso per noi lettori, e compagni di strada.

Il colloquio di Ezio Bosso, suddiviso in argomenti editoriali, individua un flusso continuo dell’impegno ad agire, praticando musica tra valori e pratiche di vita, dove il proprio vivere è anche uno strumento che riverbera il tratto comune di ogni vivente che esperisce la bellezza.

Poiché il mutamento delle onde sonore distillate nei secondi che scandiscono il ritmo del proprio passare nel tempo, cantano del panorama delle emozioni che passano dallo sgomento, al timore, e allo stupore, l’orizzonte è ordinato da un impegno etico, in cui si dichiara la testimonianza del proprio impegno a dire di sì al vivere che è bello, e che di tutti è l’essenza e quindi impossibile da afferrare e a ridurre come oggetto. La comunanza con ogni altro vivente incarna la pratica di questa testimonianza: vivere nella bellezza che è buona e saggia, provando la propria limitatezza infinita, nell’impossibilità a fermarsi in una opinione o in punto di vista che si crede perno del mondo e degli altri.

Nella consapevole sincerità di non poter negare ciò che nel bello noi si sia destinati per ogni desiderio più recondito anche se oltraggiato da pulsioni malevole, l’agire comune si individua singolarmente nel fare e nel patire della musica, come messaggio universale di vita, che è buona e infinitamente meravigliosa, anche all’interno del nostro ciclo limitato di vita in cui noi stessi ci facciamo risonanza di questa eterna melodia.

Comune è a tutti, ma per qualcuno, l’impegno è così coerente e limpido da poter essere accreditato come esempio vivente cui noi si possa trarre agio e sicurezza, nell’accostarci in questa ala protettiva. Le parole del libro invitano ad aprire le nostre possibilità di esistenza, che da sempre attendono la nostra attenzione, ma che, richiedono impegno e sincerità, che è appunto il vivere incarnato da Enzo Bosso.

Il suo vivere attraverso il suo corpo è l’indicazione di una strada percorribile dal lettore: una possibilità di vita.

Pag. 18 “[…] Oggi ho capito che un vero Maestro non è chi ti dice cosa fare, ma chi capisce chi sei e ti indica il tuo cammino […]”

Perché con la musica si nasce e si rinasce: si fa, e si fa noi stessi.

Pag. 24 “[…] La musica trascende e ci fa trascendere. Dai nostri difetti come dalle nostre difficoltà. È stata una vera rinascita, sì l’ho vissuta come una rinascita, ma con la memoria di una vita passata o tante vite passate. […]”

Tante vite passate che si riverberano nei limiti e negli impedimenti che si hanno nel vivere musicando, come le esigenze economiche, i progressivi impedimenti fisici che obbligano a ritornare indietro, per rendere presente l’attimo iniziale di studio. Proprio ciò che era considerato un limite dai più, cioè la tendenza a non fermarsi a musicare con un solo strumento, ma ad agire attraverso e intorno le orchestre, componendo all’interno di ogni sezione, e dirigendo attraverso il pianoforte, nelle infermità, divenne una risorsa atta a percorre nuove strade di vita e quindi sonore.

Tale unicità coinvolge il suono integrandolo tra fiato, percussione, arco, e tasto: il timbro di un uomo suona ogni singolo strumento, pensandolo come un’intera orchestra.

Pgg. 37-8 “[…] Noi siamo ciò che amiamo, noi siamo il risultato dell’amore, perciò quando componiamo, quando creiamo partiamo da ciò che amiamo. Ed è inutile e, a parer mio, anche un po’ stupido, pensare di essere il futuro, ma la vera responsabilità di un compositore è di essere il ponte che collega il presente col futuro. Poi io preferisco dire: scrivere musica. E non comporre musica, mi sento uno scrittore di musica. […]”

Essendo l’amore è una tendenza infinita, il movimento del musicare è un divenire del miglioramento di sé che si nutre anche dell’ascolto, e ciò, come in un solfeggio dall’alto in basso, riverbera tale mutamento nel proprio compagno orchestrale e nel pubblico, che sente allargare il suo spazio estetico.

Pag. 42 “[…]  Alla fine, se il disco è una foto, io non voglio una mia foto perfetta, ma voglio una foto di cui il pubblico, l’ascoltatore possa magicamente sentirsi parte di quella foto, protagonista di quella foto, possa sentirsi dentro quella foto. […]”

Perché il pubblico, l’esecutore, il compositore, tutti, entrano in ogni nota che è il teatro in cui la scena del vivere di ognuno trascende in un atto di comunanza che dichiara la responsabilità della bellezza in dono per incarnarla. Tutti diventano belli nel partecipare di ogni nota che è il timbro della bellezza, attraverso il suono.

Proprio perché ognun di noi è strumento che conferisce il senso al suono, nel linguaggio delle note, per ogni singolo accadimento, vi è l’infinito miglioramento nel renderci consapevoli di essere da sempre in una comunità musicante.

Pag. 76 “[…] perché alla fine di tutto una musica per essere davvero libera entra nella pancia, passa per il cuore e fa muovere la testa. E quando queste tre cose si muovono insieme diventiamo noi stessi davvero liberi. […]

Pag. 100 “[…]  Per questo io parlo di musica libera piuttosto che di musica classica. Ti costringe a essere ponte fra passato e futuro, a liberarti da te stesso. La nostra è una società che ha bisogno di definire e non ti permette di essere te stesso. […]

Fare la musica assieme.

Pgg. 116-17 “[…] La tv è la tv e io voglio uno studio televisivo, voglio i lustrini, le luci colorate, perché la vera scommessa non è portare il teatro, l’auditorium così com’è in tv, quello lo fa Rai5 e tocca sempre le solite corde già suonate, ma fare della musica di Beethoven un soggetto della tv per ciò che è la tv popolare, quella che entra nelle case e diventa il focolare attorno a cui vive la famiglia italiana. Quella che c’è anche quando non l’ascolti, quando non l’hai accesa tu, ma tu sei lì e magari ti fermi e la guardi. Tu pensi a un documentario, perché è più facile e scontato, ma io no, io voglio Beethoven protagonista della tv nazionalpopolare e ciò nonostante fatto bene, benissimo, fatto al massimo delle nostre forze, per tutti. […]”

Più volte è scritto che aveva una fragilità di cristallo imperniata su una determinazione di ferro a proseguire con disciplina e dignità da e verso il suo operato.

Fu un diamante duro, inscalfibile, ma con la possibilità di crepare internamente per suoni rancorosi, contraddistinti da una aggressività gratuita.

L’intento di rendere la piazza, un teatro concertante tra il pubblico, gli interpreti e i compositori mostra indirettamente la condizione dell’accesso al pubblico, a ognuno di noi, nel partecipare attivamente al suono che è il timbro musicale di una comunità. E non è un caso che Ezio Bosso nelle diverse interviste del libro ritiene che la visione politica della musica come mero intrattenimento sia la condanna a morte di essa.

Gli attacchi che ebbe Ezio Bosso furono così duri, irragionevoli perché, al di là dei suoi intenti pedagogici e musicali, egli attuò una pratica politica a tutto campo di partecipazione democratica che mostra la possibilità di ognuno di incarnare pienamente la propria cittadinanza alla bellezza.

Ezio Bosso prima di suonare ci fa entrare nella sua dimora sonora. È colui che apre la porta, e indica il luogo dove ognuno possa stare a suo agio: “fa entrare la gente” nella musica, sia lo spettatore sia l’esecutore. Tutti assieme in un convivio in cui le note ricevono timbro e frequenza in base alle esigenze dei singoli. Qui si connota l’incontro musicale partecipato che trascende l’armonia interiore delle aspettative ludiche, estetiche e corporee dei partecipanti.

La dimora trasmuta in una piazza che trascende il luogo in cui avviene l’incontro per investire in differita nella linea del tempo, altri ospiti che ricevono ulteriori appigli per incontrare l’avventura inesausta di quella voce che rende simile il dissimile: la musica come origine dei linguaggi.

Ci si potrebbe domandare cosa volesse dimostrare Ezio Bosso con il suo approccio fisico, totale, nel fare musica:

pag. 247  “[…] Non ho niente da dimostrare. Per me bisogna ritornare allo scambio. Nello statuto che abbiamo fatto, nella casa che vorrei, tutti partecipano perché di fatto tutti partecipano e completano il fenomeno della musica. Lo completano attraverso che cosa? Attraverso la cosa più profonda che esiste: il silenzio condiviso. Come dico spesso in alcuni miei concerti: «Prendetevi la responsabilità del silenzio del vostro vicino. Non del vostro», un po’ petrolinianamente. Però sei tu responsabile, sei tu che devi spiegargli cosa succede a stare in silenzio, a non guardare il telefono, a spegnere il telefono. […]”

Il testo descrive la sua musica itinerante nella quale si evidenzia l’etica che predispone l’offerta di sé, fino a simulare la propria scomparsa, ma, che in realtà, nell’atto sonoro, ritorna tutto se stesso, pieno con la traccia di tutti, assisi lì e qui in un convivio continuo. La relazione è attorno e oltre la comunicazione inter mediatica del clic e della condivisione, nell’attimo che nega di essere una successione di un atto in un discorso sordo.

Ezio Bosso, invece, non usa complementi di specificazione od oggetto. No. Si lancia dentro l’atto musicante e se si è musicisti e pubblico in quel momento, è impossibile non seguirlo, e quindi dimenticare tutti noi stessi, nel seguire la corrente di questo tempo che trascende il singolo giudizio. Tutti perennemente inadeguati per la spinta irresistibile a questo bello primordiale, e mai compiuto.

Che bel dono che ci hai fatto con il tuo vivere Ezio Bosso..

§CONSIGLI DI LETTURA: IL CONTE DI MONTECRISTO

Il Conte di Montecristo – Alexandre Dumas Pubblicato su www.booksandbooks.it

Grafica copertina © Mirabilia – www.mirabiliaweb.net

Un capolavoro che ha viaggiato nei secoli. Di tutto è stato scritto per temi comuni dell’animo umano: la vendetta, l’avidità, l’invidia, la brama, la voglia del potere, la disperazione, la compassione, la timida richiesta d’amore.

Il tentativo di scrivere qualcosa di nuovo in merito è a dir poco contraddistinto da una goffa presunzione.

Può essere invece utile approfondire qualche elemento che risulta urticante in questi giorni di isolamento forzato.

Essendo un libro scritto a puntate per le riviste, l’autore richiama gli eventi ad ogni capitolo. I personaggi sono generosamente caratterizzati con un’abbondanza di aggettivi. Frequentemente si ha la sensazione di leggere un copione di teatro in cui l’inizio vi è l’illustrazione della scena da interpretare. Vi è la spasmodica volontà di far percepire i luoghi in carne ed ossa. Con gli strumenti multimediali la lettura è divenuta un accessorio, scarno nella sintassi, perché deputato a riferire immagini, legami, suoni, strutture relazionali. Per noi contemporanei risalta molto di più di un tempo il ritmo narrativo denso e corposo, sovrabbondante di segni e di significati.

Il tema dell’isolamento carcerario è il perno che determina i vettori della trama che si snoda per decenni. Sebbene il protagonista riesca ad evadere dall’antro del Castello d’If, la cella rimane nell’animo, risaldata dal dolore, dalla consapevole disperazione di aver avuto una vita sottratta, da una volontà di vendetta che acquisisce il ruolo di guardiano della gabbia del cuore. L’ossessione di perseguire la restituzione di ottener memoria di ciò che si è stati e del proprio dolore verso i carnefici e quindi verso il mondo, è il motore che snoda gli eventi e i pensieri, energico e inarrestabile, ma vorace dei sentimenti e dei moti emotivi di chi fu violato ed oltraggiato.

Il Conte di Montecristo intraprende un progetto che lo coinvolgerà totalmente per anni e anni quasi a eguagliare quelli di prigionia. Ritorna nei luoghi passati e cerca i protagonisti cari e i suoi carnefici. In più si pone in relazione con i loro figli. Nel libro vi è una simmetria che denota uno stile di contrappasso, perché ogni protagonista nelle fortune e nelle ascese in società, oppure nelle sconfitte, è costretto a negare il suo passato. Ognuno si separa dalle proprie memorie, isolandosi in una gabbia del presente per non vedere ciò che fu e per negare le proprie bugie e le correlative meschine brame.

Il paradigma carcerario è sovrano, perché scandisce gli eventi e orienta il destino dei personaggi. Proprio perché isolate nel carcere delle proprie omissioni, le relazioni assumono parvenze di significati, ambigue come fuochi fatui che esalano da una finestra di una cella.

Il protagonista separa gli antagonisti da se stessi, togliendo anche il loro presente, nel negare le possibilità di poter continuare in quella stasi.

Nel momento in cui si arriva al culmine della perdita di senso tra il passato e il presente, la vita scarnificata mostra la ferita che da sempre lì rimase: incatenata alla lugubre paura dell’oblio.

Il tentativo di uscire dalla caverna fredda dell’odio, comporta il pegno da pagare che è il dolore. Il farmaco che cura è quello che dispera di sé e di tutto. Si rimane nel carcere se si tenta di fuggire da esso, perché la cella del proprio animo è creduta il rifugio sicuro che, però, come una spirale, esige il tracollo della propria dignità.

E alla fine rimane il tentativo di lasciar uscire la propria umanità, attraverso il gigantesco atto eroico della compassione. Atto glorioso che forse attende noi tutti, qui, oggi, in questo carcere mondiale di mascherine e di timore d’abbracciar il cuore altrui.

§CONSIGLI DI LETTURA: IL CICLO DI VITA DEGLI OGGETTI SOFTWARE

Il ciclo di vita degli oggetti software, dI Ted Chiang, (The Lifecycle of Software Objects), 1ª ed., Burton (Michigan), Subterranean Press, 2010, traduzione di Francesco Lato, Odissea Fantascienza, Delos Books, 2011.

È un’opera che vale la pena da leggere, perché ci costringe a riflettere sulle conseguenze delle nostre azioni nel voler disporre degli altri.

Ana Alvarado, dopo aver lavorato come istruttrice in uno zoo, accetta un nuovo incarico presso la Blu Gamma, un’azienda informatica che ha creato avatar denominati “digienti”, per i quali avrà la funzione di loro educatrice, in collaborazione con gli sviluppatori del software, tra cui Derek Brooks.

La ditta concorrente SaruMech sviluppa un robot che consente ai digienti di interagire con i proprietari nel mondo reale. Altre ditte sviluppano ambienti virtuali più sofisticati dove si può giocare in modo più invasivo, sicché i clienti rendono indietro i loro giocattoli. Alcuni proprietari, però, sono entrati in empatia con i propri digienti, e per non farli sospendere (l’equivalente di una eutanasia), si costituiscono in una associazione per reperire fondi e sponsor, utili per sovvenzionare un loro aggiornamento software, tale da permettere una trasmigrazione in ambienti virtuali più avanzati di uso commerciale.

Ana adotta Jan e Derek i due digienti Marco e Polo e per anni, insieme a pochi altri li tengono in attività, e trascorrono molto tempo con loro, come se fossero dei genitori. I digienti sembrano entrare in uno stato simile all’adolescenza. Ana e Derek non si avvedono che stanno traslando la loro personalità sia nel mondo virtuale sia con esperienze nel mondo fisico con i robot collegati ai digienti.

Derek vorrebbe tramutarli in una “corporation”, cioè soggetti giuridici in tutto e per tutto. Ha timore che se lui morisse, vorrebbe che Marco e Polo non fossero sospesi. Nello stesso momento Jax il digiente di Ana, non vuole controllare un avatar a distanza, ma vuole essere lui un avatar, e quindi anche il robot. Soffre di solitudine e vuole che il suo io non sia scisso dal corpo.

Mancano i soldi per mantenerli. La ditta Desiderio Binario contatta Ana per addestrare i digienti superstiti per trasformarli in oggetti sessuali che si adattino ai desideri dei clienti, diventando attraenti, affettuosi e appassionati di sesso. Un’altra possibilità è che Ana lavori per la Polytope mettendosi cerotti di droga per creare un temporaneo legame affettivo con i digienti, al fine di veicolarli nei loro schemi emotivi. Un’altra offerta proviene da alcuni sviluppatori per robot domestici che si occupano di intelligenza artificiale. Però questi ultimi non vogliono creare umani avatar, quanto una intelligenza superumana. Non vogliono dipendenti – corporation, ma prodotti super intelligenti.

Ana è inorridita da tali proposte. Sa che l’esperienza è algoritmicamente incomprimibile e che ogni  digiente merita rispetto.

In questo romanzo vi è un dilemma etico: l’automa che incorpora sapere e comportamenti dettati da prescrizioni morali, ha titolo a porre relazioni sociali giuridicamente autonome con gli umani?

Ana si rende conto di esser diventata una “madre” per Jax. Si chiede se suo “figlio” sia libero di sbagliare e di voler ridursi a oggetto sessuale, sottoponibile anche a tortura.

se sceglie di lavorare nella società Desiderio Binario, il cervello chimicamente alterato sarà quello del digiente. Se lavorerà per la Polytope, il cervello chimicamente alterato sarà il suo.

Marco e Polo, i “figli” di Derek invece non vogliono che Ana scelga di lavorare per la Polytope, e in un certo vorrebbero sacrificarsi, affermando di essere consapevoli di ciò cui vanno incontro. E qui invito alla lettura per la prosecuzione della trama.

*****

Un processo di apprendimento può comportare la trasformazione del software in qualcosa di altro?

Nel testo si avverte un senso di separatezza da parte dell’autore rispetto ai personaggi e degli umani verso i digienti a parte Ana ed Derek che intendono instaurare un legame empatico, solidaristico, filogenetico, teso ad attribuire la morale e l’etica ad oggetti. Posto che il mondo è gelido e brutto, si vuole che i digienti diventino soggetti umani, tali da essere portatori di diritti e doveri.

Quest’opera sembra denotare una struttura di cicli software interrotti dove si ritorna alla stessa domanda che pone il dilemma. E si cerca di uscire. Si vede che l’autore è anche un programmatore. Poiché i personaggi virtuali tentano di uscire dai loro schemi di azione, la narrativa segue tale spinta. Le azioni sono ridotte a dialoghi. I tempi virtuali e reali risultano giustapposti e compressi. Da questo straniamento stilistico emerge nel modo più crudo il dilemma.

La domanda etica è lo stesso programma che ritorna su se stesso. Un apparente paradosso che mostra il mutamento degli oggetti informatici sia nel mondo virtuale sia nelle loro applicazioni nel mondo dei senzienti.

È un’opera strutturalmente incompiuta, perché il tema è posto al lettore, affinché sia spinto a fornire nuove parole sulla nozione di soggetto nel momento di deliberare su di sé e nel mondo.

Il non detto di tale domanda è il limite che dobbiamo porre nel nostro di agire.

Sembra un libro scritto da un digiente: una costellazione di appunti verso una avventura intellettuale sulla realtà, da parte di un io del corpo che viaggia ed è nei due mondi.